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→  ottobre 12, 2009

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di Tito Boeri

OUT: BAD BANK
Il pubblico italiano era già avvezzo al termine. Perché la “privatizzazione di Alitalia” (meglio sarebbe definirla socializzazione delle perdite e privatizzazione degli utili) contemplava la definizione di una bad company su cui scaricare tutti i debiti. Per fortuna l’esempio Alitalia non è stato seguito nella ristrutturazione del sistema bancario. I bad examples non vengono seguiti.

IN: EXIT STRATEGY
Significa riduzione progressiva dell’intervento pubblico a sostegno dell’economia e del sistema bancario.
Se ne parla, il che significa che i tempi stanno diventando maturi per cominciare a interrompere la respirazione bocca a bocca. Di “strategia di uscita” ha parlato anche il ministro Tremonti, nella sua audizione martedì scorso al Senato. Strano perché l’Italia non è mai “entrata” nelle misure anticrisi. Nel 2008 ha destinato alle misure contro la recessione lo 0,00 pre cento del PIL, nel 2009 lo 0,002.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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di Giuseppe Berta

OUT: CROLLO DI BORSA

Un tempo, davanti alle violente oscillazioni dei mercati
azionari, si parlava più appropriatamente di “panico”. Negli ultimi anni i “crolli” si sono succeduti uno dietro l’altro nei titoli dei media, inisieme con le notizie catastrofiche di immense ricchezze”bruciate” in un giorno (pronte per essere ricostruite nel giro di qualche settimana o mese). La gravità della crisi globale dovrebbe suggerire di abbandonare il gusto per i catastrofismi di maniera, ricordando a tutti che i destini delle economie e dei continenti non si giocano mai nel teatro spettacolare ed effimero della Borsa, derubricato già da Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni, a semplice “termometro dell’opinione pubblica”.

IN: PAESI EMERGENTI
E’ una dizione probabilmente ambigua quella di “paesi emergenti”, che associa in una prospettiva comune nazioni ormai divenute protagoniste dello sviluppo economico mondiale insieme con altre che invece rischiano, come è avvenuto spesso nella storia, di essere ricacciate in una condizione marginale. E tuttavia quest’espressione restituisce il senso di mobilità dei confini economici del mondo, di una geografia variabile soggetta a un perenne movimento di trasformazione. Essa Ha, per giunta, il pregio di schermare, ai nostri occhi di occidentali, un moto ondoso che minaccia di sommergere il nostro mondo.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  settembre 14, 2009

La storia

di Alberto Arbasino

«Sventare gli sventramenti!» fu per decenni il motto di tanti architetti post-fascisti, per cui andava demolita addirittura la Piazza Augusto Imperatore, benché non bisognosa di interventi urgenti.
«Solo cocci e coccetti» minimizzavano invece i modernizzatori, per cui in ogni metropoli storica e contemporanea si demolisce e scava per venire incontro alle esigenze del Progresso, senza lasciarsi paralizzare da pseudo-ostacoli di non grande valore culturale.
Per decenni, poi, con andamento variabile, i giornali più progressisti denunciavano le potenti lobbies di costruttori che «infettavano» la Capitale e il Campidoglio con elargizioni elettorali e individuali e scambi di favori enormi fra il Catasto e la Casta.
L´affare del Pincio è apparso presto spiacevole e inutile, perché sfasciare un sito così illustre e perfetto solo per guadagnare qualche centinaio di posti-auto diventa ridicolo in una città ove circola un milione di macchine.
Forse converrebbe scavare sotto il letto del Tevere, l´unico sottosuolo romano ove forse non si troverebbero «domus» o anfore. È stato fatto sotto la Manica: ci sarebbero tanti costi e problemi in più?

La «pedonalità del Tridente» sembra un vano pretesto, quando proprio le rampe del Pincio sono diventate un sito di rimorchio minorenne con rock a volumi competitivi, anche per mignotte venute da lontano. Ma lì basterebbero un paio di transenne e di vigili, senza altre iniziative. E magari spendere i fondi per tenere l´intera Villa Borghese in condizioni meno schifose, semmai.
Ma del resto, a detta di taluni residenti, l´intera Piazza del Popolo era più carina quando era piena d´automobili ferme, multicolori e luccicanti sotto l´obelisco. Certamente meglio che adesso, volgarmente sfruttata come contenitore di enormi e ripugnanti impalcature e ponteggi incessantemente montati e smantellati e martellati per gazebi pubblicitari da stadio o da circo, per «eventi» fragorosissimi e assordantissimi per bambini e venditori di schifezze senza alcun nesso o rispetto per Valadier e i suoi «spazi» urbani e civici.

Tanti anni fa, pure, quando dalle periferie si proclamava «Riprendiamoci la città» dopo le lunghe paure stradali negli anni di piombo, e centinaia di giovani partivano di lontano per sedersi sulla scalinata in Piazza di Spagna e lì fare i cori di montagna, invano si richiedeva ai responsabili comunali di abbellire le principali piazze periferiche di scalinate analoghe in facsimile, visto il successo del prototipo. Ovviamente, ad opera delle maestranze bravissime e disoccupate di Cinecittà. Macché multipli, sentenziavano gli assessori. (E anche Fellini, credo). Mentre – come luoghi di socializzazione e coinvolgimento – sarebbero costati pochissimo, oltre a introdurre un post-moderno laico e non clericale nelle borgate pasoliniane non più di teenagers «zozzetti».
I sottosuoli urbani, in Italia e in tutta l´Europa, sono pieni di muretti romani in serie che vengono presto chiamati «Domus». Così come ogni sartoria è ormai una «Maison», e dunque incute riguardi. Per esempio, a Vienna, scavando davanti al Palazzo Imperiale, si sono rinvenuti dei mattoni con calcina che hanno subito causato la pedonalità intorno a un catino archeologico che solo un certo garbo civico e turistico evita di usare come un «posacicche». Qualcosa di analogo dev´essere capitato sotto l´Auditorium romano, dove al rinvenimento dei muretti antichi si imputa l´innalzamento del progetto originario, sacrificando le scale mobili (ormai costanti in ogni multisala per ragazzini), e il foyer-bar come luogo d´aggregazione per anziani che devono restar seduti se non sono disposti ai cento scalini giù e su dalla biglietteria.

I critici architettonici del Ventennio fascista, pure approvando i molti edifici razionalisti in mattoni e travertino dei loro invidiati maestri, giustamente non perdonano gli scatafasci causati dalla Via dell´Impero.
Così come sono inescusabili e inespiabili le demolizioni sabaude intorno all´atroce Vittoriano, benché imbellettato e vezzeggiato adesso come orribile attrazione turistica.
Ma ancora più orribile risulta adesso la biasimata «teca» sull´Ara Pacis. Perché rivisita, con un brutto «senno del poi» i travertini già intollerabili ai tempi del Duce e del film «peplum» della Romanità-a-Cinecittà. (Come già a Los Angeles, dove arrivando al Getty Museum si esclama «Fabiola! Spartacus! Scalera Film! Torna, Alessandro Blasetti, tutto è perdonato!»).
Perché poi bastava mettere a norma la teca precedente, discreta e vetrata e restaurata dai Rotary, così come si conservano gasometri e pastifici e rimesse tranviarie non griffate di quella stessa epoca. Invece di costruire muraglie presuntuose e fontanelle massicce che cancellano ogni vista sulle due celebri chiese di qua e sul Tevere di là. Per cui, avendo qui le dichiarazioni di architetti illustri contro la Piazza Augusto Imperatore nel suo complesso e assetto precedente, bisognerebbe sentire chissà quali «esperti». Abbattere le arroganti «ali laterali», che servono soprattutto a mostre e convegni clientelari di livello bassissimo? Affidare ai più lodati graffitisti della scena romana la decorazione di quegli insopportabili muri bianchi del Duce? Dai treni tiburtini e tuscolani si vedono interessanti «specimens». E se comunque si rammentano le ormai attempate stizze degli specialisti contro il resto della medesima piazza, c´è davvero da ridere. Ah, ah, vecchi cucù.

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Il Pincio e i talebani dell’urbanistica
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 17 settembre 2008

→  marzo 13, 2009


a cura di Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni, collabora o ha collaborato con svariati quotidiani e riviste, fra cui Wall Street Journal, Washington Post, International Herald Tribune, Financial Times, L’Agefi, Apple Daily, Economic Affairs, National Review, The Freeman, Markets and Morality.

Il capitalismo ha fallito: è questa la chiave di lettura più comune della crisi finanziaria.

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→  febbraio 26, 2009

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di Nouriel Roubini

Un anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell’Europa continentale.

Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all’attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una “bad bank” governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative – dopo un ‘iniziale perdita delle banche – degli asset tossici; l’acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l’attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione – chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio «government receivership») in caso di rifiuto di questo termine scabroso delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della “bad bank”, il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l’ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo (nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato).

La soluzione della “bad bank” comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all’idea – invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro – che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo – è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi – con una garanzia da parte del governo – a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della Indy-MacBank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un’importanza sistemica, “too big to fail” – cioè troppo grosse per poter fallire – e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra “banche zombie” ricordano un po’ il comportamento degli ubriachi cercano di aiutarsi l’un l’altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of America hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.

È questa la soluzione che all’inizio degli anni ’90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l’attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di “banche zombie”, che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

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→  febbraio 24, 2009

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Si cerca l`antidoto per i titoli tossici

di Rossella Bocciarelli

È un tema che sta togliendo il sonno al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ma se ne discute molto anche in Europa; e una soluzione finanziaria, utile a risolvere eventuali problemi futuri, è stata indicata per l`Italia anche dal Governatore Mario Draghi. È il tema del cosa fare per attenuare gli effetti negativi di quella corsa allo smobilizzo degli asset che imperversa per il mondo, per effetto della sfiducia e della perdurante incertezza sul grado effettivo di tossicità degli attivi delle istituzioni finanziarie.

È una discussione. che si svolge in tante sedi: da quelle politiche e tecniche (Ecofin, G7-G2o, Fini, Financial stability forum) a quelle della comunità finanziaria e accademica internazionale: dopo la presentazione del piano Geithner sono infatti scesi in campo George Soros e Ricardo Caballero, mentre nel dibattito italiano sono da registrare i suggerimenti di Francesco Giavazzi, Giuliano Amato, Luigi Spaventa. Per contenere la distruzione di ricchezza finanziaria e ridare fiducia e credito all`economia, finora si sono immaginate, grosso modo, due strade: la bad bank e gli schemi di assicurazione degli asset a garanzia pubblica.

Bad bank, una o plurima La prima strada passa per la scelta di “segregare” le attività illiquide separandole da quelle buone. È una scelta che può essere messa in atto a livello della singola istituzione finanziaria: per ogni banca i titoli tossici verrebbero confinati in un altro soggetto giuridico e le perdite verrebbero suddivise tra là banca “buona” e lo Stato. Oppure, si può ritenere più opportuno che lo Stato costituisca un solo istituto, che acquisti i titoli illiquidi dalle banche e le rimetta così in condizione di operare in tranquillità. Nel dibattito internazionale c`è anche chi immagina che prima lo Stato metta in opera un`azione di nazionalizzazione e poi separi il grano dal loglio.

Meglio il sidecar Molti però non sono convinti da questa soluzione. Per esempio, George Soros di recente ha sostenuto che la soluzione migliore potrebbe essere quella di allocare le attività tossiche in una “tasca laterale” (side pocket) oppure in un “sidecar”, termini che indicano la costituzione di una sorta di fondo chiuso, così come hanno già fatto gli hedge funds per i loro titoli illiquidi. In questo modo si farebbe pulizia nei bilanci delle banche, ha osservato Soros, ma resterebbe aperto il problema della loro sottocapitalizzazione:ciò potrebbe essere risolto coi apporti diretti del settore pubblico, ma anche di quello privato, una volta tornata la fiducia nei bilanci puliti.

Assicurazioni a garanzia pubblica In base a questo tipo di soluzioni, gli asset problematici restano nei bilanci delle banche, ma vengono assicurati in modo parziale o totale rispetto al rischio della perdita da una garanzia dello Stato. Ad esempio, di recente il governo olandese ha fornito una garanzia pubblica al portafoglio dei mutui ipotecari cartolarizzati di categoria Alt-A del gruppo Ing. Il valore dei mutui è stato ridimensionato, per tener conto dell`incerto realizzo e lo Stato ha assicurato l`80% del portafoglio (in cambio, Ing ha aumentato il volume dei prestiti concessi all`economia). La parte più complessa in questi schemi sta nell`assegnare un prezzo a questi asset.

Soluzione Caballero Male soluzioni si possono trovare: in relazione al piano Geithner, l`economista del Mit Ricardo Caballero ha proposto di definire una stima convenzionale, rifacendosi ai prezzi pre-crisi per classi di attivi, ma usando rating più bassi. Sempre per gli Usa, l`economista Francesco Giavazzi ha proposto che il Governo americano fornisca una garanzia pubblica per tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, impegnandosi a riacquistarle tutte a un prezzo prefissato, superiore alloro valore attuale: in questo modo si riuscirebbe a far risollevare il prezzo dei titoli ma anche il valore della ricchezza delle famiglie Usa.

Ipotesi Draghi Quanto all`Italia, il Governatore Draghi al Forex di Milano ha ipotizzato per il futuro, allo scopo di contrastare gli effetti che la recessione potrà avere sui bilanci delle banche, la possibilità di prevedere garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle aziende di credito, ma su “fette” di nuovi prestiti alle imprese, da cartolarizzare con sopra il bollino blu dello Stato.

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