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→  agosto 21, 2008

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La crisi di un’istituzione

di Ernesto Galli Della Loggia

Tra neppure un mese la macchina della scuola italiana ricomincerà a macinare lezioni ed esami. Una gigantesca macchina fatta di circa un milione di dipendenti, di migliaia di edifici frequentati da milioni di studenti, pronta anche quest’anno ad allestire milioni di iniziative le più varie, a sfornare tra circolari, lettere, verbali e registri, il solito astronomico numero di tonnellate di carta. Una macchina gigantesca, appunto. Ma senz’anima: che non sa perché esiste né a che cosa serva, e che proprio perciò si dibatte da decenni in una crisi senza fine. Crisi la cui gravità non è testimoniata tanto dai pessimi risultati ottenuti dagli studenti della nostra scuola nei confronti internazionali, ma da qualcosa di più profondo e di più vero. Dal fatto che essa si sente un’istituzione inutile e in realtà lo è: apparendo tale, e dunque votata ineluttabilmente al fallimento, innanzi tutto alla coscienza dei suoi insegnanti, dei migliori soprattutto.

La scuola italiana non riesce più a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule. Non riesce più a creare o ad alimentare in chi la frequenta alcun amore o alcun rispetto, alcuna gerarchia culturale. E perciò non serve a legittimare culturalmente — e cioè ideologicamente o storicamente— più nulla: non il Paese o il suo passato, la sua tradizione, e tanto meno lo Stato, la Costituzione, il sistema politico: nulla. Si possono tranquillamente frequentare le sue aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l’azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d’intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l’esistenza. Il sintomo politico più evidente della crisi in cui versa la scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, al di là di tutte le chiacchiere di maniera, essa è ormai circondata dall’intera classe dirigente, a cominciare per l’appunto dalla classe politica.

Se il responsabile del Tesoro può impunemente tagliare i fondi destinati all’istruzione, infischiandosene di ogni possibilità di commisurare i risparmi alle esigenze di qualcuna delle ipotesi di cambiamento proposte dal volenteroso ministro Gelmini, ciò accade precisamente perché in realtà Tremonti, come tantissimi altri suoi colleghi, non sa a che cosa questa scuola possa davvero servire, e in essa non riesce a vedere altro che una macchina erogatrice e sperperatrice di risorse. Come di fatto, peraltro, essa rischia ormai di essere. La verità è che la scuola pubblica che l’Europa conosce da due secoli non è solo un sistema per impartire nozioni. Nessuna scuola autentica del resto lo è mai stata: deve impartire nozioni, come è ovvio, ma può riuscirvi solo se insieme—aggiungerei preliminarmente — è anche qualcos’altro, e cioè se al suo centro vi è un’idea, una visione generale del mondo. La scuola pubblica europea è nata intorno al compito di testimoniare un’idea del proprio Paese, i caratteri e le vicende della collettività che lo abita, sentendosi chiamata a custodire l’immagine di sé e gli scopi di una tale collettività. 

Non può esistere una scuola pubblica mondial-onusiana, una scuola italiana che parli in inglese o esperanto. Un sistema d’istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale. Questo è il punto, dunque qui sta il cuore del problema: alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell’idea d’Italia. E’ lo specchio della profonda incertezza di coloro che a vario titolo la guidano o le danno voce – i governanti, gli apparati dello Stato, gli imprenditori, gli intellettuali, l’opinione pubblica – circa il senso e il rilievo del suo passato, circa i suoi veri bisogni attuali e quello che dovrebbe essere il suo domani. Il profondo marasma della nostra scuola, il grande spazio preso in essa dal burocratismo, dalle riunioni, dalle questioni di metodo, dalle futilità docimologiche, a scapito dei contenuti, è lo specchio di un Paese che non riesce più a pensarsi come nazione da quando la sua storia ha attraversato negli anni ’60-’80 la grande tempesta della modernizzazione.

E’ da allora che l’idea del nostro passato si sta dileguando insieme alla consapevolezza dei suoi grandi tratti distintivi. E non a caso è da allora che è diventato sempre più difficile anche organizzare il presente e immaginare il futuro. Da qui, per esempio, ha tratto origine la crisi che ha colpito a suo tempo le tradizionali culture politiche della democrazia repubblicana, e sempre qui sta oggi la difficoltà di vederne sorgere di nuove. Da qui, anche, la generale sensazione d’immobilismo che abbiamo da anni, quasi che dopo il trauma della modernizzazione non sapessimo più ritrovarci, non riuscissimo più a riprendere il bandolo della nostra storia e dunque non riuscissimo più a muoverci. Negli anni ’90 la cesura che era andata producendosi nei tre decenni precedenti è venuta finalmente alla luce: ha definitivamente preso forma un’Italia nuova, ma questa Italia nuova non riesce più a pensare se stessa, non riesce più a pensarsi come un intero, come nazione, a progettare il suo futuro, perché non riesce più a incontrare il suo passato.

Riappropriarsi di questo passato e della propria tradizione per ritrovarsi: questo è il compito urgente che sta davanti al Paese che sa e che pensa. Ed è alla luce di questo compito che esso deve ripensare anche l’intera istituzione scolastica, la quale solo così potrà riavere un senso e una funzione, e sperare di tornare alla vita. Ridare profondità storico-nazionale alla scuola, ma naturalmente in vista delle esigenze che si pongono all’Italia nuova di oggi e tenendo conto dell’ambito e dei contenuti propri degli studi. E cioè, non volendo sottrarmi all’onere di qualche indicazione, mirare innanzi tutto a ricostituire culturalmente (e per ciò che riguarda l’istituzione anche organizzativamente) il rapporto centro- periferia e Nord-Sud, riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell’esperienza italiana; in secondo luogo porre al centro, ed esplorare, il nostro tormentato rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, mettendone a fuoco debolezze e punti di forza e cercando anche in questa maniera di costruirci un modo nostro di stare nei tempi nuovi, di averne l’appropriata consapevolezza senza snaturamenti e scimmiottamenti; e infine ribadire la funzione della scuola nella costruzione della personalità individuale, principalmente attraverso l’apprendimento dei saperi, delle nozioni, e la disciplina che esso comporta.

Tutto ciò facendo piazza pulita delle troppe materie e degli orari troppo lunghi che affliggono la nostra scuola, e ricentrando con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall’altro le matematiche, cioè il linguaggio generale del presente e del futuro universali. A questo punto ci si può solo chiedere: esiste un governo, esistono dei ministri in Italia? Personalmente mi ostino a pensare di sì. E a credere che ogni tanto gli capiti perfino di ascoltare i gridi di dolore, come questo, che si levano dai giornali.

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UK schools need Swedish lessons
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→  agosto 16, 2008

Riscoperto da Tremonti, è stato un mariuolo, un guitto o il primo comunista della storia?
Palalexus, Cortina D’Ampezzo

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e la sua Robin Tax hanno riportato in auge l’eroe inglese Robin Hood che, secondo la leggenda, “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. Anche se nell’Italia del Terzo Millennio si parla di social card e l’Inghilterra del XII secolo è assai lontana, rimane il solito problema: condannare o assolvere?
A dare vita al processo in piazza organizzato da Cortina Incontra, ci pensano Franco Debenedetti nei panni del Pubblico Ministero, Piero Sansonetti come avvocato difensore, Enrico Cisnetto in qualità di Presidente del Tribunale e Federico Della Rosa, ovvero Robin Hood.

[flv]http://www.francodebenedetti.it/http%3A/www.francodebenedetti.it/wp-content/uploads/video/c_incontra.flv[/flv]

L’intervento in PDF

→  agosto 14, 2008

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The UK, a country famous for its love of tradition, has begun one of its summer rituals. Every year, just as the grouse-shooting season starts, there is a mass outbreak of grousing about school exams not being as hard as they used to be.
Results from the A-level exams, taken by school leavers at 18, were released on Thursday. It is increasingly difficult to tell top students apart because one-quarter of all papers now receive the maximum A grade. Part of the problem is that A-levels are used to judge the performance of the government, of schools and of children. It is unsurprising that it measures none of their performances very well.

This aspect of the problem could be dealt with easily. The people with the greatest incentive for accuracy in grades are universities and colleges, so they should be given control of the exam system. But the debate about exam results misses the big picture.
Educational systems vary between England, Wales, Scotland and Northern Ireland, but they should all receive a failing grade. They get mediocre results on international tests and they all widen, rather than narrow, the gap between the poor and the middle class. Although Britain has an open economy and society, its social mobility is rigid. This is more than a moral dilemma, it is a huge economic problem.
A great number of young British people leave school lacking basic numeracy and literacy and, even in the recent period of record growth, have tended to drift directly into unemployment. This is a scandal. The British school system needs a radical overhaul.
The leading light in school reform is Sweden. The education system there is funded by vouchers. If parents wish to change school, they have the right to do so, and to take state funding with them. Schools must compete with one another to attract pupils. Any education provider has the right to set up a new school. Competition between schools is the key.
Despite endless cant about “choice”, the UK educational system stifles competition. In most areas of the country, local schools are closely controlled by a single local educational authority. They are cartels that actively prevent schools from competing.
In Sweden, good schools can expand and anyone can set one up. Both are technically possible in the UK, but local government rules advise against them if they mean more unfilled places at local schools. Banning the creation of extra places guarantees that children at bad schools have nowhere to go and stamps out competition.

Mechanisms for paying good teachers more than bad teachers and rewarding rarer skills (such as maths and science) are also too weak. Effective educational reform should mean an end to uniform national pay deals for teachers.
The evidence suggests that adopting the Swedish model would make the average UK school better, and lift weaker schools most of all. The opposition Conservative party has pledged to introduce it. But the challenge for any party bent on real reform is how to get there and still get elected. Sharp shocks that destabilise the system could turn parents and teachers against change.
School management must be dealt with carefully. British schools are, at the moment, incapable of running themselves and third party providers do not yet have the capacity to take many over. Expanding the City Academies programme must be part of the answer to how we achieve a network of independent schools. The academies scheme was a Tony Blair-era innovation that allowed private providers to take over individual failing state schools, as a way to inject competition into educationally backward areas. The Tories are right to have identified a big expansion of academies as a means of moving Britain closer to the Swedish model at a pace the sector can handle.
Their liberal position contrasts sharply with that of Ed Balls, schools secretary, who has reduced the academies’ freedoms and is setting them up under the control of the local cartels with which they are supposed to compete. Mr Balls is pandering shamefully to the left.
Allowing schools to decide on teachers’ pay will, at some stage, mean a confrontation with the unions. The government will probably need to increase school spending to cushion the cost of far-reaching reform, but also to counter union charges that this is slashing and burning public services.
While Conservative economic proposals are tainted with populism, their plans for schools and skills are on the right track. The state of British schools is little short of a national disgrace. Mr Balls still has time to avoid going down as the man who missed the reform boat.

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→  luglio 22, 2008

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di Oreste Pivetta

I casi Telecom, quello dello spionaggio e quello sulle strategie economico finanziarie proprietarie dell´impresa, si stanno riaprendo grazie ai magistrati e, un´altra volta, con la mano dei giornali. C´è da immaginare che si debba attendere parecchio prima che i capitoli si chiudano e c´è da dubitare, dato il groviglio, che lascino scritte pagine di verità. Marco Tronchetti Provera, ex presidente ed ex azionista di riferimento, è convinto invece che alla verità (giudiziaria) si sia comunque arrivati. «Sono molto contento e soddisfatto – ha dichiarato – della conclusione cui sono giunti i giudici dopo tre anni e mezzo di indagine: dopo che sono stati sentiti centinaia di testimoni, che si sono viste migliaia di carte, è emersa con chiarezza la verità».

Ma il presidente del Gruppo Pirelli, letti i giornali, ha avuto anche molto da recriminare: «Sono peraltro sconcertato che continui una campagna che, malgrado ogni evidenza, cerchi di alterare la verità. È davvero inaccettabile, incomprensibile». Se lo si poteva sommariamente considerare fuori dalla brutta storia (insieme all´amministratore delegato Carlo Buora), a ributtarlo nel mare dei sospetti è stata Repubblica che ieri gli dedicava un titolo in prima e due pagine intere (con un inquietante avviso: continua) in cui si rappresentavano in dettaglio i pensieri e la storia di Giuliano Tavaroli, avvertendo solo all´ultimo che «la sua è la ricostruzione di un indagato».

Dalle prime righe di Giuseppe D´Avanzo (accanto alla foto, oculatamente scelta, dello spione Tavaroli vicino al padrone Tronchetti), si poteva dedurre che l´idea di Repubblica fosse un po´ quella di respingere la tesi del pubblico ministero di Milano: «Più o meno si sostiene che fossero all´opera in Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici d´infanzia… La combriccola voleva lucrare un po´ di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia». Conclusione: l´affaire Telecom, spiegato così, si sgonfia come un budino malfatto. A ritirarlo su, al cielo dei vasti intrighi internazionali, ci pensa dunque Tavaroli, che traccia la ragnatela che tutto accoglie e raccoglie e quasi tutti assolve (assolvendo in primo luogo se stesso, all´opera solo per “cause di forza maggiore”): servizi segreti, Abu Omar, generali, Pollari e Speciale, grandi manager (ma Scaroni nega d‘aver mai visto in vita sua Giuliano Tavaroli), un ex presidente (Cossiga), uffici romani, detective di casa nostra e naturalmente Tronchetti Provera («Mi hanno detto di ballare su una zona di confine. E io ho ballato. Me ne ha dato atto, quando mi ha liquidato, anche Tronchetti») e, infine, il Corriere della Sera.

Come sarebbe potuto mancare il Corriere: sta nella più o meno recente tradizione spionistica-piduistica italiana. Ci racconta Tavaroli che Tronchetti non aveva alcun interesse per Telecom, voleva il Corriere (al quale è approdato da tempo, sedendo onorevolmente nel patto di sindacato, cioè al tavolo di comando). Tronchetti aveva una passione per il giornale di via Solferino, «un´istituzione essenziale per la democrazia italiana». «In quei mesi – testimonia l´indagato Tavaroli – stava acquisendo posizione e posso credere che si preparasse a lanciare una offerta pubblica di acquisto…». Tanta voce a Tavaroli (il seguito oggi) e tanto accanimento contro Tronchetti non sarà solo “scoopismo”, anche perchè della vicenda si sa già tutto, compresi i nomi dei “pedinati” (anche impiegati o sindacalisti di Telecom). Una possibilità è che Tavaroli monti un´architettura complottistica “esterna”, per giustificare se stesso, obbligato da neanche tanto oscuri poteri superiori. Un´altra possibilità è che si rimonti il “teorema”, quello che proprio il Corriere di ieri, nel fondo di Sergio Romano, dava ormai per smontato. Il fine e colto ex ambasciatore sta alle “carte”, all´avviso di conclusione delle indagini, che avrebbero «implicitamente scagionato» l´azionista Rcs Marco Tronchetti Provera (e Carlo Buora). Sergio Romano non prende partito: ragiona con ottimismo per dimostrare che tra corruzione, mafie, conflitto d´interessi, eccetera eccetera, ogni tanto succede qualcosa che ci fa pensare che la nostra “classe dirigente” sia meno peggio di quanto si creda, che “noi” siamo meno peggio di quanto si creda. Quanto si sia consumato (e si consumi) di potere, di politiche, di risorse, alle nostre spalle, ovviamente non ci è dato sapere: la Telecom di Tronchetti Provera ha divorato, come è noto, quattrini (anche quelli che Tronchetti Provera e i suoi aiutanti sono riusciti ad intascare, andandosene) e credibilità politiche (come dimenticare l´incontro a Cernobbio con Prodi, il piano Rovati, la bocciatura di Telefonica o quella di At&T e via tra perdite e piani dismessi).

Proprio domenica sul Sole24Ore Franco Debenedetti poneva la domanda giusta: quanto spionaggio e killeraggio hanno guidato o influenzato o inquinato la vicenda industriale e finanziaria di Telecom, espropriando gli azionisti? L´opacità è la regola d´oro dei nostri tempi. Chissà che cosa ci toccherà in futuro. Di sicuro ci toccherà di pagare ancora. Tronchetti Provera saprà sicuramente che in fondo all´elenco degli indagati compaiono, al trentacinquesimo e al trentaseiesimo posto, anche la Pirelli e la Telecom, persone giuridiche, non avendo adottato un «modello organizzativo al fine di prevenire la commissione di reati» fino al maggio 2003 «e comunque dal momento dell´adozione, non avendolo efficacemente attuato e non avendo adeguatamente vigilato sull´osservanza dello stesso…». Siamo alla legge 231 (siamo al 2001). Se sentenza di condanna ci sarà, perché è mancata la vigilanza del vigilante, non ci sarà presidente o ex presidente di mezzo: a rispondere ci sarà Telecom, ci saranno gli azionisti (di tasca loro).

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→  luglio 21, 2008

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di Massimo Giannini

Non c’è bisogno di aver letto Carl Schmitt sul ruolo della banca centrale tedesca ai tempi di Weimar, per capire quanto contino, in una democrazia degna di questo nome, le autorità indipendenti. Per comprendere quanto pesino, in uno Stato ad economia liberale, i cosidetti «poteri neutri». Eppure qualche lettura colta non farebbe male ai leader del centrodestra che oggi guidano l’Italia all’insegna della dottrina (schmittiana anche questa) dello «Stato governativo». Si eviterebbero mostruosità come quella che hanno appena compiuto ai danni dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Passato quasi sotto silenzio, ad eccezione di poche e isolate grida d’allarme, il blitzkrieg notturno con il quale la Lega ha azzerato i vertici dell’Authority, con un banale ma micidiale emendamento alla manovra, è un «atto sedizioso». Così l’avrebbe chiamato Guido Carli.

Con la scusa di un apparente ampliamento dei poteri dell’istituto alle attività di «concessione, autorizzazione o convenzione per l’avvio della produzione di energia nucleare», è stato ridotto da 5 a 4 il numero dei membri, ed è stato rimosso il presidente in carica. Guarda caso, proprio quell’Alessandro Ortis che si era «permesso» di sollevare dubbi sulla possibile «traslazione» sui consumatori della Robin Hood Tax, e che aveva «osato» proporre la separazione proprietaria di Snam Rete Gas dall’Eni. Il governo non aveva gradito. Scajola aveva bacchettato il grand commis: «Non travalichi le sue competenze istituzionali». Colossale fesseria ministeriale: è esattamente nei poteri delle Authority suggerire soluzioni tese alla migliore efficienza dei mercati su cui sono chiamate a vigilare. Ma il rimbrotto non era bastato. E così è arrivato il siluro.

Non si era mai vista una purga staliniana ai danni del presidente di un’autorità amministrativa indipendente a due anni dalla scadenza del suo mandato. Stupisce che gli economisti e i commentatori liberali non se ne siano accorti, ma è un precedente di una gravità inaudita. Alla fine anche i «colbertisti» l’hanno capito. E così, a quanto pare dalle cronache parlamentari, lo scempio leghista è stato riparato in Commissione, con uno stralcio inserito all’ultimo minuto nel maxiemendamento alla stessa manovra. Ma l’incidente rimane agli atti. E la dice lunga, purtroppo, sulla cultura politica di questa maggioranza. A quando un bel repulisti anche alla Banca d’Italia o alla Consob, come lucidamente si chiede Franco Debenedetti sul sito lavoce.info? La domanda è tutt’altro che retorica.

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di Sergio Romano

Siamo abituati agli atti d’accusa che coinvolgono numerose persone e alle sentenze, soprattutto in Appello e in Cassazione, che riducono considerevolmente il numero e le responsabilità degli imputati. Nel procedimento che concerne dal 2005 Telecom, Pirelli e il responsabile dei loro servizi di sicurezza, Giuliano Tavaroli, sembra che stia accadendo esattamente l’opposto. Durante lo «scandalo dei dossieraggi» (un gigantesco mercato di controlli telefonici e spionaggio informatico che coinvolse, come vittime e clienti, parecchie migliaia di persone) avemmo tutti l’impressione che le indagini avrebbero inevitabilmente trascinato sul banco degli accusati il presidente e l’amministratore delegato dell’azienda, rappresentati come registi dell’intera operazione. Ebbene, no. Dopo tre anni di indagini, la Procura della Repubblica di Milano starebbe per incriminare una trentina di persone, fra cui Tavaroli, e per rinviare a giudizio le società Telecom e Pirelli, ma avrebbe implicitamente scagionato Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. Il «teorema», come direbbe Berlusconi, è stato smontato. Ma questo non è accaduto alla fine di un sofferto tragitto giudiziario, costellato di sentenze e di appelli.

È accaduto grazie a una Procura che, occorre riconoscerlo, non ha fatto nulla, nella fase calda dello scandalo, per alimentare sospetti e supposizioni. Forse è giunto il momento di chiedersi come e perché l’Italia sia particolarmente vulnerabile a questo tipo di vicende. Quando esplodono, gli scandali italiani cadono su un terreno pronto ad accoglierli. Una parte importante della pubblica opinione è convinta che la sua classe dirigente (politici, imprenditori, finanzieri) sia avida, corrotta, profondamente immorale, instancabilmente indaffarata ad arricchire se stessa e a derubare i suoi connazionali. La battuta di Giulio Andreotti («a pensare male s’indovina») è diventata un motto nazionale. In molti Paesi la possibilità che una truffa o un complotto siano stati orditi da personalità eminenti suscita generalmente sorpresa, sconcerto, incredulità. Da noi suscita una specie di trionfale compiacimento e ribadisce convinzioni diffuse. Le assoluzioni, quando arrivano, dimostrano soltanto che anche la giustizia, in ultima analisi, è al servizio dei potenti. Il sospetto che diventa una patologia nazionale crea un ingranaggio inarrestabile, un ciclo continuo, difficile da interrompere. Non è necessario costruire teoremi. Esistono già, depositati nel profondo della diffidenza e della sospettosità nazionali. Attenzione, non vorrei essere frainteso. In un Paese afflitto da corruzione, conflitto d’interessi, spirito mafioso e criminalità organizzata, gli scandali, purtroppo, sono spesso reali. Ma se è sciocco negarne l’esistenza, è altrettanto sciocco pensare che tutti gli amministratori pubblici siano ladri e tutti gli imprenditori sospettabili delle peggiori nefandezze. Il Paese, nonostante tutto, è molto meglio di quanto pensino i suoi cittadini.

Esiste naturalmente una responsabilità dei mezzi d’informazione. La stampa, nel senso più largo della parola, è lo specchio che riflette i sentimenti, gli umori e le idiosincrasie della società. Ma quella italiana non si limita a registrare gli umori del Paese. In molti casi li amplifica e li rilancia. Le ragioni sono in parte antiche e in parte nuove. Là dove non esiste una netta distinzione tra stampa d’informazione e stampa popolare, il giornale è spesso condannato a essere contemporaneamente l’uno e l’altro per cercare di raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Questa ambivalenza tende a diventare ancora più evidente in una fase in cui i giornali sono insidiati da nuovi mezzi d’informazione, moderni, aggressivi e destinati a conquistare una parte crescente della società. Esiste la concorrenza, beninteso, ma vi sono circostanze in cui costringe i concorrenti a rincorrersi verso il basso piuttosto che verso l’alto. Temo che nella vicenda dei dossier illeciti l’informazione abbia avuto, quasi senza eccezioni, le sue responsabilità. Per «servire» il lettore e non restare indietro rispetto alla concorrenza, ha finito per somministrargli ogni giorno una dose crescente di sospetti. E ha dimenticato che certe vicende, anche quando sono destinate a ridimensionarsi, possono avere conseguenze micidiali per la sorte dei protagonisti dello scandalo. Nel Sole 24Ore di ieri Franco Debenedetti ha intravisto una relazione tra lo scandalo dei dossier e le sorti di Telecom nei mesi successivi. Per Debenedetti in questa vicenda vi sarebbe anche lo zampino della politica. Può darsi. Ma vi è certamente una responsabilità della informazione di cui noi tutti dobbiamo essere consapevoli.

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