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→  settembre 23, 2020


Al direttore.
Consummatum est. Il Sì ha vinto 70 a 30. Almeno non vedremo più Di Maio giulivo tagliare con le forbici striscioni di poltrone rosse. Ma gli otto milioni di italiani che hanno votato No sono un dato prezioso (magari sono anche di più, se aggiungiamo i lettori del Foglio che in scienza e coscienza avrebbero votato No e hanno invece seguito il consiglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa di votare Sì per non lasciare che i 5 stelle si intestassero come loro una vittoria scontata). Hanno votato No nonostante le indicazioni di tutti i partiti (tranne Italia viva e +Europa), le posizioni di tutti i giornali (esclusi Repubblica e Domani) e, sostanzialmente, delle televisioni, dei talk-show e dei loro ospiti più o meno fissi. Troppi otto milioni per dire che sono i voti dell’élite; ancor più che sono della casta, quando il 97 per cento dei parlamentari aveva votato Sì in Parlamento. Lo hanno fatto avendo solo la loro testa per ragionare e qualche tweet per informarsi. Sono un patrimonio di cui tenere conto nelle nostre analisi, a cui pensare nei nostri programmi. Sono quelli su cui fare leva per salvare questo paese.

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→  settembre 19, 2020


“In Italia seicentoquaranta” sono, nel catalogo di Leporello, le “belle che amò” Don Giovanni, . Sono invece solo 368 le società per azioni quotate alla Borsa di Milano, per un valore complessivo di €532mld.

Il tema della Borsa italiana è ritornato di attualità dopo che l’Unione Europea ha imposto al London Stock Exchange, con cui al momento è fusa, di alienarla, se vuole proseguire la sua fusione con Refinitiv, la società di piattaforme tecnologiche controllata da Blackstone e Reuters. La soluzione al momento più probabile è quella ibrida, metà fusione con una grande Borsa, la francese Euronext (ma potrebbero essere anche i tedeschi o gli svizzeri), metà ri-nazionalizzazione, con Cassa Depositi e Prestiti e Banca Intesa.

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→  settembre 14, 2020


Le intuizioni di Friedman
Se quella sulla responsabilità sociale dell’impresa fosse una battaglia, l’eroe eponimo sarebbe Milton Friedman. Lui stesso osservava che la critica demolitrice della CSR (Corporate Social Responsibility), pubblicata sul New York Times Magazine il 12 settembre 1970 di cui celebriamo il mezzo secolo, “sembra che abbia conquistato il quasi completo monopolio del campo di battaglia” e, da monopolista, incassava le royalty quando le classi dirigenziali discutevano delle sue idee e gli accademici polemizzavano furiosamente contro le sue tesi, qualificando lui come una canaglia e le sue tesi contro la CSR piena di fallacie e di ipersemplificazioni. Iper-semplificazione sarebbe ridurre la sua critica della CSR a un criterio di condotta aziendale: quello che gli sta a cuore è il funzionamento di un’economia in cui le decisioni sulla allocazione di risorse scarse siano prese non in base a meccanismi politici, ma di mercato. Soprattutto è tutt’uno con la sua preoccupazione per il problema dei monopoli. La sua argomentazione non è in positivo sulle ragioni per cui “c’è una e una sola responsabilità globale dell’impresa: accrescere i suoi profitti”, ma in negativo contro coloro che sostengono che le società ne abbiano altre e diverse. Gli imprenditori che tanto parlano di responsabilità sociale d’impresa in un sistema di libera iniziativa, in realtà stanno predicando un puro e genuino comunismo: sono le marionette delle forze intellettuali che minano le basi di una società libera. Forse avrà avuto in mente la decisione della U.S. Steel di cancellare nel 1962 l’aumento del prezzo dell’acciaio, dopo che il presidente Kennedy aveva pubblicamente manifestato il proprio disaccordo e l’azienda era stata fatta oggetto di larvate minacce di rappresaglia, procedimenti antitrust, indagini fiscali sui suoi dirigenti.

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→  agosto 20, 2020


La marcia dei 40 mila e il referendum. In due occasioni cercò di rendere l’Italia un paese più europeo

Vedevo Romiti una volta al mese per portargli i conti, quando capitava per una proposta o per un problema, a volte, per guadagnare tempo anche in macchina alla fine della giornata. In Fiat era in corso la razionalizzazione in sette settori autonomi della conglomerata che l’azienda era diventata, un po’ per l’eredità dell’autarchica “Fiat, Terra Mare Cielo”, un po’ quando si trattava di sostenere la motorizzazione post bellica degli italiani. Uscito mio fratello dopo i famosi 100 giorni, Umberto Agnelli mi aveva messo a dirigere il settore “Componenti”, una ventina di aziende, dall’Olio Fiat alla Magneti Marelli. Verso Cesare Romiti ho un debito di riconoscenza: se fu il periodo più di soddisfazione della mia vita lavorativa, è anche per merito suo. Non solo per la sua rapidità e acume nel leggere i numeri, nel capire le situazioni: ma anche perché aveva una caratteristica che raramente ho trovato in altri (e che con alterni successi provato a imitare): ti faceva sentire come se quello che gli stavi dicendo fosse per lui la cosa più importante al mondo. Fu per un disaccordo con lui su una questione di principio che lasciai la Fiat. Fu per me un momento di grande emozione: “Signora – chiamò – porti un bicchier d’acqua all’ingegnere”.

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→  agosto 14, 2020


Il presidente di Open Fiber, Franco Bassanini, Corriere della Sera del 9 agosto, torna sul suo tema preferito: rete telefonica unica e pubblica. Il 13 twitta un ringraziamento a Beppe Grillo che questa preferenza aveva da tempo espresso ed ora riconferma. Ci si chiede: unica perché pubblica o pubblica perché unica? La vogliono pubblica e per questo sarà unica, o unica perché così sarà anche pubblica?

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→  luglio 30, 2020


Tornato a Roma, Conte ha perso l’occasione per confermare che quello di Bruxelles non è stato solo un successo tattico negoziale suo, ma una strada imboccata dall’Italia per “recover” dal colpo della pandemia: quella di dichiarare chiusa la polemica sul MES, accettandolo senza ulteriori discussioni. Doveva farlo non solo per coerenza con quando aveva detto quando cercava di prender tempo, e cioè che avrebbe deciso l’accesso al MES dopo aver visto l’esito delle discussioni sul Recovery Fund, e neppure per ragioni di convenienza economica: doveva farlo per ragioni di logica. Infatti per dare garanzia che l’Italia, senza bisogno di condizionalità, avrebbe usato le risorse per gli scopi per cui ci sono stati concessi e non le avrebbe sprecate in aumento della spesa pubblica, bisogna dimostrare che sono state abbandonate le cause che questo esito hanno, anche in tempi recenti, prodotto. E queste cause sono ideologiche. Mostra di averlo in mente il segretario del PD Nicola Zingaretti quando pone il loro superamento come presupposto per realizzare il vasto piano del suo articolo sul Corriere della Sera del 25 Luglio. Ideologie, come certo ricorda, le hanno (o le hanno avute) in tanti, alcune risorgono sotto nuove spoglie, come quella dello Stato, imprenditore per alcuni, salvatore per tanti. Ma il rifiuto del MES è ideologico in modo emblematico, attivarlo al ritorno da Bruxelles era una occasione per emblematicamente dimostrarlo.

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