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→  marzo 16, 2021


Riformare il capitalismo o riformare lo stato? Il duello che manca nell’éra di Letta

Dopo le elezioni del 2018, a sostenere la causa europeista, a riconoscere il valore delle competenze e della necessità di avvalersene per governare è stato sostanzialmente il solo Pd (Forza Italia era minoranza nella destra). A tre anni di distanza, di uscita dall’euro non parla più nessuno: europeisti, più o meno caldi, lo sono tutti; e quanto alle competenze, alla testa del governo c’è la persona che tutta l’Europa considera la più autorevole nel suo ruolo. Non male il bilancio per un partito che alle elezioni non era arrivato neppure al 20%. Vantarsene esplicitamente potrebbe destabilizzare gli equilibri nella coalizione, il governo Draghi non è il suo governo, ma nelle circostanze è quanto di più vicino alla propria cultura e alle proprie posizioni il Pd possa immaginare. Neppure ricordarlo quando dà le dimissioni colui che del partito in questo periodo è stato segretario è un fatto che suscita qualche interrogativo: anche perché il Pd è stato un soggetto attivo di questa evoluzione. O forse è proprio questo il motivo: perché sia il passaggio dal Conte 1 a Conte 2, sia quello successivo a Draghi sono dovuti alla visione e alla determinazione di Matteo Renzi. E questo è ciò che il Pd non vuole accettare.

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→  febbraio 12, 2021


Logico che non ci sia giornale o televisione che non descriva, tra l’ammirato e lo stupefatto, come Draghi, con la sua sola presenza, prima ancora di essere ufficialmente insediato, abbia scompaginato il quadro politico, dato nuova vita ai riti un po’ sclerotizzati della formazione dei governi, aperto nuove prospettive a un paese indebolito e provato. Incomprensibile invece che la maggior parte di loro non dedichi una riga o un minuto per riconoscere, non diciamo il merito, ma nemmeno il ruolo che, nel provocare questa svolta, ha avuto colui che avevano invece severamente condannato: colui che, per pura ambizione personale e imperdonabile incoscienza, aveva buttato in una crisi al buio un paese in piena pandemia. E parlo dei grandi giornali nazionali, delle reti televisive e della maggior parte dei loro autorevoli commentatori.

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→  gennaio 26, 2021


Non esistono né procedure né strutture competenti per attuare i progetti concordati con l’Europa. Svegliamoci

Mai sprecare una crisi”. E invece è quello che fanno quelli che accusano Renzi di irresponsabilità, aver aperto una crisi in piena pandemia. Così facendo, ci occupiamo della crisi sbagliata: assai più grave è quella del Recovery fund. Non basta infatti la modifica del primo progetto, che Renzi ha chiesto o ottenuto: mancano i piani per accedervi, per non parlare delle capacità di eseguirli. Tutto personale e preconcetto questo strabismo? La pandemia la conosciamo ormai da quasi un anno: sappiamo misurarne l’andamento, ci siamo abituati al rimedio per contrastarla, abbiamo iniziato a distribuire i vaccini. I problemi per vaccinare il 70 per cento della popolazione sono di tipo logistico e organizzativo: la linea di comando dovrebbe avere imparato dai propri errori. Del Recovery fund invece la sola cosa che conosciamo con precisione è la somma prevista per l’Italia.

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→  gennaio 15, 2021


Al direttore.

Come già l’antiberlusconismo militante, così anche l’antirenzismo andrebbe spiegato. E non solo quello con l’elmetto di Marco Travaglio, ma anche quello diventato un topos di giornalisti e commentatori normalmente equilibrati e pacati. Esemplare l’accusa di avere aperto una crisi “in piena pandemia”: punto. Non uno che dica: avere aperto la crisi con un “Recovery fund” (come ormai è invalso l’uso di chiamarlo) che presenta ancora tante criticità. Ovvio: il minimo residuo di onestà intellettuale obbligherebbe a riconoscere a Renzi la parte che ha avuto nel demolire la struttura piramidale prevista all’inizio, 300 esperti, guidati da manager dei grandi monopoli statali, e al vertice, s’intende, il premier. E la parte determinante avuta poi nel riequilibrare un poco verso gli investimenti un progetto scandalosamente sbilanciato verso i sussidi.

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→  dicembre 16, 2020


Al direttore.

L’influenza spagnola uccise, tra il 1918 e il 1920, da 50 a 100 milioni di persone, più della somma dei morti della Prima (17 milioni) e della Seconda guerra mondiale (60). Eppure sono 80.000 i libri che si possono sfogliare sulle guerre, sulla Spagnola ce ne saranno al massimo 400. Perché? Secondo Ivan Krastev, in “Is it Tomorrow Yet? Paradoxes of the Pandemic”, recensito dal Financial Times, la ragione è che è difficile descrivere una pandemia come lo scontro del bene e del male; manca una storia e manca una morale. Morire per una malattia invece che per una pallottola non è un atto di patriottismo o un eroico sacrificio, e non se ne può trarre nessun significato più profondo. Proprio così: dal morire di Covid non si può trarre nessun significato, e profonda è solo la sofferenza per arrivarci.

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→  dicembre 10, 2020


di Franco Debenedetti, Natale D’Amico e Francesco Vatalaro

Uno studio pubblicato su Nature mette a punto un metodo che prevede i casi reali dei contagi e la loro evoluzione

Per contrastare la pandemia (prima che arrivino i vaccini, e finché non saremo praticamente tutti vaccinati) ci sono sostanzialmente due modi: evitare i contagi e isolare quelli che possono contagiare. I lockdown e i tamponi. I due metodi sono opposti per molti aspetti: per la granularità, nulla nel lockdown totale, massima, fino al singolo individuo, con i tamponi; per la collaborazione richiesta, pura obbedienza nei lockdown, volontaria coi tamponi; per la lesione delle libertà personali, grave nei divieti di movimento inerenti ai lockdown, minima coi tamponi; per l’efficienza attesa dalla pubblica amministrazione, “militare” per i lockdown, elevata per i tamponi, dato che i positivi vanno seguiti e isolati. I costi sono per entrambi notevoli e dipendenti, per il lockdown dalla durata ed estensione, per i tamponi dalla frequenza di ripetizione. Infine dai pericoli per la privacy, nulli nel lockdown, lasciati all’attenzione del personale nei tamponi. Dall’insorgere della pandemia, le pubbliche autorità hanno deliberato su chiusure e aperture, su categorie e su attività consentite; sui tamponi invece, tranne casi isolati, non sono riuscite neppure ad assicurarne la disponibilità in quantità adeguata. In entrambi i casi prendendo decisioni sulla base di valutazioni spesso qualitative o di analisi di parametri e di soglie lasciate all’apprezzamento di esperti, sprovvisti di un feedback georeferenziato e tempestivo sugli effetti delle misure prese. E’ invece noto che si formano dei focolai di contagio ossia luoghi di “super diffusione” del Covid-19 che per di più variano nel tempo in intensità e localizzazione in modo a prima vista imprevedibile; specie quando il numero di casi infetti supera una certa soglia e diviene difficile prevedere dove si verranno a creare. Inoltre sono ben note le disparità nei tassi di infezione entro una popolazione, con impatto sproporzionato del virus sui gruppi socio-economici svantaggiati.

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