→ novembre 29, 2019

La vicenda della Tirreno Power è davvero lo specchio di quella dell’Ilva, come titola un editoriale del 27 novembre? Se nel senso che entrambe furono bloccate da un “intervento giudiziario paralizzante”, certamente sì. Sì, probabilmente, perché come a Savona, anche a Taranto potrebbe risultare che non sono dimostrabili i nessi causali tra le emissioni, quelle reali e ancor più quelle consentite, e i danni sanitari. Sì, ancora, perché i provvedimenti giudiziari colpirono le aziende in un momento di gravissime crisi di Mercato, a Vado per la concorrenza delle fonti rinnovabili unita al calo della domanda dovuta alla crisi, a Taranto per la concorrenza della sovrapproduzione cinese, che colpa gravemente tutti gli acciaieri europei.
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→ novembre 23, 2019

“Il capitalista privato che spolpa Taranto ed esporta fondi neri” cosi Massimo Giannini su Repubblica di giovedì, con riferimento alla gestione dei Riva.
“Spolpa” Taranto? Con i Riva, Taranto produceva 8, perfino10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, dando lavoro a oltre 15.000 persone; oggi saremmo contenti con 5. “Esporta fondi neri”? Il 12 Novembre Ansa informava che la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione del fascicolo ‘contenitore’ da cui sono nate le varie indagini sui Riva e sui professionisti che erano finiti indagati a vario titolo per bancarotta, appropriazione indebita, riciclaggio e reati fiscali. E il 5 luglio 2019 il Tribunale di Milano ha assolto in primo grado Fabio Riva dall’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Ilva, perché il fatto non sussiste. Non si può non riflettere su quanto queste vicende abbiano prodotto, come afflizioni alle persone e come contribuito alla rovina dell’azienda.
I “fallimenti” hanno sempre una causa, ciascuna sua propria: mettere tutto insieme, il vero e il falso, il pubblico e il privato, gli errori e le colpe contribuisce alla crescita di quella mentalità anti-industriale, di quei pregiudizi anti-competenze che sono terreno di coltura dei fallimenti: quelli di cui parla Giannini, e quelli più generali che affliggono questo Paese.
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→ novembre 12, 2019

Se lo stato non fa rispettare i contratti perché mai dovrebbe gestire un’acciaieria che non è il suo mestiere?
L’Ilva, oltre che acciaio, produce dividendi politici. È così fin dalla sua origine, nel 1959, quando Antonio Segni, presidente del Consiglio, per creare posti di lavoro nel Mezzogiorno, e contro il parere dei tecnici dell’Italsider, decide di dare il via a Taranto alla costruzione del quarto centro siderurgico.
Sessant’anni dopo sia la decisione di continuare a produrre acciaio, sia quella di chiudere tutto, pagano ciascuna un dividendo politico a una parte di cittadini. Se si fa la scelta di mantenere l’Ilva si incassa il dividendo da chi era favorevole. Ma poiché il grido di chi si oppone è più forte della voce di chi è d’accordo, diventa più forte il dissenso di chi era contrario, e quindi più alto il dividendo politico che si può incassare rovesciando la decisione.
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→ novembre 9, 2019

La coerenza nelle decisioni, in politica, non è necessariamente un valore per i leader. Ma lo è per le istituzioni, soprattutto quelle che ancora si stanno faticosamente costruendo. E’ bastato che Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza, annunciasse che avrebbe esaminato le operazioni Fincantieri-Stx e quella FCA-PSA, perché si aprisse la polemica già vista quando, a inizio anno, aveva “bocciato” la fusione ”ferroviaria” tra Siemens e Alstom. Tutte le operazioni di fusione, per il semplice fatto di essere di importi superiori a una determinata soglia, devono obbligatoriamente ottenere l’approvazione della Commissione; e i comunicati di FCA-PSA doverosamente lo ricordano.
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→ ottobre 30, 2019

La storia recente di Torino l’ho vissuta con la partecipazione, appassionata, di chi nella sua industria eponima (e dintorni) ha lavorato per più di vent’anni, e con quella, ragionata, su ciò che la politica deve fare: creare le condizioni per cui chi ha un progetto lo realizzi, e chi ha un’impresa la sviluppi. La politica degli anni passati ha avuto indubbi meriti: di fronte alla botta tremenda di perdere oltre 100.000 posti di lavoro, ha avuto idee, ha saputo indicare altri orizzonti di sviluppo. Ma è stata anche autoreferenziale, invece di preparare il ricambio generazionale ha puntato a lungo su personaggi di indubbio carisma; non ha fatto leva sull’autonomia dei centri territoriali che fanno cultura, dal Regio al Museo del Cinema, sedotta ancora dalla mitologia del potere pubblico che tutto governa. Mancanze che impallidiscono di fronte a quelle della maggioranza politica che esprime l’attuale sindacatura. Avere disdegnato le Olimpiadi è stato un danno reale; avere approvato, da parte del Consiglio Comunale, la mozione No-Tav è stato un segnale deleterio a cittadini e imprenditori: anche all’ombra della Mole l’idea dominante è che la crescita è una tentazione demoniaca a cui si deve resistere, e che di quanti hanno esperienza e competenza si deve diffidare. Torino può contare su grandi vantaggi comparati: nei saperi, quelli tradizionali della manifattura e quelli nuovi delle tecnologie digitali; nelle dotazioni culturali, oltre quelle eccezionali dell’Egizio e della Venaria; nel clima e nel paesaggio; nella razionalità della sua topografia; nella cultura, in senso civico e in senso borghese. Basta non cercare di convincere tutti che il suo futuro è la decrescita felice.
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→ ottobre 9, 2019

Al direttore.
Rai radio classica, insieme al suo predecessore Fd5 Auditorium, è un prodotto dell’azienda Rai. Il suo valore è quello della sua immagine, costruita anno dopo anno sulle scelte di palinsesto, sulla correttezza con cui sono pronunciati i nomi dei pezzi trasmessi e dei loro esecutori: ma soprattutto sul fatto che “trasmette musica classica 24 ore al giorno senza interruzioni pubblicitarie”, come veniva orgogliosamente vantato. Così, in mezzo secolo, Rai classica è diventato un brand. Veniva: perché da diversi mesi la pubblicità è entrata anche in Radio classica. E, da qualche settimana, in modo sfrontato: il “buona idea, dottor Scotti” è infatti addirittura preceduto da una musichetta, la cui volgarità risalta ancor più al confronto di quelle il cui suono si è appena spento. Novità nella programmazione sono avvertite in un tempo lungo, pronunce scorrette possono essere giustificate come infortuni: l’irrompere della pubblicità è invece immediatamente percepito. E a soffrirne è il valore del brand. E’ come se, aprendo Wikipedia, trovassimo una striscia di pubblicità: il suo valore di fonte autorevole di informazioni sarebbe gravemente compromesso. C’è da chiedersi: i ricavi in conto economico di quei pochi secondi di annuncio sono maggiori della perdita in conto patrimoniale derivante dal danno al valore di un brand costruito in 50 anni? Il fastidio per l’inserimento della pubblicità riguarda un ascoltatore fedele dai tempi della filodiffusione. Ma la Rai è un’azienda pubblica: quindi la perdita di un valore immateriale dell’azienda è questione che riguarda ogni contribuente.