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→  ottobre 12, 2009

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di Mario Deaglio

OUT: BANCA D’AFFARI
La banca d’affari in sé, che si indebitava a breve per fare finanziamenti a lungo termine, lucrando sul ruolo di intermediario, è oramai morta, sebbene abbia avuto una lunga vita e fosse, prima del crollo di lehman Brothers, sulla cresta dell’onda. Negli Stati Uniti tutte le grandi banche d’affari si sono trasformate in banche ordinarie, soggiacendo così al controllo della Fed, pur di poter usufruire del sostegno pubblico. Attenzione però: la banca che si finanzia a breve per prestare a lungo termine, un tempo nota come “banca universale” potrebbe senz’altro rispuntare: sembrava sepolta dopo la crisi degli anni Trenta, è stata resuscitata negli anni Ottanta negli Stati Uniti ed è una delle cause della crisi attuale.

IN: YUAN

Chi non lo conosce si consideri fuori gioco. E’ la parola che ci seguirà nei prossimi anni, entrando nel dibattito tra economisti e nelle conversazioni tra persone comuni. Sarà infatti il cambio tra la moneta cinese e quella Usa il cardine del nuovo sistema economico mondiale. E’ il riconoscimento che Pechino è diventata la seconda economia del mondo e ben presto diventerà la prima. Non a caso il governo cinese detiene oggi il 23% dei titoli del Tesoro americani. Se gli Stati Uniti vorranno giocare ancora un ruolo di primissimo piano nello scacchiere geopolitico internazionale dovranno fare i conti proprio con questo elemento.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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di Tito Boeri

OUT: BAD BANK
Il pubblico italiano era già avvezzo al termine. Perché la “privatizzazione di Alitalia” (meglio sarebbe definirla socializzazione delle perdite e privatizzazione degli utili) contemplava la definizione di una bad company su cui scaricare tutti i debiti. Per fortuna l’esempio Alitalia non è stato seguito nella ristrutturazione del sistema bancario. I bad examples non vengono seguiti.

IN: EXIT STRATEGY
Significa riduzione progressiva dell’intervento pubblico a sostegno dell’economia e del sistema bancario.
Se ne parla, il che significa che i tempi stanno diventando maturi per cominciare a interrompere la respirazione bocca a bocca. Di “strategia di uscita” ha parlato anche il ministro Tremonti, nella sua audizione martedì scorso al Senato. Strano perché l’Italia non è mai “entrata” nelle misure anticrisi. Nel 2008 ha destinato alle misure contro la recessione lo 0,00 pre cento del PIL, nel 2009 lo 0,002.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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di Giuseppe Berta

OUT: CROLLO DI BORSA

Un tempo, davanti alle violente oscillazioni dei mercati
azionari, si parlava più appropriatamente di “panico”. Negli ultimi anni i “crolli” si sono succeduti uno dietro l’altro nei titoli dei media, inisieme con le notizie catastrofiche di immense ricchezze”bruciate” in un giorno (pronte per essere ricostruite nel giro di qualche settimana o mese). La gravità della crisi globale dovrebbe suggerire di abbandonare il gusto per i catastrofismi di maniera, ricordando a tutti che i destini delle economie e dei continenti non si giocano mai nel teatro spettacolare ed effimero della Borsa, derubricato già da Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni, a semplice “termometro dell’opinione pubblica”.

IN: PAESI EMERGENTI
E’ una dizione probabilmente ambigua quella di “paesi emergenti”, che associa in una prospettiva comune nazioni ormai divenute protagoniste dello sviluppo economico mondiale insieme con altre che invece rischiano, come è avvenuto spesso nella storia, di essere ricacciate in una condizione marginale. E tuttavia quest’espressione restituisce il senso di mobilità dei confini economici del mondo, di una geografia variabile soggetta a un perenne movimento di trasformazione. Essa Ha, per giunta, il pregio di schermare, ai nostri occhi di occidentali, un moto ondoso che minaccia di sommergere il nostro mondo.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  settembre 14, 2009

La storia

di Alberto Arbasino

«Sventare gli sventramenti!» fu per decenni il motto di tanti architetti post-fascisti, per cui andava demolita addirittura la Piazza Augusto Imperatore, benché non bisognosa di interventi urgenti.
«Solo cocci e coccetti» minimizzavano invece i modernizzatori, per cui in ogni metropoli storica e contemporanea si demolisce e scava per venire incontro alle esigenze del Progresso, senza lasciarsi paralizzare da pseudo-ostacoli di non grande valore culturale.
Per decenni, poi, con andamento variabile, i giornali più progressisti denunciavano le potenti lobbies di costruttori che «infettavano» la Capitale e il Campidoglio con elargizioni elettorali e individuali e scambi di favori enormi fra il Catasto e la Casta.
L´affare del Pincio è apparso presto spiacevole e inutile, perché sfasciare un sito così illustre e perfetto solo per guadagnare qualche centinaio di posti-auto diventa ridicolo in una città ove circola un milione di macchine.
Forse converrebbe scavare sotto il letto del Tevere, l´unico sottosuolo romano ove forse non si troverebbero «domus» o anfore. È stato fatto sotto la Manica: ci sarebbero tanti costi e problemi in più?

La «pedonalità del Tridente» sembra un vano pretesto, quando proprio le rampe del Pincio sono diventate un sito di rimorchio minorenne con rock a volumi competitivi, anche per mignotte venute da lontano. Ma lì basterebbero un paio di transenne e di vigili, senza altre iniziative. E magari spendere i fondi per tenere l´intera Villa Borghese in condizioni meno schifose, semmai.
Ma del resto, a detta di taluni residenti, l´intera Piazza del Popolo era più carina quando era piena d´automobili ferme, multicolori e luccicanti sotto l´obelisco. Certamente meglio che adesso, volgarmente sfruttata come contenitore di enormi e ripugnanti impalcature e ponteggi incessantemente montati e smantellati e martellati per gazebi pubblicitari da stadio o da circo, per «eventi» fragorosissimi e assordantissimi per bambini e venditori di schifezze senza alcun nesso o rispetto per Valadier e i suoi «spazi» urbani e civici.

Tanti anni fa, pure, quando dalle periferie si proclamava «Riprendiamoci la città» dopo le lunghe paure stradali negli anni di piombo, e centinaia di giovani partivano di lontano per sedersi sulla scalinata in Piazza di Spagna e lì fare i cori di montagna, invano si richiedeva ai responsabili comunali di abbellire le principali piazze periferiche di scalinate analoghe in facsimile, visto il successo del prototipo. Ovviamente, ad opera delle maestranze bravissime e disoccupate di Cinecittà. Macché multipli, sentenziavano gli assessori. (E anche Fellini, credo). Mentre – come luoghi di socializzazione e coinvolgimento – sarebbero costati pochissimo, oltre a introdurre un post-moderno laico e non clericale nelle borgate pasoliniane non più di teenagers «zozzetti».
I sottosuoli urbani, in Italia e in tutta l´Europa, sono pieni di muretti romani in serie che vengono presto chiamati «Domus». Così come ogni sartoria è ormai una «Maison», e dunque incute riguardi. Per esempio, a Vienna, scavando davanti al Palazzo Imperiale, si sono rinvenuti dei mattoni con calcina che hanno subito causato la pedonalità intorno a un catino archeologico che solo un certo garbo civico e turistico evita di usare come un «posacicche». Qualcosa di analogo dev´essere capitato sotto l´Auditorium romano, dove al rinvenimento dei muretti antichi si imputa l´innalzamento del progetto originario, sacrificando le scale mobili (ormai costanti in ogni multisala per ragazzini), e il foyer-bar come luogo d´aggregazione per anziani che devono restar seduti se non sono disposti ai cento scalini giù e su dalla biglietteria.

I critici architettonici del Ventennio fascista, pure approvando i molti edifici razionalisti in mattoni e travertino dei loro invidiati maestri, giustamente non perdonano gli scatafasci causati dalla Via dell´Impero.
Così come sono inescusabili e inespiabili le demolizioni sabaude intorno all´atroce Vittoriano, benché imbellettato e vezzeggiato adesso come orribile attrazione turistica.
Ma ancora più orribile risulta adesso la biasimata «teca» sull´Ara Pacis. Perché rivisita, con un brutto «senno del poi» i travertini già intollerabili ai tempi del Duce e del film «peplum» della Romanità-a-Cinecittà. (Come già a Los Angeles, dove arrivando al Getty Museum si esclama «Fabiola! Spartacus! Scalera Film! Torna, Alessandro Blasetti, tutto è perdonato!»).
Perché poi bastava mettere a norma la teca precedente, discreta e vetrata e restaurata dai Rotary, così come si conservano gasometri e pastifici e rimesse tranviarie non griffate di quella stessa epoca. Invece di costruire muraglie presuntuose e fontanelle massicce che cancellano ogni vista sulle due celebri chiese di qua e sul Tevere di là. Per cui, avendo qui le dichiarazioni di architetti illustri contro la Piazza Augusto Imperatore nel suo complesso e assetto precedente, bisognerebbe sentire chissà quali «esperti». Abbattere le arroganti «ali laterali», che servono soprattutto a mostre e convegni clientelari di livello bassissimo? Affidare ai più lodati graffitisti della scena romana la decorazione di quegli insopportabili muri bianchi del Duce? Dai treni tiburtini e tuscolani si vedono interessanti «specimens». E se comunque si rammentano le ormai attempate stizze degli specialisti contro il resto della medesima piazza, c´è davvero da ridere. Ah, ah, vecchi cucù.

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Il Pincio e i talebani dell’urbanistica
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 17 settembre 2008

→  marzo 13, 2009


a cura di Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni, collabora o ha collaborato con svariati quotidiani e riviste, fra cui Wall Street Journal, Washington Post, International Herald Tribune, Financial Times, L’Agefi, Apple Daily, Economic Affairs, National Review, The Freeman, Markets and Morality.

Il capitalismo ha fallito: è questa la chiave di lettura più comune della crisi finanziaria.

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→  febbraio 26, 2009

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di Nouriel Roubini

Un anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell’Europa continentale.

Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all’attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una “bad bank” governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative – dopo un ‘iniziale perdita delle banche – degli asset tossici; l’acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l’attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione – chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio «government receivership») in caso di rifiuto di questo termine scabroso delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della “bad bank”, il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l’ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo (nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato).

La soluzione della “bad bank” comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all’idea – invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro – che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo – è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi – con una garanzia da parte del governo – a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della Indy-MacBank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un’importanza sistemica, “too big to fail” – cioè troppo grosse per poter fallire – e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra “banche zombie” ricordano un po’ il comportamento degli ubriachi cercano di aiutarsi l’un l’altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of America hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.

È questa la soluzione che all’inizio degli anni ’90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l’attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di “banche zombie”, che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

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