→ febbraio 13, 2009

di Antonella Olivieri
Il dibattito politico sullo scorporo della rete Telecom ha finito per risolversi in un braccio di ferro con l’ex monopolista nazionale. La questione è complessa perché si tratterebbe di conciliare due esigenze differenti. L’una, quella pubblica, di dotare il Paese di un’infrastruttura all’avanguardia, sostenendo nel contempo l’occupazione, l’altra, quella privata di un gruppo come Telecom, di investire in un’ottica di ritorno reddituale.
È chiaro che la strada non potrebbe che essere quella dell’accordo consensuale, perché qualsiasi formula che suonasse come un esproprio sarebbe accolta con sospetto dal mercato e non potrebbe che finire per pesare sul valore dei titoli. D’altra parte la costituzione di una rete di nuova generazione a prescindere dall’esistente – e il “grosso” della rete è in mano a Telecom- rischierebbe di tradursi in un’inutile duplicazione oltre che rivelarsi certamente troppo dispendioso.
Il dialogo sarebbe più semplice se non ci fosse Telefonica? Che, da operatore del settore, non ha nascosto il suo scetticismo (qui alcuno la chiama contrarietà) su un’ipotesi di scorporo della rete. Può darsi che ci si intenderebbe meglio parlando la stessa lingua, ma la questione Telefonica potrebbe presto porsi su un altro piano.
È di ieri la notizia che l’Antitrust dell’Argentina ha respinto il ricorso di Telefonica, Telco, Pirelli e Generali contro la mancata notifica formale del passaggio del pacchetto di riferimento di Telecom alla holding cui partecipano gli stessi spagnoli con la quota di maggioranza. È sempre ammissibile il ricorso alla giustizia ordinaria, ma è chiaro che l’Authority di Buenos Aires sta tirando dritto per la sua strada, partendo dal presupposto di una commistione tra i due maggiori operatori telefonici del Paese. Al vaglio è cioè se Telefonica, pur possedendo indirettamente meno del 2% di Telecom Argentina, non sia in realtà da considerare controllante del suo più diretto concorrente tramite la partecipazione in Telco. Presupposto che cadrebbe se Telefonica possedesse direttamente il 10% di Telecom che oggi detiene tramite la holding.
Evento che potrebbe verificarsi, come prevedono i patti tra i soci Telco, se l’Antitrust argentino dovesse disporre «oneri o disinvestimenti» a carico dell’uno o dell’altro operatore. In quel caso scatterebbe la facoltà di scissione da Telco di Telefonica o dei soci italiani di Telecom, se per esempio fosse quest’ultima a essere penalizzata nell’inibizione a esercitare le opzioni per rilevare il controllo di Telecom Argentina.
Ma in America Latina, un’altra situazione in evoluzione è quella del Brasile, dove la Consob locale ha chiesto a Telco l’Opa sulle minoranze di Tim Participaçoes, sullo stesso presupposto che sia passato di mano il controllo di Telecom. Richiesta, che se andasse avanti, potrebbe portare l’Anatel, l’Authority locale delle tic, a riconsiderare le sue valutazioni sul dossier Tim Brasil-Vivo-Tele-fonica, rendendo scomoda la presenza degli spagnoli nell’azionariato di Telco. Telecom però ha ribadito con i fatti di considerare strategica la sua presenza in Brasile. Tanto che Tim Brasil sta studiando il modo di rientrare nella telefonica fissa a cui aveva rinunciato uscendo da Brasil Telecom.
Su richiesta della Consob locale, ha infatti confermato ieri che sta negoziando con l’imprenditore Nelson Tanure, titolare di testate come la Gazeta mercantil e il Jornal do Brasil, per rilevare la compagnia telefonica Intelig. Con un’operazione economicamente sopportabile, che potrebbe anche essere carta contro carta, e che soprattutto eviterebbe a Tim di affittare la rete fìssa dei concorrenti.
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→ febbraio 13, 2009

La separazione sarà una delle proposte del Rapporto governativo
di Carmine Fotina
Tra poco più di due settimane Francesco Caio, il superconsulente incaricato dal Governo, presenterà il suo piano per il rilancio della banda larga e per il riassetto della rete di telecomunicazioni. Tra le proposte che sottoporrà al sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani, al ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e probabilmente direttamente al premier Silvio Berlusconi ci sarà anche lo scorporo dell’infrastruttura fissa di Telecom Italia per creare una società delle reti aperta a nuovi investitori.
Sarà solo una delle diverse soluzioni messe sul tavolo per varare un grande piano di investimenti nelle tic, ma è anche quella che piace di più a un’ampia area della maggioranza e del Governo. Il convegno organizzato ieri a Roma dal Popolo della Libertà ha riportato la questione in primo piano dopo le esternazioni favorevoli allo scorporo fatte dall’ex consulente di Prodi Angelo Rovati e dal presidente della Commissione Trasporti e tic della Camera Mario Valducci (entrambe pubblicate su questo giornale) e dopo la risposta a distanza, la settimana scorsa, dell’amministratore delegato di Telecom Franco Bernabè: «L’operazione non è in agenda». Il pressing non cessa: alla finestra ci sono i fornitori di tecnologie, che chiedono una svolta per trovare nuove commesse, gli altri operatori del settore ma anche possibili outsider di lusso. Fastweb potrebbe conferire la sua rete nelle nuova società e Mediaset, il gruppo che fa capo alla famiglia del presidente del Consiglio, potrebbe tentare il grande salto nelle tic e nella tv via internet. Anche se su quest’ultima ipotesi Bernabè sembra subito mettere le cose in chiaro: «Telecom non vuole fare la media company. E non c’è possibilità per Mediaset, Sky o Rai di diventare proprietaria esclusiva di una rete a banda ultralarga. La rete è una sola, di proprietà di Telecom Italia che intende farne una piattaforma per la Ip television aperta a tutti».
Ieri, attraverso Pierluigi Borghini, coordinatore del Dipartimento Attività produttive di Forza Italia, il partito del premier ha lanciato la sua proposta per lo scorporo e anche in questo caso Bernabè ha risposto con tono deciso: «Qualsiasi intervento di tipo dirigistico sarebbe illegittimo e inappropriato. Per fortuna siamo a un convegno del Popolo della Libertà e non di Gosplan». Eppure, secondo le indicazioni che filtrano da ambienti finanziari e politici, in casa Telecom l’opzione della separazione societaria della rete, da aprire a nuovi investitori per contribuire alla riduzione dell’indebitamento e al piano di investimenti sul network di nuova generazione, non è mai tramontata. Anzi, il piano potrebbe realizzarsi anche in tempi brevi se si concretizzeranno alcune condizioni. Innanzitutto dovrà essere una pura operazione industriale, con una soddisfacente valorizzazione dell’asse per gli azionisti e nessuna implicazione sotto il profilo delle regole, già adeguate secondo Bernabè grazie agli impegni assunti con l’Authority.
In secondo luogo, anche se tra i soci italiani di Telco sono saliti i consensi per l’operazione, restano da superare le riserve di Telefonica. Infine, ma non è un punto secondario, c’è da fare chiarezza sulla gestione e il management della ipotetica nuova società, che le indiscrezioni periodicamente accostano a Stefano Parisi, a.d. di Fastweb, o addirittura allo stesso Caio.
Rispetto a questo mosaico incompleto la proposta di Forza Italia è decisamente più avanti. Lo schema delinea una società separata, «Telecom Larga Banda», in cui l’ex monopolista avrebbe la maggioranza mentre il 40% sarebbe ceduto a nuovi azionisti a partire da Cassa depositi e prestiti e il fondo F2i. I grandi fornitori di tecnologie – Siemens, Ericsson, Zte, Alcatel – farebbero la loro parte fornendo un miliardo di euro ciascuno in attrezzature con pagamento differito. Chiamato in causa, il presidente della Cdp Franco Bassanini ricorda che sarà l’azionista ministero dell’Economia a decidere se lanciarsi in quest’operazione e che se ne saprà di più tra poche settimane, quando sarà emanato l’elenco dei settori in cui la Cassa, sulla base della recente riforma voluta da Tremonti, potrà investire le risorse del risparmio postale.
Davanti alla platea il sottosegretario Romani prova a ridimensionare la portata della proposta e invita alla cautela, ma dell’ipotesi scorporo ha già abbondantemente parlato con il consulente Caio. Tutto ovviamente sarà subordinato al definitivo via libera degli azionisti Telecom, come in serata, dopo il clamore suscitato dal convegno, ha precisato il ministro dello Sviluppo Scajola: «Sulla base del rapporto Caio, e nel confronto con tutti gli operatori interessati, il Governo assumerà le opportune decisioni. Per quel che riguarda la reteTelecom ribadisco che nessuna eventuale iniziativa potrà essere assunta senza il pieno consenso della società».
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→ febbraio 12, 2009

di Piergiorgio Odifreddi
Il bicentenario della nascita (12 febbraio 1809) e il centocinquantenario della pubblicazione del suo capolavoro L’origine delle specie (24 novembre 1859) ci forniscono una buona occasione per avvicinarci a Darwin, ripercorrendo insieme a Piergiorgio Odifreddi le tappe salienti del suo pensiero, le sue ripercussioni nella cultura moderna e le reazioni che ha scatenato di là e di qua del Tevere.
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→ febbraio 4, 2009

di Gian Carlo Caselli
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?
Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.
Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.
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→ febbraio 3, 2009

ROMA (MF-DJ)- Fiat sta ancora studiando l’alleanza con Chrysler, ma punta a chiudere l’accordo presto, entro il 17 febbraio. Entro quella data, infatti, l’azienda di Detroit dovrebbe presentare un piano per richiedere ulteriori aiuti al Governo federale, e in questo ambito l’accordo con Fiat sarebbe un elemento chiave. E’ quanto afferma l’a.d. di Fiat, Sergio Marchionne, intervistato dal Wall Street Journal.
Fiat, spiega Marchionne, fornirà utilitarie e motori ad alta efficienza, di cui il colosso statunitense ha bisogno e il cui sviluppo costerebbe almeno 3 mld di dollari. In cambio dovrebbe acquisire il 35% delle azioni della compagnia. Tuttavia per Fiat, prosegue l’a.d., l’alleanza con gli americani è “un biglietto della lotteria” che potrebbe non valere nulla se Chrysler non uscirà dalla crisi. L’obiettivo e’ “avere il 35% di un’azienda che vale qualcosa, io non voglio trovarmi per i prossimi cinque anni a possedere il 35% di niente. L’obiettivo è portare valore per gli azionisti di Fiat”.
L’alleanza con Fiat ha sollevato dubbi sul fatto che il sostegno del governo federale possa implicare il sostegno a un produttore straniero, ma Marchionne afferma che Fiat non toglierà un dollaro a Chrysler fino a quando non avrà rimborsato il prestito al Governo.
In base all’accordo, ha spiegato inoltre Marchionne, Fiat potrebbe vendere i veicoli propri, e quelli dei marchi che il Lingotto controlla, a partire da un anno dalla chiusura dell’accordo. Per permettere a Chrysler di uscire dalla crisi, Fiat investirà 3-4 mld in tecnologia nei prossimi anni: “daremo un supporto dove possiamo a livello operativo”.
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→ febbraio 1, 2009

Intervista a Saverio Borrelli
Almeno a Milano i numeri gli danno ragione. In tre anni le intercettazioni telefoniche sono diminuite quasi della metà, nel 2006 ne erano state fatte quasi seimila, l’anno scorso sono scese a poco più di tremila. Tra i tanti soddisfatti, a sorpresa c’è pure Francesco Saverio Borrelli, l’ex capo della procura oggi in pensione, l’ex magistrato a capo del pool di Mani pulite che pure ieri non ha voluto mancare all’inaugurazione dell’anno giudiziario: «Non si può fare a meno delle intercettazioni telefoniche, ma la magistratura deve fare un’esame di coscienza e avrebbe dovuto autolimitarsi».
Dottor Borrelli, non teme di diventare impopolare tra i suoi colleghi di un tempo? Molti di loro temono di essere imbavagliati a non poter più mettere telefoni sotto controllo…
«Io mi considero ancora appartenente alla magistratura e seguo le vicende giudiziarie con lo stesso spirito e rigore autocritico che avevo quando esercitavo la professione. Può darsi che la mia posizione sia impopolare. Ma bisogna essere autocritici. Non bisogna privare magistrati e forze di polizia di questo strumento di indagine ma probabilmente una riforma era inevitabile. Era necessario autolimitarsi».
Detto da lei sembra una critica ai suoi ex colleghi, accusati molto spesso di essere troppo appiattiti sui risultati che possono venire dalle intercettazioni telefoniche. E’ così?
«Assolutamente no. Non penso che i magistrati abbiano delegato la loro capacità di indagine alle sole intercettazioni. Ma è vero che qualche volta, con la speranza di di riuscire a trovare elementi a supporto delle indagini, si sono protratte a tempo indeterminato delle intercettazioni che invece andavano sospese molto prima. Magari dopo dopo tre o quattro settimane, visto che non portavano a nulla di concreto per le inchieste».
Secondo lei sono stati compiuti degli abusi?
«Non voglio parlare di abuso. Preferisco dire che c’è stato un eccesso. Un’eccessiva facilità in buona fede, nel protrarre a tempo indeterminato le intercettazioni».
Concede la buona fede anche al vicequestore Gioacchino Genchi e ai suoi dossier?
«Il suo è un archivio fatto per proprio conto. Non c’entra nulla con le intercettazioni. E’ un’altra cosa, fatta da un libero professionista, sfuggita ad ogni controllo».
Ma come si fa a concedere sei mesi per di più prorogabili per condurre le indagini e limitare ad appena sessanta giorni la possibilità di tenere sotto controllo i telefoni?
«Sessanta giorni sono un tempo intermedio che è stato trovato tenendo conto di tutte le esigenze. Nella limitazione dei tempi per le intercettazioni vanno ovviamente salvaguardati due principi».
Uno è quello che le indagini in corso non possono essere vanificate…
«Ovviamente deve essere salvaguardato il principio dell’efficacia delle indagini. Lo strumento delle intercettazioni è fondamentale per la magistratura e le forze di polizia. Va limitato ma non si può prescindere dal suo utilizzo in molte indagini. Ma c’è un altro principio fondamentale che deve essere salvaguardato allo stesso modo: è la tutela della privacy del cittadino, il rispetto della sua riservatezza. E’ chiaro che ci sono delle eccezioni a questo discorso».
A cosa si riferisce?
«Nel caso di un sequestro di persona in corso, è giusto andare avanti: non ha senso limitare l’utilizzo di uno strumento fondamentale a quel tipo di indagini, come sono le intercettazioni telefoniche».
All’origine delle polemiche degli ultimi tempi, ci sono i verbali di alcune intercettazioni non proprio utilissime alle indagini finiti sui giornali…
«Non ho mai avuto il gusto di buttare la colpa sugli altri ma il mondo dell’informazione in questo caso qualche responsabilità ce l’ha. Se i magistrati devono autolimitarsi come ho detto, forse anche i giornalisti devono porsi qualche limite».
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