Non passa praticamente giorno che non esca un articolo o un commento che metta sotto accusa Gafa (l’acronimo europeo per designare Google, Amazon, Facebook, Apple, con la variante che reca pure una M, per Microsoft). In questi scritti, le accuse sono diverse e diversamente articolate, ma una è ricorrente: non pagano le tasse. Eppure è di tutte quella meno fondata, almeno per quello che ci riguarda. Come si vede analizzando i vari livelli di fiscalità: che sono tre, corrispondenti alle tre giurisdizioni, italiana, europea, americana.
In Italia viene tassato l’utile relativo alle attività che si svolgono da noi. Apple, Amazon e Microsoft hanno aziende in Italia, dipendenti, uffici anche prestigiosi, come Microsoft nel palazzo Feltrinelli di Herzog e De Meuron. Google e Facebook presentano tematiche specifiche, ma non così le altre: hanno i loro bilanci, non si vede perché il fisco italiano dovrebbe avere più problemi a controllarli, di quelli che ha a farlo con tante attività commerciali, come un rivenditore VW o Volvo.
A livello europeo – che nel caso specifico vuole dire irlandese o lussemburghese – il contenzioso non è tra la Commissione e, nel caso più eclatante (13 miliardi di euro), Apple, ma tra la Commissione e il Governo irlandese. La commissaria alla concorrenza, Margareth Vestager ci ha provato a incastrare Apple, ma senza riuscirci: il governo irlandese certifica che l’azienda è perfettamente in regola, e ha portato la controversia alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. E allora perché dovremmo essere noi ad accusare l’azienda quando non lo fanno né i Governi locali né la Commissione?
Livello Usa: dire che gli utili parcheggiati nei paradisi fiscali sono “esentasse”, come sovente si legge, è un falso o, se si preferisce, un fake: sono infatti in sospensione d’imposta, che è una cosa ben diversa. Lo sono grazie a una disposizione che tutti, compresi molti e autorevoli americani, dicono essere balorda e disfunzionale, ma che è legale. E che va a braccetto con il fatto che l’aliquota di tassazione delle aziende Usa è più alta che in Europa, o in qualsiasi altra parte del mondo.
Sono anni che si parla di rivedere l’intero impianto fiscale, adesso vorrebbe farlo anche Trump: vedremo, anzi vedranno. Ma noi, cosa c’entriamo? Vogliamo essere la guardia di finanza mondiale? Vogliamo insegnare agli americani cosa gli converrebbe fare? Certo che riguarda anche noi: nell’economia globalizzata la concorrenza è tra tutte le imprese, non è indifferente come gli americani tassano le loro. Ma a evitare la concorrenza fiscale, con armonizzazione delle basi imponibili e aliquote uguali, non ci siamo riusciti neppure noi all’interno dell’Europa. E per fortuna: perché non ci fosse concorrenza sui livelli di pressione fiscale, chi metterebbe un freno ai governi per aumentarla? Comunque la si pensi, tornando al punto: che cosa c’entrano in tutto questo i “Gafa”, con o senza la “M”?
Come in tutti i servizi di rete, anche per Google e Facebook, l’efficacia aumenta enormemente con la dimensione. Esse quindi da un lato sono straordinari sistemi per consentire alla gente di informarsi, di esprimersi, di trovarsi; dall’altro sollevano problemi nei mercati della pubblicità e quindi dell’informazione. La creazione e la diffusione delle idee è centrale alla formazione dell’opinione pubblica, e quindi alla vita della democrazia. Questo legittima misure specifiche, anche di tipo fiscale. Per ora, quelle di cui si parla, web tax o una sorta di imposta su quanto fatturato a casa nostra, sembrano più un onere per gli utenti che un giusto compenso per quelli da cui si originano informazioni e commenti. Come che sia, come si fa ad accusare qualcuno di non pagare un’imposta che ancora non c’è?
ARTICOLI CORRELATI
U.S. Loses Trade Case to Europeans on Offshore Tax Havens
di DAVID E. ROSENBAUM e ELIZABETH OLSON – Financial Times, 18 novembre 2017
EU competition commissionerlooking again at Apple tax structure
di 7 Aliya Ram e Rochelle Toplensky – Financial Times, 15 gennaio 2002
Vincenzo Zeno-Zencovich
7 annoe fa
C’è un immenso dibattito sul “valore economico dei dati”. Allego qualche articolo. Diciamo comunque che, allo stato, siamo al livello di proposte.
Io ho scritto nel 1997 che “paghiamo” i servizi con i nostri dati. Questo per contestare la favola che sulla rete i servizi sono “gratuiti”. Ma non posso pronunciarmi sulla dimensione fiscale (in particolare se si tratti effettivamente di “operazione permutativa” ai sensi della Direttiva IVA) non essendo esperto del settore. Ritengo tuttavia che, sempre allo stato, la cessione di dati contro servizi non ricada in questo tipo di operazioni.
Segnalo peraltro che la proposta di direttiva sui servizi digitali prevede espressamente (Art. 3) che “La presente direttiva si applica ai contratti in cui il fornitore fornisce contenuto digitale al consumatore, o si impegna a farlo, e in cambio del quale il consumatore corrisponde un prezzo oppure fornisce attivamente una controprestazione non pecuniaria sotto forma di dati personali o di qualsiasi altro dato..”
Come stabilire il valore di questi dati? Ho l’impressione che l’unica soluzione sensata sia un forfait.
A presto
vzz
Franco Debenedetti
7 annoe fa
Non mi sembra questo il punto, e mi pare strano che lo debba dire io a chi mi ha avviato all’economia dei mercati a due versanti. Nella direttiva il consumatore è lo stesso che fornisce i dati e usufruisce dei servizi.
Io do i dati che produco e tu mi dài il motore di ricerca e la navigazione: un baratto tra cose gratuite.
Il problema sorge quando il mercato è due versanti: il servizio fornito alle imprese (pubblicità) è ricavo per chi lo produce, e può essere consegnato senza transitare attraverso una filiale di vendita che riceve e rifattura, addebitando IVA e il margine di marketing. In tal caso la sola cosa è mettere un dazio. Con il che a pagare sono le imprese italiane.
Fr
Vincenzo Zeno-Zencovich
7 annoe fa
Caro Senatore
giustissimo quello che scrivi: in realtà i GAFA cercano di sfuggire alla elevatissima imposizione fiscale americana.
Ma la quando scrivi che “parcheggiano” i loro profitti in luoghi dove godono di una (legale) sospensione d’imposta, questa “legalità” vale per gli Stati Uniti ma potrebbe essere contestata a livello di WTO come forma di sussidio.
Infatti la tecnica della sospensione d’imposta è stata adottata dopo che il WTO Appellate Body aveva dichiarato illegittime le pratiche di tassazione ridottissima per le controllate offshore (qui sotto l’articolo del NY).
Dunque – a parte le tue considerazioni sulle mosche cocchiere italiane (e, io aggiungo, in un paese che si dice così cattolico dovremmo desiderare i “paradisi” fiscali, anzichè l’inferno fiscale nel quale viviamo) – la contestazione dell’UE dovrebbe avvenire a livello WTO.
Un cordiale saluto