→ gennaio 31, 2009

di Luca Ricolfi
Sulle intercettazioni gli altolà al governo si sprecano. Ieri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, sono intervenuti nientemeno che il Procuratore generale della Cassazione (Vitaliano Esposito), il primo presidente della Cassazione (Vincenzo Carbone), il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Nicola Mancino), il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Luca Palamara). Nei giorni scorsi era già intervenuto il presidente della Corte Costituzionale (Giovanni Maria Flick). Tutti, in un modo o nell’altro, hanno espresso preoccupazioni per le possibili conseguenze del disegno di legge governativo. Sono fondate tutte queste preoccupazioni? Dipende dal bene che si intende tutelare.
Se il bene è il diritto alla privacy, le preoccupazioni sono ovviamente infondate, perché il disegno di legge – limitando i casi in cui si può intercettare e pubblicare – ha precisamente lo scopo di aumentare le garanzie dei cittadini in materia di privacy e segretezza delle comunicazioni, garanzie esplicitamente previste dalla Costituzione (art. 15) ma di fatto sospese ogni qual volta il superiore interesse delle indagini autorizza i magistrati a usare l’arma impropria delle intercettazioni.
Se il bene da tutelare è il diritto all’informazione le cose si fanno più complicate. Indubbiamente le norme di cui si discute limitano gravemente il diritto dei cittadini a essere informati tempestivamente sul corso delle indagini, anche se si potrebbe obiettare che attualmente, quando scoppia uno scandalo, quella che viene fornita dai mezzi di comunicazione di massa è tutto tranne che un’informazione accurata, imparziale, completa. Detto altrimenti: la scelta effettiva non è fra sapere e non sapere, ma fra sapere solo dopo l’inizio del processo (come vorrebbe il governo), o avere fin da subito dei frammenti arbitrari di informazione – talora utili, talora fuorvianti – come oggi accade.
Se infine il bene da tutelare è il diritto alla sicurezza dei cittadini le preoccupazioni espresse dalle maggiori cariche dell’ordine giudiziario mi paiono pienamente giustificate. Non v’è dubbio, infatti, che la drastica riduzione delle possibilità di intercettare prevista dal disegno di legge governativo in molti casi diminuirà la possibilità di scoprire e punire i colpevoli di reati.
È inutile pensare che ci sia una posizione giusta, o una soluzione ottimale. Le tre libertà che ci stanno a cuore – non essere spiati, venire informati, essere sicuri – non possono essere tutelate tutte e tre contemporaneamente e nella stessa misura. La drastica limitazione delle intercettazioni che si profila all’orizzonte rafforzerà la nostra privacy, ridurrà le nostre informazioni (non necessariamente vere, ma pur sempre informazioni), diminuirà la nostra sicurezza. Se teniamo più alla privacy che alla sicurezza possiamo anche rallegrarci con il governo, se teniamo più alla sicurezza che alla privacy non possiamo che condividere le preoccupazioni dei vertici della magistratura.
Personalmente mi sento più in sintonia con le preoccupazioni dei magistrati che con gli improvvisi aneliti libertari del governo. Vorrei aggiungere un’osservazione, però. Le obiezioni dei magistrati sarebbero più convincenti se essi, oltre a ripetere a iosa la verità – e cioè che senza intercettazioni moltissimi colpevoli non verrebbero individuati -, mostrassero di rendersi conto che gli abusi ci sono stati, ci sono, e un qualche mezzo per limitarli andrà comunque trovato. I dati sulle intercettazioni non sono molti e non sono di grande qualità, ma quei pochi di cui disponiamo ci permettono di dire alcune cose.
Nei due periodi per cui esistono dati relativamente omogenei, ossia il quinquennio 1992-1996 e il settennio 2001-2007, il numero di intercettazioni è esploso: nel primo periodo sono più che raddoppiate, nel secondo sono più che quintuplicate. Una parte di questo aumento si può giustificare con l’aumento dei delitti, un’altra parte con la crescita del numero di utenze a persona, ma siamo sicuri che una parte non sia dovuta al fatto che l’intercettazione è semplicemente il mezzo più comodo (e anche più economico, checché ne dicano i suoi detrattori) per raccogliere prove?
Le intercettazioni possono sembrare poche se commisurate al numero totale dei procedimenti (una statistica spesso astutamente usata dai magistrati per minimizzare il problema) ma non sono affatto poche se le commisuriamo al numero di procedimenti penali, e peggio ancora se le commisuriamo ai procedimenti per reati che le autorizzano (non tutti i reati sono intercettabili).
Infine, la distribuzione territoriale. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2007, mostrano che nei 29 distretti di corte d’Appello in cui è diviso il territorio italiano la propensione a intercettare ha una variabilità enorme: il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più di quello che intercetta di meno. E anche all’interno delle grandi zone geopolitiche le differenze sono enormi, con distretti meridionali che intercettano 10 volte di più di altri situati nella medesima area geografica.
Insomma i magistrati hanno ragione, ma sembrano vedere solo una faccia della Luna. Quanto alle forze politiche principali, la mia impressione è che nessuna di esse abbia intenzione di trovare un compromesso ragionevole. Con un singolare scambio di ruoli, il centro-destra si fa paladino della privacy, e in questo improvviso afflato libertario si trascina dietro il drappello dei radicali; mentre il Pd, con Veltroni, ribadisce una linea già espressa nel programma elettorale: «La nostra posizione è per la massima libertà di intercettare, evitando però che il contenuto delle telefonate finisca impropriamente sui giornali, e questa è una posizione del Pd e anche, vorrei ricordarlo, dell’Italia dei valori».
Così il governo cerca di nascondere che le sue proposte produrranno più criminalità, il Partito democratico sembra non comprendere il grave vulnus alla libertà che l’esistenza stessa delle intercettazioni comporta. Il primo vincerà perché ha i numeri, il secondo si salverà l’anima votando contro. A noi spettatori resterà solo un dubbio: perché il Partito democratico non confluisce nell’Italia dei valori?
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→ gennaio 25, 2009

Lettere contemporanee
di Giuliano Amato
Ha assolutamente ragione il Presidente Obama quando dice che non basta creare nuovi posti di lavoro, ma occorre dare «nuove fondamenta all’economia». Non vorrei però che negli entusiasmi suscitati da questa sua affermazione si infilasse anche la voglia di tornare al vecchio, una voglia già sperimentata in altre situazioni di crisi e servita allora più a prolungarle che a risolverle. Separare subito il grano dal loglio nella ricerca del nuovo mi pare quindi essenziale.
Di nuove fondamenta ha certo bisogno l’economia americana, nella quale per prima ha preso corpo quell’abnorme espansione delle attività finanziarie, che sono arrivate a generare oltre il 40% dei profitti, hanno schiacciato sotto i debiti l’economia reale e hanno reso laceranti le diseguaglianze di reddito. E di nuove fondamenta hanno bisogno anche gli altri, noi compresi.
Dobbiamo valorizzare davvero i fattori da cui dipende la crescita della nostra produttività e non farne oggetto soltanto dei nostri ormai stucchevoli convegni sul tema.
Ma la dinamica stessa della crisi e gli interventi che sta suscitando non possono spingere oltre la domanda di cambiamento? Oggi rischiano di fallire insieme imprese efficienti e imprese inefficienti e per evitare i costi sociali dei due fallimenti si interviene massicciamente con aiuti di Stato oppure si autorizzano fusioni (magari per legge, come si è fatto per Alitalia e Airone) che in condizioni normali sarebbero invece proibite. Interventi transitori, si dice. Ma dei benefici della concorrenza, anni addietro sulla bocca di tutti, oggi non parla nessuno. E c’è anzi chi comincia a chiedersi se davvero ne abbia portati di benefici e se della revisione critica a cui assoggettiamo il Washington consensus con il ventennio che ne è seguito non debba far parte, senza sconti, lo stesso fondamento concorrenziale che abbiamo voluto generalizzare in ogni settore dell’economia. La questione dunque è già posta e sarebbe perciò un errore non affrontarla. Se la si affronta ci si accorge che sì, è vero, diverse cose non hanno funzionato in questi anni nei mercati aperti alla concorrenza. Ma davvero la responsabilità è della stessa concorrenza e di ciò che essa ha dato e può dare?
È di sicuro peggiorata la vita di gran parte dei lavoratori occupati in quei mercati, mentre non sono affatto migliorati, in più casi, la qualità e il prezzo dei servizi resi ai consumatori. Quando c’era la rendita del servizio in monopolio, si diceva che se la spartivano, a danno dei consumatori, il gestore e i suoi lavoratori. Ora che la rendita non c’è più, ora che molti lavori prima a tempo indeterminato e ben pagati sono diventati precari e mal pagati, una eguale insoddisfazione accomuna i lavoratori e gli utenti. Basti pensare all’incubo del povero utente con problemi di telefono, che si aggira via filo nei meandri dei call center, avendo come massima soddisfazione quella di parlare alla fine con qualcuno; oppure alla attesa dei bagagli in aeroporto, dove ormai, a parte i furti, non c’è più personale sufficiente per smistarli. Quanto alle tariffe, nei telefoni sono senz’altro diminuite, ma in molti altri servizi, per una ragione o per l’altra, la riduzione non c’è stata.
C’è poi la struttura disfunzionale e bislacca assunta da certi mercati, nei quali l’apertura alla concorrenza ha messo ai polpacci dell’ex monopolista sette piccoli e avidissimi indiani, che hanno corroso la sua forza di mercato, hanno conquistato ciascuno uno spazio troppo piccolo per diventare vitali, col risultato che alla fine, se il mercato non era solo nazionale, loro vivono di stenti (trasferiti peraltro ai dipendenti) e l’ex monopolista si ritrova indebolito e inerme davanti agli ex monopolisti di altri Paesi, meno massacrati di lui. Il caso del nostro mercato aereo, certo con una qualche unilateralità, può essere raccontato anche così. E così del resto lo sintetizza Marcello De Cecco in un paper non ancora pubblicato.
Bene, anzi male, tutto questo è accaduto. Ma è accaduto perché non funzionano la concorrenza e i privati o per difetti da imputare in primo luogo alle azioni con le quali lo Stato o gli enti locali dovevano orientare e regolare i mercati nascenti da liberalizzazioni e privatizzazioni? I privati, si sa, più che all’aureola pensano a far soldi. Ma quel che conta è che nei mercati liberalizzati la mano invisibile basta assai meno che altrove e lo sapeva bene la stessa signora Thatcher, nei cui anni di governo fu proprio il Regno Unito a sviluppare l’esperienza di regolazione più attenta e intensa per far nascere e crescere dei mercati funzionanti al posto dei vecchi monopoli.
Non voglio allargare troppo il discorso e prima di ritornare sull’Italia mi limito a ricordare che dei disastri seguiti alle privatizzazioni in buona parte dell’Est europeo (dagli arricchimenti smodati dei compradores al tasso di mortalità che sarebbe cresciuto fra le migliaia di lavoratori licenziati) giustamente Joe Stiglitz attribuisce la responsabilità alla shock therapy che si volle adottare in assenza di istituzioni statali capaci di governare il passaggio.
E torno all’Italia. Ce la ricordiamo la allegra incoscienza con la quale lasciammo crescere il Far West delle televisioni private dopo che nel 1976 la Corte costituzionale dichiarò legittimo il solo monopolio nazionale e illegittimo quello locale? Lungo anni e anni di totale omissione legislativa e di acquiescenza a ciò che veniva accadendo fiorirono e sfiorirono oltre cento fiori, si consolidò un duopolio di tre reti pubbliche contro tre reti private e poi non si seppe fare altro che sancirlo per legge. È colpa dei privati se finì così? Della liberalizzazione aerea ho già accennato e posso solo aggiungere che ogni italiano ha diritto di chiedersi perché la concorrenza abbia rafforzato British Airways, Air France e Lufthansa e abbia invece indebolito Alitalia. Invito poi chi ne ha voglia a dare una occhiata alla giungla delle discipline che regolano le nostre società aeroportuali, per rendersi conto della impossibilità che da quell’insieme dissennato esca una concorrenza funzionante. E termino con un cenno alla concorrenza che sta per aprirsi nel settore ferroviario, dove c’è un obbligo di servizio universale per le stesse percorrenze medio-lunghe non coperte dalle Regioni, che tuttavia non è regolato ed è solo occasionalmente finanziato. Che Dio ci assista.
Conclusione. La rinuncia alle norme sulla concorrenza fu adottata come medicina anti-crisi all’inizio del New Deal negli Stati Uniti e negli anni 90 in Giappone. Ne vennero benefici sociali a breve termine, che furono però largamente compensati dai danni di lungo termine sul terreno della produttività e dell’efficienza di sistema. Se è vero perciò che c’è molto da rivedere negli ingredienti del Washington consensus, teniamone fuori la concorrenza. E impariamo caso mai a farla funzionare.
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Strategie di rilancio
di Carlo Bastasin
Le democrazie non sono indulgenti con se stesse. E infatti Barack Obama non sta dimostrando compiacimento nei confronti del proprio Paese. «Dobbiamo rifare l’America», ha affermato nel discorso inaugurale. Ha denunciato avidità e irresponsabilità degli individui, ha evocato fallimenti e «l’inverno profondo», e chiamato un nuovo spirito di servizio e di regolazione pubblica.
Per reagire alla crisi cambierà il piano di salvataggio delle banche e con il più vasto appoggio nel Congresso varerà un pacchetto di stimolo fiscale in buona parte orientato, come ha spiegato ieri, a migliorare la produttività del Paese nel lungo termine. Sa che gli Stati Uniti non potranno uscire da soli dalla crisi e ha portato alla luce il problema della cooperazione globale, cominciando dalla Cina. A questo servono i cambi di governo in democrazia: a correggere gli errori, senza indulgenze.
Il vuoto di democrazia pesa invece sull’Europa. Legittimamente nessun governo nazionale si sente artefice della crisi, ognuno può fingersi vittima compiaciuta parlando allo specchio della propria opinione pubblica. Ma l’irresponsabilità politica induce solo a scansare le soluzioni costose, finendo per danneggiare se stessi. Mentre Obama pone le basi di un’uscita costruttiva dalla catastrofe che in gran parte gli Stati Uniti hanno provocato, l’Europa sta indebolendo le proprie fondamenta. Il Patto di stabilità e crescita e il Mercato unico, i due pilastri della cooperazione economica europea, sono infatti a rischio.
Il rilancio della domanda aggregata nell’Unione europea è stato affidato a un Piano di rilancio che prevede azioni coordinate di stimolo pari all’1,6% del Pil e un impegno al rafforzamento della competitività e della tecnologia con effetti non solo temporanei. Ma come emerge dai bilanci 2009, il Piano resta inattuato. Non solo in Italia, dove il sostegno netto, tra aiuti alle famiglie e prelievi sulle imprese, è sostanzialmente nullo, ma anche nei Paesi con minori vincoli di bilancio.
La mancanza di coordinamento e di iniziativa politica ha fatto prevalere un atteggiamento passivo: ogni Paese reagisce alla crisi, caso per caso, una volta che i sintomi si manifestano.
L’ambiguità concessa dal Consiglio europeo nella gestione dei bilanci pubblici è stata utilizzata non per sviluppare una strategia di sostegno, ma per contabilizzare gli effetti della recessione sulle entrate fiscali e per interventi ad hoc che minacciano il mercato unico. I governi nazionali hanno una comune convenienza a proteggere le proprie imprese con denari pubblici: aumentano la propria influenza sui centri di potere economico tenendoli in mani nazionali. La concorrenza infatti è un interesse caro ai cittadini, non necessariamente ai governi.
La segmentazione del mercato unico, tranne in casi specifici come quello dei mercati monetari, non è una conseguenza inevitabile della crisi. È il frutto dell’inerzia politica. La Commissione europea ha aperto la strada a una disposizione nell’art.87 del Trattato che definisce compatibili gli aiuti di Stato destinati a «porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro». Aperto questo varco, studiato per le banche in grave crisi, l’applicazione rischia di dilagare. È diventato più facile per Sarkozy stanziare fondi di sostegno diretto per le imprese dell’auto, dell’acciaio e della stampa, «purché restino in Francia». Lo stesso su scala maggiore avviene in Germania dove il Governo sta influenzando direttamente le scelte di credito alle imprese da parte delle banche nazionalizzate. Ha finanziato la fusione Commerzbank-Dresdner per aiutare Allianz, poi ha dovuto nuovamente aiutare la banca di Francoforte che ha già modificato la politica del credito alle imprese assecondando i desideri del Governo. Ha aiutato la fusione Continental-Schaeffler e ora vuole salvarne l’esito fallimentare. Vuole influenzare le scelte di credito sia alle piccole e medie imprese con 15 miliardi attraverso la Kfw, sia alle grandi distinguendo a proprio giudizio le “imprese sane” e distribuendo 100 miliardi con un fondo che non a caso si chiama “Fondo Germania”. Sta prendendo profilo una “politica industriale” e sarà inevitabilmente “nazionale”. Ieri il Governo spagnolo ha invitato i cittadini a “comprare spagnolo”. Da parte sua la Gran Bretagna sta abbandonando ogni forma di coordinamento con i Paesi europei negli interventi pubblici d’emergenza cui è costretta e che diventano più drammatici ora dopo ora.
Di questo passo la tutela della concorrenza su scala europea non potrà resistere. E probabilmente le cure faranno danni peggiori di una crisi che, risolti i problemi di circolazione del credito, si sarebbe dimostrata meno grave di quanto gli stessi responsabili politici non amino descriverla, agganciando il proprio potere a un astuto allarmismo. La settimana scorsa, spaventati dal proprio stesso osare, i governi hanno dato vita, nel Consiglio competitività, a un quadro europeo per il sostegno dei beni durevoli con obiettivi di efficienza ambientale, che daranno almeno un significato accettabile agli aiuti all’auto. Ma il senso della rinazionalizzazione dell’economia europea resta prevalente.
Se la Commissione sentisse l’era della propria responsabilità, se Barroso non fosse paralizzato dalle ambizioni di rinnovo alla presidenza, anche l’Unione europea dovrebbe porsi nell’ottica di Obama di “rifare l’Europa”, anziché di disfarla. E se Obama fosse presidente degli Stati Uniti d’Europa probabilmente saprebbe proporre l’antidoto possibile all’erosione del mercato unico: il rafforzamento di un sistema europeo di flexicurity che garantisca a chiunque perda lavoro, precario o no, una piena assistenza pubblica, un sussidio di disoccupazione pluriennale per esempio, comune a tutti i Paesi europei a fronte di un mercato del lavoro dinamico, che non nascondesse la flessibilità nell’economia sommersa o nell’outsourcing. La fiducia delle famiglie che oggi vedono a rischio il proprio reddito sarebbe confortata. Le aspettative di consumo sarebbero rafforzate e quindi anche i progetti di investimento delle imprese potrebbero far conto su uno stabile orizzonte. Con un mercato in cui il commercio extraeuropeo conta per una quota molto minoritaria, non ci sarebbe bisogno di interventi protezionistici o di nazionalizzazioni nascoste per superare la recessione. La concorrenza potrebbe essere mantenuta.
Oltre alle ovvie ragioni che spingono a tutelare il mercato e a tenere a bada l’intrusione della politica, vi sono alcune ragioni forse meno evidenti ma non meno importanti. La prima è che i Paesi che dispongono di mercati del lavoro flessibili, ma anche di sistemi di assicurazione sociale molto forti, come i Paesi scandinavi, sono quelli che dimostrano di risentire della crisi meno di tutti gli altri. Una seconda ragione è che lo sviluppo moderno dei sistemi di assistenza universale sarà al centro dell’azione di politica sociale del nuovo presidente americano, con una convergenza degli Stati Uniti verso il modello europeo che è la conferma della visione degli europeisti. Ma una tale convergenza può compiersi e può resistere alle tentazioni protezioniste solo se ispirata dall’efficienza di un’economia dinamica e sarebbe assurdo che l’Unione europea mancasse questa opportunità di affermazione e difesa del proprio modello di società.
La terza ragione è che i costi di riforma del sistema di welfare, che normalmente giudichiamo esorbitanti, sarebbero modesti rispetto al volume di denaro pubblico che i governi progettano di investire nell’acquisizione di interi sistemi bancari e nel controllo di imprese, e gli oneri diminuirebbero con la ripresa dell’economia. In questo senso la riforma della contrattazione approvata in Italia giovedì, purtroppo senza la Cgil, va nella giusta direzione ma richiede ora una riforma degli ammortizzatori. Inoltre un sistema omogeneo di flexicurity sarebbe coerente con la riduzione delle tasse sul lavoro a minor reddito, una misura efficace per stimolare sia i consumi sia l’offerta di lavoro e coordinabile a livello europeo, con effetti amplificati sul moltiplicatore fiscale. Al centro dell’azione politica sarebbero finalmente gli individui e lo sviluppo della loro capacità creativa nella società della conoscenza.
Un’ultima ragione è che l’omogeneità del modello sociale tra i Paesi europei non è indispensabile solo per mantenere senso e prospettiva al mercato unico, ma perché costringe la politica dei partiti europei di destra o di sinistra ad assestarsi ordinatamente ai due lati della mediana europea, cioè del livello medio di sicurezza e di flessibilità sul quale i Paesi si accorderanno. Solo in tal caso la vita pubblica europea potrà dare un senso al confronto tra una destra e una sinistra europee e quindi a sviluppare un discorso politico ben riconoscibile che consenta di mobilitare l’opinione pubblica su scala continentale e a rendere così finalmente compiuta la democrazia europea.
Nel prossimo giugno la crisi economica vivrà probabilmente il suo momento peggiore. Si faranno sentire più forti i venti contrari della disoccupazione. Proprio in quel mese si terranno le elezioni per il Parlamento europeo. È facile prevedere i sentimenti dei cittadini nei confronti dei loro governi e della politica europea. Nel momento in cui «l’America – scrive Barbara Spinelli – scopre il post-nazionalismo europeo», politici locali utilizzeranno l’Europa come capro dell’espiazione nazionale. È in quei momenti che si misura il coraggio di un popolo e di chi lo rappresenta. Mentre Obama chiamerà gli americani a costruire strade e ponti, reti elettriche e digitali, a imbrigliare il sole e i venti, a trasformare le scuole e le università «per rispondere alle esigenze di una nuova era», gli europei rischiano di arretrare entro vecchi confini che contengono solo le forme vuote della politica nazionale. Anche in questo caso, come ha detto Obama, la storia giudicherà chi ha saputo costruire e chi invece ha saputo distruggere.
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di Emanuele Macaluso
In democrazia c’è sempre la rivincita
Non so se si nasce di sinistra. Tanti che di sinistra erano ora sono di destra. E non so se negli anni in cui il fascismo trionfava, Matteotti, Gramsci, Pertini, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Giancarlo Pajetta e molti altri, si ponevano la domanda che retoricamente si pone Edmondo Berselli. Non credo. Eppure per le loro idee di sinistra furono uccisi o passarono tanti anni in carcere.
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→ novembre 19, 2008

Caro direttore,
Leggo sul Riformista del 18 novembre una lunga lettera di Franco Debenedetti (“Villari sì e Bassanini invece no”), zeppa di critiche e di insinuazioni velenose nei miei confronti. Le critiche sono tutte legittime quando non sono basate su una manipolazione dei fatti. Ma è invece ciò che fa Debenedetti fingendo ignorare che nel Consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti non sono stato nominato da Prodi (come lui afferma falsamente) ma dagli azionisti di maggioranza, 66 Fondazioni bancarie non classificabili in termini di schieramenti politici.
E fingendo di ignorare che alla stessa presidenza della Cassa (come due anni fa alla vicepresidenza) sono stato designato dai medesimi azionisti di minoranza, e non dal Governo: anche se naturalmente la cosa è stata da essi trattata e concordata con Tremonti, nell’ambito di una riforma della governance della Cassa che affida all’amministratore delegato Varazzani tutti i poteri per la gestione dell’azienda e fa del presidente un organo di garanzia e di raccordo con gli azionisti e le istituzioni (Regioni, enti locali, commissione parlamentare di vigilanza).
Basterebbe questo dato, per vero, a smentire la ricostruzione critica di Debenedetti, il suo ricorso alla categoria del “collaborazionismo” (come un Franco Monaco qualsiasi!) e le illazioni sulla “valenza” della mia nomina (rectius elezione) per il Pd. Ma non si può non notare che anche Debenedetti (come, per vero, molti altri) sembra prigioniero di una cultura iperpoliticistica e ultrapartitocratica, per la quale qualunque cosa, e dunque anche le scelte del variegato mondo delle Fondazioni bancarie andrebbero ricondotte a logiche e convenienze di partito, e andrebbero su queste misurate. È peraltro la stessa distorsione culturale che ha spinto in passato lo stesso Debenedetti a contestare il ruolo e l’autonomia delle Fondazioni bancarie, come espressione della società civile («organizzazioni delle libertà sociali» secondo la felice formula usata da Zagrebelsky nella sentenza della Corte costituzionale che ne ha sancito la natura privata e l’incomprimibile autonomia), e che lo ha indotto a bollarle come insopportabilmente «autoreferenziali», perché non lottizzate dai partiti (almeno nella maggior parte dei casi). Ed è forse proprio questa una delle chiavi utili a capire le ragioni profonde della sua astiosa polemica.
Quanto alla intervista a Cazzullo sul Corriere, forse Debenedetti ignora che ci sono anche interviste (e intervistatori) non pilotati.
Cazzullo mi ha fatto le domande che voleva, e io gli ho dato risposte sincere. Per chi è convinto, come me, che le grandi riforme e le coraggiose innovazioni di cui il Paese ha bisogno richiedono, se non una grande coalizione, almeno un rapporto costruttivo e dialogico tra maggioranza e opposizione, era impossibile sottrarsi alla domanda sull’unica situazione politica che avrebbe consigliato una soluzione alla Merkel, il sostanziale pareggio elettorale del 2006. È peraltro una tesi che sostengo da anni, che ho illustrato nella prefazione all’edizione italiana del rapporto Attali (scritta con Mario Monti), che dunque nulla ha a che fare con la presidenza della Cdp.
Idem sul piano Rovati. È Cazzullo che ha notato qualche convergenza su quanto gli avevo appena detto e il piano Rovati. E Debenedetti, che riceve le newsletter di Astrid, sa perfettamente che da molto tempo andavamo riflettendo su quelle ipotesi (delle quali, all’inizio di quell’estate, avevo discusso con Bernabè, Colao, Parisi, Paola Manacorda, Francois de Brabant). La cena ferragostana con Prodi e Rovati è andata esattamente come ho riferito. Per ciò, pur giudicando intempestiva e inopportuna l’iniziativa di Rovati, l’avevo allora sostanzialmente condivisa nel merito e gli espressi all’epoca la mia solidarietà. So bene che ora questa ipotesi trova consensi nel centrodestra (ma non solo). E allora? Vogliamo porci il problema sostanziale, per il Paese, che è sottesa a quella discussione, o invece di privilegiare le peggiori logiche partitiche? Vogliamo capire chi può finanziare la ristrutturazione in fibra ottica del local loop della rete Tlc, che richiede non meno di 15 miliardi di nuovi investimenti? L’ipotesi di un intervento pubblico in una rete che (almeno per ora) è in regime di monopolio naturale, seguendo l’esempio del Giappone, della Corea (e della Francia), merita la pregiudiziale ideologica avanzata da Debenedetti? O non è questione (opinabile) da affrontare laicamente, confrontando soluzioni alternative?
Cordiali saluti
Franco Bassanini
Dallo statuto consultabile sul sito della Cassa non risulta che i soci che hanno più del 15% del capitale, cioè le Fondazioni, oltre al diritto di presentare una propria lista di consiglieri, abbiano quello di nominare né un vicepresidente né il presidente: con Prodi o con Tremonti, a essere “sovrano” è sempre il Tesoro. Se proprio si vogliono usare parole forti, “manipolazione” è indurre a credere il contrario. Parola forte è anche
“collaborazionismo”: non tocca all’autore difendere titoli e occhielli su cui non mette verbo, ma a Bassanini è sfuggito che, essendo messo al plurale, aveva senso affatto diverso. Quanto alle Fondazioni (bancarie, se è lecito precisare), è vero che la Corte ha sancito la loro natura privata, ma è altrettanto vero che la maggior parte dei membri degli organi di governo sono “nominati” direttamente o indirettamente dal pubblico.
È la differenza tra l’essere e il dover essere. Come al solito.
Franco Debenedetti
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