Civitavecchia e Val Di Susa, i no che non possiamo dire

febbraio 14, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Messaggero

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Forse questa volta la scommessa populista potrebbe rivelarsi un azzardo. Intendo quella del presidente della Regione Lazio che ha deciso di bloccare la riconversione a carbone della centrale di Civitavecchia e di richiedere all’Enel un nuovo progetto industriale basato sul gas.

Un azzardo nella scelta di tempo. In un momento in cui tutto il paese prende coscienza di quanto rischiamo con la dipendenza crescente da una fonte energetica (il gas), da un unico fornitore (l’Eni e i suoi tubi), da pochi produttori (Russia e Nord Africa), il presidente Marrazzo decide di andare contro corrente bloccando quella diversificazione di fonti che tutti, indipendentemente dal colore politico, raccomandano come scelta di puro buon senso.
Un azzardo tecnico ed economico. Il ’68 è riuscito a renderci avvertiti che la tecnica non è neutrale, e ha cercato di convincerci che le variabili economiche sono indipendenti. Ma chi governa una Regione – di più, una Regione ad alta concentrazione di imprese basate sulla conoscenza – dovrebbe mostrare di avere valutato i costi della sua proposta, sia quanto a macchinari da riordinare derivanti dal cambio di tecnologia, sia quanto a diversi ammortamenti derivanti dal diverso utilizzo della centrale. Costi che si scaricano sull’Enel, dunque sui suoi azionisti che, per il 30%, sono tutti i contribuenti. Scambiare un impianto a carbone con uno a gas alimentato da un rigassificatore non è come convertire un taxi da benzina a GPL.
Un azzardo di politica regionale. Che finirà per erodere i poteri che Marrazzo pro tempore detiene in quanto presidente della Regione. Infatti saranno in molti a pensare che la nuova Costituzione sia stata perfin timida nel correggere gli eccessi devoluzionisti della riforma ulivista in materia di energia e che sia necessario riportare queste decisioni a livello di governo nazionale.
Per questo penso che forse non tutto il male vien per nuocere: e che questa potrebbe essere la volta in cui i costi del “non nel mio cortile” ricadono su chi lo pratica, in cui si tocca con mano che il rifiuto localista non è una scommessa sempre vincente.

Sostituiamo “populismo” con “compromesso”, spostiamoci da Civitavecchia a Susa e dal governo della Regione al governo del Paese: una morale analoga si può trarre dalla vicenda dell’alta velocità Torino-Lione. Ha reso un pessimo servizio a Romano Prodi chi non l’ha avvertito del trabocchetto che si nascondeva dietro quelle parole subdole, per cui il tunnel di Venaus è fuori del programma in quanto non nominato esplicitamente, e ci rientra in quanto appartenente alla categoria delle tratte sovraccariche. Il trucchetto non è riuscito e il guaio si sta allargando a macchia d’olio. Intanto ha portato qualcuno a sfogliare le 281 pagine del programma rilevando che non solo non si parla del tunnel, ma neppure del Nord Ovest, bellamente ignorato.. Ma soprattutto mette a nudo la difficoltà attuale dell’Unione di trovare accordi non ambigui con alcuni alleati obbligati, e offre agli avversari politici il destro per pronosticarne la debolezza futura nel fare scelte di governo.

A questo punto si deve fare chiarezza. Chiarezza su due punti, uno che riguarda i no-Tav, l’altro che riguarda i loro sostenitori politici.
Ai radicali oppositori in Val di Susa si deve dire chiaramente che loro diritto è quello di rappresentare, se del caso di difendere i propri interessi: ma che non hanno nessun titolo per sapere meglio di altri quale politica trasportistica convenga al Paese. In questo la protesta della Val Susa è diversa dalle altre, da Scanzano a Civitavecchia. Perché un conto è chi si rinchiude nel proprio egoismo municipale per fare il proprio interesse, altro è chi ha l’arroganza di pretendere che così fa l’interesse di tutti. Ogni scelta è controversa, ma si dovrà pur ricordare che, dopo un decennio di studi e analisi, si è arrivati a un accordo tra Italia-Francia, che è stato firmato da Giuliano Amato, quale Presidente del Consiglio, ratificato poi dai rispettivi parlamenti, e che è stata Bruxelles a inserire l’opera tra quelle di rilevanza strategica per l’Europa e a contribuire al suo finanziamento.
E ai sostenitori politici della protesta bisogna dire chiaro che si è fatto uno sbaglio. Bisogna dirlo non in un’intervista, che può essere male interpretata, o in un articolo, che può essere contraddetto: ma con un emendamento al testo. Questa è una di quelle situazioni che più cerchi di rappattumarle e peggio diventano. In questi casi la strategia deve essere quella dello stop loss, evitare lo stillicidio degli infortuni. Certo, con questo si apre la strada a una valanga di richieste: ma sta nella sicurezza delle proprie ragioni, non nel “quod scripsi scripsi” la capacità di resistervi. L’emendamento deve aggiungere il nome del Fréjus accanto a quello del Gottardo ( ma non era in Svizzera?) e del Brennero. Forse prima si sarebbe potuto non mettere nessun nome: adesso sarebbe impossibile non leggervi una dichiarazione di impotenza, per di più proprio alla prima uscita del programma.
Se si farà chiarezza, forse anche questa potrebbe essere l’occasione in cui non tutto il male vien per nuocere.

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