di Pietro Ichino
Caro Direttore, senza la firma di tutti i sindacati, alcune parti cruciali dell’ accordo di Pomigliano perdono ogni utilità pratica: proprio quelle su cui la Fiom-Cgil pone il veto. Chiedere a Marchionne di andare avanti lo stesso significa di fatto chiedergli di accettare quel veto; e significa, soprattutto, chiudere gli occhi su di un difetto grave del nostro sistema di relazioni industriali.
Se Governo e opposizione vogliono davvero dare una mano, invece di lanciare appelli vacui e inconcludenti, farebbero meglio a correggere quel difetto. E a detassare i redditi di lavoro fino a 1000 euro al mese. La richiesta di Marchionne che l’ accordo sia firmato da tutti non è affatto eccessiva, né costituisce – come qualche commentatore ha sostenuto – manifestazione di una smania di strapotere padronale in azienda. Nel nostro sistema di relazioni industriali, unico in Europa per questo aspetto, si considera che la clausola di tregua sindacale contenuta in un contratto collettivo vincoli soltanto il sindacato firmatario e non i singoli lavoratori; può così accadere che un sindacato non firmatario – anche se minoritario – proclami uno sciopero per paralizzare una o più clausole del contratto. E che a quello sciopero aderiscano tutti o gran parte dei lavoratori cui il contratto si applica, anche quelli iscritti ai sindacati che lo hanno firmato. Per esempio, potrebbe accadere che, anche il giorno dopo l’ avvio del nuovo piano della Fiat, la Fiom proclami uno sciopero permanente del lavoro straordinario, oppure uno sciopero in corrispondenza con la partita di calcio del mercoledì (come è incredibilmente accaduto a Termini Imerese il 14 giugno scorso, peraltro a iniziativa di tutti e tre i sindacati maggiori): a quello sciopero, qualsiasi lavoratore di Pomigliano, anche se iscritto a Fim, Uilm, Ugl o Fismic (firmatari dell’ accordo), potrebbe legittimamente aderire, col risultato di vanificare due degli elementi-cardine del piano industriale e di ridicolizzare i sindacati firmatari, che quegli elementi-cardine hanno accettato. Questo modo di essere del nostro sistema di relazioni industriali non è affatto vincolato dalla Costituzione: esso è soltanto il frutto di una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che risale agli anni ‘ 50 e ‘ 60; e questa ben potrebbe essere disattesa da una legge ordinaria che dicesse molto semplicemente: «La clausola di tregua che sia contenuta in un contratto collettivo vincola le organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato e i lavoratori a cui esso si applica». Un’ altra norma necessaria sarebbe quella che regolasse ragionevolmente la possibilità di deroga del contratto nazionale da parte del contratto aziendale, secondo un elementare principio di democrazia sindacale: una norma di questo genere è contenuta nel testo unificato del disegno di legge sulla partecipazione dei lavoratori nell’ azienda elaborato con consenso bi-partisan dalla Commissione Lavoro del Senato, fermo ormai da più di un anno, non è chiaro perché. Se dunque Governo e opposizione vogliono davvero dare una mano perché l’ investimento della Fiat non vada perduto, smettano di interferire pesantemente con le scelte contrattuali dei sindacati e facciano invece la parte che è di loro competenza: si accordino per l’ approvazione in tempi rapidissimi di una legge che contenga anche solo quelle due norme. Otterranno così, al tempo stesso, di evitare che il nostro Mezzogiorno perda un piano industriale da 700 milioni di euro e di eliminare una delle cause principali della chiusura del nostro sistema agli investimenti stranieri e agli insediamenti produttivi più innovativi (quelli che si discostano dal vecchio modello di organizzazione del lavoro e di struttura delle retribuzioni fatto proprio dai nostri contratti nazionali di settore). Se poi Governo e opposizione vogliono fare un’ altra cosa davvero utile agli operai di Pomigliano – e non soltanto a quelli -, adottino il solo provvedimento capace di compensare almeno in parte l’ evidente aumento delle disuguaglianze di reddito, in atto in tutto l’ Occidente industrializzato (e non per colpa di Marchionne): si accordino seduta stante per eliminare l’ obbrobrio di quei 110 euro di Irpef che gravano sulle buste paga di 1000 euro. Ridurre a una misura simbolica di 10 euro mensili il prelievo sui redditi di lavoro fino a questo limite – che possiamo davvero considerare oggi in Italia come una soglia di povertà – costerebbe allo Stato 8 miliardi l’ anno. Sono molti, certo, ma non sarebbe difficile coprirli in parte con l’ abolizione di rendite parassitarie e sprechi (cominciando dalla soppressione delle province e dal dimezzamento dei parlamentari), per la parte restante con un accettabilissimo aumento delle imposte sulla leva finanziaria delle banche, sui redditi più alti e sui grandi patrimoni.
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