di Carlo stagnaro e Franco Debenedetti
La gestione privata è il bene da preservare, distinguendo tra gestore e controllore. Nella concessione i difetti della governance. Una soluzione possibile: Aspi al Tesoro e non alla Cassa.
La nazionalizzazione di Autostrade appare ormai un passaggio obbligato. Sarà temporanea ed esplicita, o permanente e non dichiarata? La scelta che farà Mario Draghi avrà effetti di lungo termine: per gli assetti industriali del paese e per il giudizio sul suo governo. Attualmente, il pallino è in mano agli azionisti di Aspi: entro metà maggio l’assemblea dovrà esprimersi sull’offerta della Cassa depositi e prestiti. Se verrà accettata, il governo ancora una volta si troverà impiccato a scelte compiute prima del suo insediamento. Quella che noi consideriamo la via maestra – intervenire sulla governance e le regole del settore, senza interferire con gli assetti proprietari – appare difficilmente percorribile. Per un motivo politico: il Movimento 5 stelle fa del cacciare i Benetton un tema identitario. E per un motivo economico: la revoca della concessione ad Aspi impone penali proibitive. Anche se, finora, Aspi non ha impugnato decisioni ben più gravi, come la revisione retroattiva delle penali: se l’assemblea dicesse no alla Cassa, e il M5s facesse buon viso a cattivo gioco, non è detto che non si potrebbe arrivare alla revisione della concessione senza esborso di denaro dei contribuenti.
In caso contrario, è l’ingresso della Cdp la soluzione più appropriata? Arrogarsi il diritto di esprimere il proprio gradimento sulla proprietà delle aziende è un vulnus per uno stato di diritto: dovrebbe almeno servire a portare a casa la revisione della regolazione del settore. In un Focus dell’Istituto Bruno Leoni dimostriamo perché, a questo fine, la Cassa rischia di rappresentare un ostacolo insormontabile: se Draghi vuole chiudere in modo positivo gli interventi dei suoi predecessori populisti, deve seguire una strada più diretta. Il “peccato originale” di Autostrade per l’Italia sta nelle modalità della privatizzazione. Se si tratta di un monopolio naturale, la legge prescrive che sia regolato da un’autorità indipendente. Invece tutto restò in mano al ministero dei Trasporti, cioè alla politica. Ci vollero 13 anni per istituire l’Autorità, e senza il potere di intervenire sulle concessioni future.
La privatizzazione aveva tre difetti. Primo: la dimensione dell’asset. 2.857 chilometri di strade a pedaggio su un totale di 5.887, mentre per raggiungere le economie di scala tipiche di questo settore basterebbero poche centinaia di chilometri. Secondo: la durata della concessione, prorogata dal 2018 al 2038 prima della vendita, e poi ulteriormente al 2042. Terzo: mentre la formula per l’aggiornamento tariffario era quella del price cap, il valore di partenza della tariffa venne stabilito sulla base di quella pre-esistente, dando così luogo a pedaggi esagerati. In seguito si sono aggiunti altri interventi: le ambiguità nelle procedure relative agli aggiornamenti tariffari, quasi sempre risolti a favore del concessionario; la decisione nel 2007 di lasciare al concessionario i benefici derivanti dall’incremento del traffico, sempre sottostimati, come dimostrato dalla Corte dei conti. E, clamorosamente, la scelta di secretare il contenuto della convenzione.
Secondo Giorgio Ragazzi, nel decennio 2009-2018 il concessionario ha goduto di un rendimento sul capitale proprio del 31,5 per cento annuo, con utili netti cumulati di 7,1 miliardi di euro e dividendi distribuiti addirittura superiori agli utili (8 miliardi). E’ dunque tempo di rivedere il sistema tariffario in vigore adeguandolo a quello elaborato dall’Autorità dei trasporti con Andrea Camanzi. Senza ovviamente sacrificare gli aspetti positivi del modello: l’ampliamento delle autostrade, le terze e quarte corsie; la sicurezza (asfalti drenanti, migliore segnaletica, controllo col sistema Tutor). Nonostante il traffico in crescita, la mortalità sulla rete autostradale italiana si è ridotta del 68 per cento, da 0,84 ogni 100 milioni di veicoli-chilometri nel 2000 a 0,27 nel 2018. La distinzione tra un concessionario privato e un regolatore/controllore pubblico crea un sano conflitto a vantaggio dei consumatori. La ripubblicizzazione farebbe collassare questa distanza, aumentando il rischio di “cattura del regolatore”. Mario Draghi aprì la stagione delle privatizzazioni: il suo governo dovrebbe essere ricordato non per averle rinnegate, ma per aver aperto quella della regolazione indipendente ed efficace, dando all’Autorità dei trasporti (e all’Agenzia nazionale per la sicurezza delle infrastrutture) adeguati poteri e mezzi.
Questa revisione, oggi improbabile perché Aspi potrebbe impugnarla con ottime probabilità di successo e andrebbe comunque negoziata, appare addirittura impossibile nel caso in cui subentrasse la cordata Cdp-Blackstone-Macquarie. Infatti, la Cassa agisce de facto a nome del governo, ma formalmente interviene non con risorse pubbliche, bensì con i soldi dei correntisti postali: di fronte a una riforma che taglia la redditività del suo investimento, e quindi comporta una perdita in bilancio, non potrebbe far altro che opporsi. Né potrebbero agire diversamente i suoi partner o eventuali altri investitori istituzionali selezionati dalla Cassa. E comunque non verrebbero intaccati gli altri difetti, l’estensione fisica e la durata temporale della concessione.
I difetti dell’attuale governance sono insiti nella concessione, mentre qualunque intervento sulla proprietà riguarda inevitabilmente il concessionario. C’è un solo modo di sciogliere questo nodo: tagliarlo, ragionando non sull’azienda ma, appunto, sulla concessione.
La soluzione è politicamente percorribile e tecnicamente semplice: sia il Tesoro, non la Cassa, a rilevare il 100 per cento di Aspi. Questo avrebbe due conseguenze fondamentali. La prima: non c’è evidenza che alla Cassa sia stato dato mandato di rivendere Aspi, una volta espulsi i Benetton. Invece, il commitment del Tesoro a uscire è responsabilità politica diretta di Draghi e Daniele Franco, e, a differenza di Mps, rapidamente attuabile. La seconda: il Tesoro potrebbe intervenire sulla concessione, rivedendone i termini e soprattutto accorciandone la durata (per esempio dal 2042 al 2022). Invece Cdp non potrebbe che opporsi alla cessazione anticipata della concessione, a difesa dei propri legittimi interessi. Se non lo facesse, per gli investitori istituzionali a cui avrà venduto quote minoritarie di Aspi sarebbe una trattativa con parti correlate. Questo è il punto più debole della strategia del governo rosso-giallo.
La cessazione anticipata della concessione consentirebbe a questo governo (e non al prossimo) di organizzare e bandire le gare per la sua riassegnazione. Diciamo “le gare”, al plurale, perché l’amministrazione non vorrà perdere l’occasione di spezzettare la concessione, e introdurre nel monopolio la “concorrenza per confronto”. Naturalmente con la clausola sociale che metta in capo a tutti i concessionari l’obbligo di riassorbire interamente il personale Aspi di pertinenza. I pedaggi scenderebbero quasi subito per effetto del ricalcolo della tariffa iniziale. La discesa potrebbe anche essere resa graduale prevedendo una compartecipazione del fisco all’extragettito tariffario. Dal punto di vista dello stato, il gettito della privatizzazione sarebbe con ogni probabilità inferiore a quanto speso per l’acquisto di Aspi. Diversamente, vorrebbe dire che non è vero che tale valore incorporava una rendita. E quindi che la premessa era sbagliata, e che l’operazione è stata doppiamente ingiusta, oltre che sul terreno dello stato di diritto, anche su quello della giustizia economica.
Il bene da preservare in ogni caso è la gestione privata delle autostrade.
La distinzione tra il gestore e il regolatore tariffario e di sicurezza è un elemento di vitale importanza per garantire una buona governance. Gran parte del dibattito pubblico ha ignorato questo punto, perché si è concentrato sul contenitore (l’azienda concessionaria, cioè Aspi) anziché sul contenuto (la concessione). Per la sua natura ibrida, Cdp porterebbe nel sistema il potere di cattura tipico del pubblico e la difesa puntuta dei privilegi monopolistici tipica del privato. Il peggiore dei mondi possibili.
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