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→  febbraio 24, 2009

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di Alberto Bisin

In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma…», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmo meglio la notte.

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di Giuliano Amato

I lettori sanno che io non sono fra quelli che ritengono si possa uscire dalla crisi e costruire un futuro migliore, rimuovendo le sole patologie delle attività finanziarie. C’è anche un problema di economia reale e in particolare di fondamentali squilibri fra economie in surplus ed economie in deficit. Raggiungere perciò migliori equilibri macroeconomici, coordinare di più le stesse politiche valutarie e costruire un mondo trainato non più da una sola locomotiva ma da più locomotive sono terapie che io stesso ritengo essenziali e che ho già suggerito.

Detto questo, però, non si può ignorare il fatto che i guasti finanziari hanno enormemente amplificato i crolli tanto nella finanza che nella stessa economia reale; e che nuovi crolli potrebbero intervenire a breve, se non si saprà uscire con rapidità, e anche con la necessaria, impietosa decisione, dallo stallo in cui si è finiti, ponendo rimedi a quei guasti che si stanno rivelando pericolosamente inadeguati.

Mi limiterò qui a un aspetto, che è tuttavia fra quelli cruciali della vicenda, l’aspetto che riguarda i cosiddetti troubled assets. I lettori ricorderanno che l’iniziale piano con cui si pensò di gestirli, il piano del vecchio ministro del Tesoro americano Henry Paulson, risultò ben presto inefficace. Paulson si proponeva di acquistare i troubled assets dalle banche e dagli altri istituti finanziari che li possedevano, in modo da ripulirne i bilanci e rimuovere così la sfiducia che aveva paralizzato il sistema. Paulson però si accorse presto che di troubled assets ne stavano circolando in quantità e con presunti valori incontenibili nel suo stanziamento di 700 miliardi e che, in ogni caso, sull’accertamento esatto di quei valori ai fini dell’acquisto l’intesa era più che difficile. Il Tesoro pensava infatti di acquistare al prezzo più basso possibile per non inquietare il contribuente che pagava, le banche pensavano che in futuro quegli stessi assets avrebbero potuto recuperare e non erano quindi disposte a svenderli.

Venne accolto allora il consiglio dei tanti che sin dall’inizio avevano suggerito la strada diversa dell’ingresso dello Stato nell’azionariato delle banche o comunque del rafforzamento del loro capitale, che avrebbe rappresentato di per sé una garanzia sia per i risparmiatori che per le future attività creditizie e avrebbe consentito, in altre forme, la ripulitura di cui c’era bisogno. La mossa è stata inizialmente efficace e lo è stata negli Stati Uniti come negli Stati europei che l’hanno adottata: il caso di Lehman Brothers è rimasto isolato. Ma evidentemente non è bastata a restituire al sistema la fiducia di cui aveva bisogno. Intanto non ha riguardato tutti i titolari di troubled assets, ma solo alcuni. E poi non li ha rimossi dalla pancia di nessuno, nessuno è in grado di attestarne il valore e si va avanti così con bilanci di banche e di imprese largamente fondati sulle sabbie mobili, con conseguente volatilità dei corsi azionari e paralisi delle attività.

Non a caso il secondo atto della vicenda, quello interpretato negli Stati Uniti dal nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, prospetta il ritorno alla separazione dei troubled assets, questa volta attraverso un’apposita bad bank. Geithner l’ha proposta, ma in termini tanto vaghi da provocare una profonda delusione e un tonfo ulteriore dei corsi azionari a Wall Street. E come mai la sua proposta è così vaga? Per la stessa ragione per cui aveva fallito Paulson, vale a dire i troubled assets non hanno un valore di mercato e non c’è intesa sul possibile prezzo di acquisto da parte della bad bank.

Ebbene, non si può andare avanti così. Se il nuovo ministro americano, e nqn solo lui, pensa che sia necessario separare i troubled assets, una ragione c’è ed è il timore che organismi tuttora inquinati da questi titoli avvelenati finiranno per morire di setticemia finanziaria e lo faranno magari più presto di quanto comunemente si creda, con terremoti ancora più gravi di quelli sin qui già subiti. Ma se è così, possiamo rimanere prigionieri di questo autentico dilemma del prigioniero attorno al prezzo ignoto del veleno?

Voglio ricordare che, già ai tempi di Paulson, George Soros, che pure gli suggeriva di abbandonare il suo piano iniziale e di entrare invece nell’azionariato delle banche a rischio, suggeriva altresì di trattare i troubled assets sulla base di un valore convenzionale che, in assenza di un valore di mercato, avrebbe fornito l’unica possibile via d’uscita. E anche in questi giorni, in un libro che sta pubblicando (“The Crash of 2008 and What it Means”), Soros ripropone la stessa idea, nel contesto non della creazione di bad banks pubbliche, ma di sidecars creati dalle stesse banche per infilarci i loro titoli illiquidì e ripulire così i loro bilanci.

Io non entro nella scelta fra bad bank e sidecar, anche se preferisco di gran lunga il secondo. Ciò di cui sono convinto sin dall’inizio di questa storia (e l’ho scritto nella mia prima “Lettera” su di essa, sul Sole 24 Ore del 5 ottobre scorso) è che non ne usciremo, perché la fiducia non tornerà, sino a quando i troubled assets non saranno espulsi. E l’unico modo di espellerli è di attribuire loro un valore convenzionale, visto che il mercato non è mai stato in condizione di prezzarli. Ci vuole coraggio per farlo e temo che la ragione per cui Geithner è rimasto nel vago sulla sua bad bank sia proprio che,quel coraggio gli è al momento mancato.

Ma se lo deve far venire e con lui se lo devono far venire i suoi colleghi del G-7 e oltre. Non si facciano troppi scrupoli. Chi ha messo in circolazione quei titoli, chi li ha impacchettati o reimpacchettati e li ha fatti ulteriormente circolare non merita particolare benevolenza. Si stabilisca un valore sufficientemente prossimo allo zero da non sprecare i soldi del contribuente nel caso li si volesse usare per comprarli. E lo si stabilisca tuttavia a un livello che non azzeri la capitalizzazio-ne delle banche. In ogni caso, se soldi pubblici dovessero servire, meglio usarli per ricapitalizzare banche pulite, che spenderne molti per comprare le loro porcherie. Se poi, in futuro, quegli stessi titoli avessero un valore, lo si potrebbe sempre ritornare ai portafogli da cui vengono.

So che ci sono delle domande a cui bisogna rispondere e la prima riguarda i titoli da includere: quelli inizialmente acquisiti “over thè counter” e cioè con prezzo non di mercato, quelli sostenuti da mutui-casa fragili, gli swaps che hanno ad oggetto i medesimi titoli, i pacchetti che includono o gli uni o gli altri?

Qui non ho la risposta, so solo che quando si è costretti a usare l’accetta, la si usa nel modo più oculato possibile, ma l’importante è tagliare i rami che possono cadere sulla testa di tutti. Altrimenti di lì nessuno tornerà a passarci. E noi, impotenti davanti agli irresponsabili che l’hanno scatenata, resteremo paralizzati nella crisi più grave degli ultimi decenni.

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di Francesco Giavazzi

Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni.

Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione.

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L’intervista

di Franco Debenedetti

«Non è scandaloso parlare di nazionalizzazione: può essere uno strumento temporaneo, un passaggio, per rimettere poi le banche sul mercato».
Statalizzare, insomma, si può per Franco Debenedetti, già senatore indipendente della sinistra, oggi consigliere di Cir, Cofide, Iride e Piaggio.

Cosa intende per «nazionalizzazione temporanea» e come potrebbe avvenire?
«Lo Stato compra le banche, toglie dal bilancio i titoli tossici, le ricapitalizza e su questa base le fa ripartire».

Siamo alla disfatta del mercato…
«Il problema è che il mercato, in questo momento non riesce a dare un prezzo ai cosiddetti titoli tossici. Non si sa quanto valgono. Qual è il valore dei veleni? Questo è il problema su cui si sono sostanzialmente infrante le soluzioni finora messe in atto. Se proprietario è lo Stato, il problema di dare un prezzo non è più critico, perché vengono solo mosse da una posta a un’altra all’interno del bilancio dello Stato. In questo modo lo Stato surroga il mercato nella sua funzione di dare un prezzo ai beni».

Una via praticabile in Italia?
«Nazionalizzazione è una parola politicamente tabù, desta timori e preoccupazioni nei Paesi come l’America che non hanno avuto imprese di Stato, figurarsi da noi che ce le ricordiamo fin troppo bene. Ma si tratta di un passaggio che non deve spaventare: il punto critico non è il momento della nazionalizzazione, ma ciò che avviene dopo, cioè in quanto tempo le banche sono restituite al mercato. Lo Stato banchiere è una sciagura».

Con quali soldi realizzarla, nel caso?
«Il costo per lo Stato dipende dal prezzo al quale viene comprata la banca, dall’eventuale riconoscimento agli azionisti e agli obbligazionisti, e dall’entità dell’aumento di capitale e da quanto vale la banca risanata. E da quale valore avranno in futuro i “veleni”. Può essere un’operazione molto costosa; ma costoso è pure lo stillicidio di provvedimenti finora presi, e che sono lontani dall’essere stati risolutivi».

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di Orazio Carabini

Per il momento la domanda di servizi che hanno bisogno della banda da ioo mega non esiste. E per molti anni ancora tutto quello che serve alle famiglie e alle imprese si potrà fare con la banda da 20 mega. Investire adesso nella rete di nuova generazione non avrebbe senso». Franco Bernabè ha spiegato così, a chi l`ha incontrato nei giorni scorsi, la sua secca presa di posizione sull`ipotesi di scorporare la rete di telefonia fissa di Telecom Italia.

Il Ceo del gruppo telefonico era infatti convinto che l`accordo raggiunto con l`Autorità delle Comunicazioni (Agcom) su Open Access, la divisione di Telecom Italia che gestirà autonomamente la rete, segnasse la fine del dibattito.

Che invece ha ripreso quota con le iniziative del Popolo della Libertà, corroborate dall`intervista al Sole 24 Ore di Angelo Rovati, ex-consigliere di Romano Prodi. Perché proprio ora? «Scavare le buche e riempirle», consigliava John Maynard Keynes per battere la recessione.

E non è un caso se Bernabè, che ha una formazione da economista, ha evocato Keynes. Il suo sospetto è che a premere per la rete di nuova generazione siano soprattutto le imprese che dovrebbero costruire e attrezzare la In questa fase di congiuntura negativa la prospettiva di realizzare un`opera colossale raccoglie facilmente il sostegno entusiasta di chi combatte tutti i giorni con budget sempre più striminziti e ordini in calo.

Ma i propugnatori dello scorporo, che non sono solo di centrodestra (vedere l`articolo diFranco Debenedetti sul Sole 24 Ore del 13 febbraio), raccontano un`altra storia.

Per loro il problema vero è che, indebitata com`è, Telecom Italia non avvierà mai il progetto Ngn, la rete di nuova generazione. Occorre pertanto guardare oltre e dare una prospettiva sia alla società sia alla rete, per il bene dell`economia italiana.

Lo scorporo risponde, in quest`ottica, al duplice obiettivo.

Telecom incasserebbe dei soldi e potrebbe attrezzarsi per competere al meglio e per espandersi sui mercati internazionali.

La rete, conferita a una società autonoma, potrebbe investire nelle tecnologie del futuro.

E normale che la politica si interessi di un`infrastruttura importante come la rete delle telecomunizioni. Non c`è nulla di sconveniente se esponenti del Pdl, nei convegni e nei dibattiti parlamentari, sostengono la necessità di scorporarla da Telecom Italia per farne una società autonoma.

Così come era legittimo nel 2006 che ministri del centrosinistra si ponessero lo stesso problema.

Va tutto bene. Purché si parta dal presupposto che Telecom Italia è una società privata (al ioo%), che è quotata in Borsa e che la rete di telefonia fissa è di sua proprietà.

Può essere stato un errore, dieci anni fa, privatizzarla così com`è, con una rete che, finito il monopolio, è utilizzata da tutti i concorrenti. Ma questa è la realtà di oggi.

E la reazione di Bernabè è comprensibile. Per lui la partita è chiusa. Lo scorporo della rete lo può solo imporre l`Agcom che però ha appena accettato gli impegni di Telecom Italia su Open Access. A questo punto può essere soltanto la società, quindi l`ad e il consiglio di amministrazione, a prendere una decisione di questo tipo. Che, eventualmente, dovrebbe essere ratificata anche dall`assemblea degli obbligazionisti, oltre che dagli azionisti.

Ma Bernabè ha altri progetti.

La sua idea è di estendere la copertura dell`Adsl a 20 Mega e di introdurre la Ngn man mano che si renderà necessario.

Sempre, però, con un vincolo: raggiungere le aree dove la domanda giustifica l`investimento.

La partita tuttavia non si può considerare chiusa. Nei prossimi giorni Francesco Caio presenterà il suo piano per la banda larga. Che, secondo le indiscrezioni finora circolate, suggerisce lo scorporodi una parte dell`infrastruttura di telefonia fissa di Telecom Italia.

Finora il governo non si è esposto. Di sicuro nessun ministro ha voglia di spendere qualche miliardo di curo, sia pure attraverso la Cassa depositi e prestiti, per “nazionalizzare” la società della rete in questa fase congiunturale.

Il presidente dell`Antitrust Antonio Catricalà ha già fatto capire, in un`audizione parlamentare, di non vedere di buon occhio una Rete spa in cui fornitori e gestori si ritrovano tutti insieme e magari ne approfittano per “coordinarsi”.

Bernabé ripete che l`epoca delle Partecipazioni statali è finita e che ogni intrusione della politica nelle scelte della società va respinta. Ma le parole d`ordine quali italianità, ammodernamento e indipendenza della rete torneranno all`ordine del giorno.

Con il rischio che l`azienda debba scontrarsi, come è già accaduto in passato, con la politica. E che tocchi ai maggiori azionisti una difficile mediazione.

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di Massimo Mucchetti

Nell’autunno del 2006, il progetto di staccare da Telecom Italia l’infrastruttura di rete per attribuirla a una nuova società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) venne accolto con critiche sdegnate da parte dell’opposizione di centro-destra, dell’intellettualità liberista e dei vertici della Confindustria. Il progetto, che Angelo Rovati, consigliere economico di Prodi, aveva inviato in via confidenziale all’allora presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, fu eletto a simbolo del ricatto statalista contro la libertà dell’impresa. Nella primavera del 2009, la stessa idea viene riproposta con incalzante pubblicità dal responsabile economico di Forza Italia, Pierluigi Borghini, senza che i censori di ieri elevino analoghe proteste. Eppure, anche adesso, Telecom è una società privata guidata da un amministratore delegato, Franco Bernabé, contrario al piano Rovati comunque riverniciato. Potremmo finirla qui sottolineando come, per l’ennesima volta, l’Italia si riveli un Paese senza memoria votato alla polemica strumentale. Ma oggi c’è dell’altro. L’Italia ha interesse a far evolvere la rete telefonica in rame in una nuova e assai più potente rete in fibra ottica. Prima si fa e meglio è: per modernizzare il Paese e sostenere keynesianamente l’economia.

A Telecom, invece, conviene diluire nel tempo l’investimento per poter via via intercettare la nuova domanda di banda larghissima e non appesantire troppo il debito ereditato dalle vecchie gestioni. Paese e azienda potrebbero avvicinarsi riducendo l’onere dell’investimento grazie all’utilizzo delle frequenze radio che, con il passaggio dall’analogico al digitale, non saranno più necessarie alle tv, e dunque dovrebbero tornare nella disponibilità del Tesoro. In Europa e Usa questo è il dividendo digitale che i governi reinvestono a favore dell’intera economia. Nell’Italia, dove Mediaset considera le frequenze proprietà privata, non avviene. Vogliamo parlarne? L’attribuzione della rete a una nuova società può migliorare la concorrenza? Bene. Non abbiamo mai pensato che bastasse evocare il fantasma dell’Iri per bocciare un’idea. La svolta pro-concorrenziale di Forza Italia non può far che piacere. Purché non celi il diavolo nei dettagli. L’azionariato ideale della nuova società, riferisce il Sole 24 Ore, comprenderebbe Telecom, la Cdp, il fondo F2i, Mediaset, Fastweb e i fornitori. In un simile schema i conflitti d’interesse sono evidenti: i fornitori che, da soci, concorrerebbero a fare il prezzo delle forniture; il supercliente, la tv del premier, che, forse deluso dalla sperimentazione sarda sul digitale terrestre, guadagnerebbe con poca spesa l’accesso privilegiato alla Ip television.

Il cavo Telecom che porta Internet consentirà, in prospettiva, di personalizzare gli spot con un sensibile miglioramento dei ricavi pubblicitari. Un conto è se Mediaset accede a questa piattaforma in regime di par condicio con i concorrenti attuali e potenziali. Un altro conto è se lo fa da azionista comunque più influente della società della rete, visto che Berlusconi presiede un governo che ha il 70% della Cdp e detta le regole per Mediobanca, Intesa, Generali e Autostrade, azionisti eccellenti della stessa Telecom.

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