Al direttore
Riflettere sulla possibilità di privatizzare la Rai riapre una ferita. Va bene che “nul n’est besoin d’espérer pur combattre ni de vaincre pour perséverer”: ma qui per perseverare a sperarci bisogna proprio mettercela tutta. C’era stata una finestra, verso la fine della legislatura 1996- 2001, quando era chiaro che il centrosinistra avrebbe perso, e che quindi al Cav. avrebbero fatto capo oltre alle reti Mediaset, anche le reti RAI perché spendono soldi dei cittadini e quindi rientrano nelle responsabilità dell’esecutivo.
Evitare la temuta concentrazione mediatica, sembrava un argomento valido per smuovere con chi non capiva che la privatizzazione è nell’interesse primo della RAI, perché l’industria culturale più di ogni altra ha bisogno di concorrenza, di premio al merito, di libertà da vincoli e imposizioni. Se ne parlò, se ne scrisse, si fecero progetti: vendere tutto di una parte, una parte di tutto, tutto di tutto. Invano: “Tutto quel chiasso ei non degnar d’un guardo” (scusa il plurale, Giosuè), e preferirono “brucare” genialate quali l’eliminazione del ticket sanitario e la modifica del titolo V della Carta a colpi di maggioranza.
E domani? Della sinistra “a vocazione maggioritaria” che si legittima promuovendo concorrenza, riduzione dell’area economica intermediata dallo stato si sono perse le tracce; e il Pd allargato da Vendola a Di Pietro non rischierebbe di rompere con gli eredi legittimi dei girotondini. Se vince la destra, il discorso è più sfaccettato. Una destra degna di questo nome privatizzerebbe subito, per coerenza. Una destra che voglia autonomizzarsi da Berlusconi, non potrebbe perdere l’occasione di alta valenza simbolica di privatizzare la Rai. Ma resto pessimista, e non solo per scaramanzia: una destra che capisca che “il gollismo è nato con Pompidou” (come ricorda Antonio Polito), dovrebbe imparare da quella attuale che la partita si vince conquistando l’egemonia culturale: ma resisterebbe alla tentazione di tenere sotto tutela una RAI piena di intellettuali di cui ha ragione di diffidare?
C’é la tecnologia, certo. E’ sempre lei che spariglia le carte, e già lo sta facendo. Inesorabilmente taglia via fette di audience, e quindi di ricavi pubblicitari. Internet è già oggi più credibile sul piano dell’informazione, e più vario sul piano dell’entertainment.
Quanto tempo spendiamo tra smartphone, iPad e lap top? Quante saranno le apps se crescono al ritmo attuale? Le televisioni generaliste continueranno a essere la principale fonte di informazione e di intrattenimento per una larga fetta di pubblico: ma saranno come isole dove approdano sempre meno navigli, mentre lo scioglimento dei ghiacci (o il bradisismo) porta via ogni anno qualche metro di spiagge. Le emittenti minori, meno condizionate dalla proprietà, con processi decisionali più rapidi, concorreranno anche loro a ridurre lo spazio a disposizione delle grandi. Per occupare gli spazi ridotti, in RAI si combatteranno lotte fratricide. Ma può darsi che i più bravi tra quelli che vi lavorano non ci stiano a vedere sprecare le risorse che ancora ci saranno dentro l’azienda, immaginino che cosa si potrebbe fare senza vincoli e senza veti, trovino il coraggio per giocare le loro carte, si ribellino, e scaccino i partiti.
Il management buy out e poi la quotazione in Borsa, e sia il mercato a trovare assetti, organizzazioni, alleanze.
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