→ novembre 29, 2011

di Giampiero Berti
È vero che la storia riserva sempre sorprese, ma è anche vero che si ripete in continuazione. Ne abbiamo un’ennesima conferma con il libro fresco di stampa di Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, 2011, pag. 210, introduzione di Franco Debenedetti) la cui prima edizione apparve in Francia nel 1911 e in Italia nel 1914. In quest’opera Pareto denunciava la stupidità e l’ipocrisia del suo tempo espressi dai virtuisti (virtuista è un neologismo coniato dallo stesso Pareto), cioè da coloro che, invece di occuparsi dei problemi veri che affliggevano il Paese – miseria, corruzione, analfabetismo, dominio della mafia e della camorra in intere regioni – si interessavano a reprimere la letteratura immorale, rappresentata soprattutto da libri che davano spazio a vicende amorose e sessuali.
Ispirata da un ethos profondamente liberale, l’opera è un’incursione a tutto campo nella letteratura greca, latina, moderna, con particolare riguardo agli scrittori illuministi, a partire da Voltaire. Pareto dimostra non soltanto l’impossibilità logica di definire la letteratura immorale, l’impotenza pratica di ogni censura, ma anche l’assoluta incapacità del ogni moralismo di trasformare la società. Pone in primo piano la questione decisiva del potere politico, che trova nell’enfasi statalistica la sua attuazione. Il moralismo di Stato propugnato dai virtuisti tende di fatto a distruggere una delle più grandi conquiste della civiltà liberale: la divisione tra la sfera privata e quella pubblica.
Pervaso da un irriducibile individualismo, dall’insofferenza per l’invadenza soffocante di ogni potere, il grande sociologo italiano, beffeggia e seppellisce i moralisti sotto una valanga di sarcasmi, dimostrandone tutte le contraddizioni. In piena sintonia con il realismo e il disincanto di Machiavelli, rivendica la vera etica, che deve consistere nell’essere rigorosi e inflessibili su ciò che riguarda la sfera pubblica, tolleranti su ciò che riguarda quella privata. È stata persa, a giudizio di Pareto, una delle più grandi conquiste del Risorgimento: la separazione cavouriana fra Chiesa e Stato, fra etica dello Stato e morale privata.
È sottesa qui, infatti, la questione centrale già posta già da Benjamin Constant: la distinzione fra «la libertà degli antichi» e «la libertà dei moderni». La libertà degli antichi è la libertà conferita ai cittadini politicamente attivi, i quali sono liberi in quanto esercitano dei diritti politici, il cui espletamento implica il coinvolgimento nella vita della polis. La libertà dei moderni scaturisce invece dalla fonte imprescrittibile dei diritti naturali, che dichiarano che nessun potere, nessun sovrano, nessuna collettività può dare o può togliere tale libertà originaria. Mentre la libertà dei moderni, preesistendo al potere, impone a quest’ultimo il dovere di preservarla, la libertà degli antichi comanda che essa si realizzi attraverso l’attiva partecipazione alla vita pubblica. La prima è la libertà dallo Stato, la seconda è la libertà nello Stato. Non è un caso che la libertà dei moderni, ovvero la libertà liberale, sia stata attaccata ferocemente da tutte le ideologie totalitarie.
Ne Il mito virtuista e la letteratura immorale sono già presenti alcuni schemi teorici che innerveranno qualche anno dopo l’opera più importante di Pareto, il Trattato di sociologia generale, dove, fra l’altro, viene delineata la distinzione fra azioni logiche e azioni non logiche: le azioni logiche sono quelle che utilizzano mezzi appropriati al fine, le azioni non logiche sono quelle che non connettono in modo logico i mezzi con il fine. Gli uomini si lasciano convincere soprattutto dai sentimenti (definiti da Pareto residui), mentre a dare aspetto logico alle azioni non logiche vi sono le forme pseudo logiche delle argomentazioni definite con il termine derivazioni. Il moralismo d’accatto dei virtuisti non è altro che la proiezione dei residui, che si manifestano sotto la forma delle derivazioni, le quali, pertanto, sono espressioni ipocrite e impotenti.
Il mito virtuista dimostra che la storia si ripete, se si pensa alle polemiche relative alla vita privata di Silvio Berlusconi. Scriveva Pareto: «I tempi eroici del socialismo sono passati: i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi. Non si tratta più di distruggere il socialismo, di rovesciare la società, di pervenire ad una nuova costituzione sociale interamente diversa, eccoli diventati difensori della morale e del pudore». Scrive Franco Debenedetti nell’introduzione: «L’antiberlusconismo militante è il nuovo mito virtuista, i girondini in corteo sono i nuovi “monaci domenicani”». Al tempo di Pareto il virtuismo «chiedeva al potere di dare la caccia all’immorale e impedire che si mostrasse in pubblico, il virtuismo di oggi sbircia e origlia nel corridoio del palazzo».
→ novembre 27, 2011

di Roger Abravanel
La vicenda Finmeccanica ha dato una nuova prospettiva al dibattito sulle privatizzazioni. C’ è chi dice che la privatizzazione di Finmeccanica ridurrebbe le occasioni per ulteriori «fondi neri» e chi (come questo quotidiano) sostiene che privatizzarla non servirebbe a molto perché il privato utilizzerebbe la leva della corruzione della committenza pubblica esattamente come fa una azienda a controllo statale. La realtà è che la privatizzazione incide poco su questo tipo di problemi perché la Finmeccanica opera in un settore (difesa, sicurezza) dove la trasparenza è scarsa, le pratiche commerciali a volte ai limiti della legalità e l’ interferenza della politica significativa per definizione. Il cancro della corruzione in questi settori non si combatte con le privatizzazioni, ma con una committenza pubblica piu trasparente e un’ azione giudiziaria internazionale più incisiva e coordinata. La vera ragione per ridurre ulteriormente il ruolo dello Stato come azionista di Finmeccanica (come committente è impossibile) è un’ altra: creare valore proprio attraverso quello «spezzatino» tanto osteggiato dal fronte anti-privatizzazione. In Finmeccanica esistono business globali molto competitivi e in posizione di leadership: gli elicotteri (Agusta-Westland), l’ avionica (Selex-Galileo) legati alla committenza militare in Italia e nel mondo, e altri come l’ Ansaldo Energia e l’ Ansaldo Sistemi, più connessi al mercato privato mondiale dell’ energia e dell’ industria. Questi business competitivi (veri e propri «gioielli») convivono con altri che sopravvivono grazie alla committenza pubblica italiana – la Alenia e la «sicurezza» (la «famigerata» Selex-sistemi integrati) – e con altri che da sempre restano nell’ orbita pubblica per ragioni di salvaguardia dell’ occupazione (l’ Ansaldo Breda). Ora bisogna decidere cosa cedere e cosa tenere in orbita pubblica (e come farlo), con tre obiettivi: proteggere e rendere ulteriormente competitivi i «gioielli» a fronte della crisi finanziaria globale che porta a forti contrazioni degli investimenti pubblici in tutto il mondo in ogni settore (in particolare in quello della Difesa), generare un po’ di cassa e risolvere una volta per tutte il problema delle attività che sopravvivono solo grazie alla committenza dello Stato italiano o alla sua protezione. Per questo una privatizzazione tout court non è possibile senza una chiara strategia che dev’ essere impostata dal nuovo governo e affidata come mandato al cda e al presidente (attuale o futuro). Il fronte anti-privatizzazioni porta però avanti da mesi un’ altra argomentazione contro tutte le privatizzazioni: la cosiddetta «svendita dei gioielli di famiglia» ovvero alcuni business di Finmeccanica e poi l’ Enel e l’ Eni. Ma oggi lo Stato italiano non è in una situazione molto diversa da quella di una famiglia che deve svendere i propri gioielli per evitare il fallimento. Peraltro non è certo che si tratti di una «svendita». Gli anti-privatizzazioni sostengono che «lo Stato non può rinunciare ai 2 miliardi di dividendi dell’ Enel e dell’ Eni». Ma se questi dividendi in passato hanno reso il 7-8%, un vero affare quando il debito costava il 3%, oggi con un costo marginale del debito del 6-7% a causa dell’ esplosione degli spread la situazione è cambiata. E l’ incasso di almeno 30 miliardi (la vendita dei «gioielli») vale una manovra di uno Stato che tenta disperatamente di non fallire. In altre parole lo Stato italiano deve vendere perché il costo di tenersi i «gioielli» è oggi pari alla loro cessione; e comunque non può più permetterseli. Peraltro, non solo Finmeccanica beneficerebbe di una privatizzazione divenendo più competitiva e creando valore per gli azionisti e i lavoratori. Anche per Enel e Eni una minor presenza dello Stato sarebbe salutare. Dai tempi della loro parziale privatizzazione, queste aziende hanno fatto passi da gigante in termini di competitività, qualità del top management e della governance (Consiglio di amministrazione) che, per molti aspetti, può anche essere considerata oggi migliore di quella di molte aziende italiane quotate dove l’ azionista di riferimento sono le famiglie italiane. Ma la crisi mondiale in corso e le nuove sfide globali richiedono che i vertici perseguano sforzi ancora maggiori nel taglio dei costi e nelle cessioni/alleanze internazionali, difficilmente compatibili con una forte presenza dello Stato. Queste nuove strategie devono essere approvate da cda informati ed attivi che appoggiano vertici pronti a impegni coraggiosi. In Italia, spesso i vertici costruiscono da soli le strategie e semmai le concordano con l’ azionista pubblico che sceglie anche l’ amministratore delegato con minimo coinvolgimento del consiglio e del suo presidente (che alla fine conta abbastanza poco). Ciò è consentito dalle loro pratiche di governance che ormai non sono più in linea con i tempi: i cda di queste aziende scadono tutti assieme e non hanno mandati in scadenza dei singoli consiglieri come nelle migliori pratiche mondiali che invece consentono al cda e al suo presidente di nominare l’ amministratore delegato. In sintesi quindi, l’ invito per il governo Monti è di accelerare le privatizzazioni delle aziende «ex-pubbliche», più facili da realizzare che la vendita del patrimonio immobiliare e delle caserme e con più potenziale di contribuire alla ulteriore crescita di imprese globali che creano posti di lavoro e valore per i loro azionisti.
→ novembre 24, 2011

di Milena Gabanelli
Equità, liberalizzazioni e lotta all’evasione fiscale dovrebbero essere i farmaci da prescrivere al malato Italia per uscire dalla crisi. La proposta di tassare l’uso eccessivo del contante si prefigge di ridurre il più possibile l’evasione fiscale rendendola non conveniente mediante una tassa sul prelievo e sul deposito operata dalle banche per conto dello Stato. Ne sarebbero colpiti solo coloro che, in presenza di metodi di pagamento alternativi tracciabili (quali gli assegni, le carte di credito, il bancomat e i bonifici) si ostinerebbero a fare un uso eccessivo del contante creando un costo alla collettività.
Il costo a cui mi riferisco è determinato dai seguenti fattori:
- dall’incapacità dello Stato di farsi pagare le tasse da tutti, che limita la competizione fra operatori a favore di chi evade;
- dal freno che gli studi di settore hanno sulla crescita economica, penalizzando le attività in fase di start-up, oppure in un momento di difficoltà, favorendo invece quelle che hanno fatturati superiori a quanto previsto dagli studi di settore. Un maggior utilizzo della moneta elettronica potrebbe allentare questo freno o addirittura farlo scomparire;
- dal fatto che l’evasione fiscale, resa possibile solo dai pagamenti in contanti, crea una seria diseguaglianza fra i cittadini che percepiscono un reddito da lavoro dipendente e coloro che invece hanno una partita Iva e possono/scelgono di evadere parte dello loro tasse.
Soprattutto l’evasione fiscale nasconde circa il 20% del nostro Prodotto interno lordo che, in quanto sommerso, non va a far parte del rapporto debito/Pil e che ad oggi ammonta al 120%. Con un rapporto così alto, gli investitori sono disposti ad acquistare i nostri titoli di Stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi. Fare emergere questo 20% di Pil sommerso ci aiuterebbe a risanare i conti pubblici e renderebbe quindi possibile l’attuazione della riforma fiscale.
In conclusione: nessuna soglia minima alla tracciabilità, poiché anche portandola a 100 euro, la porta rimarrebbe socchiusa ai più furbi, e tassa sull’uso del contante. Questo renderebbe preferibile l’emissione e la richiesta di fattura. Si deve prevedere ovviamente la possibilità di scaricarne una piccola parte dalla dichiarazione dei redditi, come si deve prevedere l’abbassamento dei costi di transazione bancaria. A parte i tangentisti, gli spacciatori, evasori e i criminali, la gente comune non necessita di più di una cinquantina di euro alla settimana, la cui imposta potrebbe anche essere detratta. Insomma i nostri tecnici al governo potrebbero sicuramente disegnare un sistema che oltre ad essere a mio parere più equo e liberista, reintrodurrebbe anche la cultura della legalità.
→ novembre 14, 2011

di Armando Torno
Pamphlet: torna un testo classico di Vilfredo Pareto
Anche se Vilfredo Pareto (1848-1923) è un pensatore non particolarmente ricordato oggi in Italia, le sue idee sono un riferimento obbligatorio per chi studia economia, sociologia o politica. La distinzione da lui lasciata tra azioni logiche e non logiche (ma non per questo insensate) o la teoria della circolazione delle élite (la cui alternanza caratterizza i fatti della storia) sono due esempi dei tanti possibili.
Di lui ora sta per tornare in libreria un’opera brillante e intelligente: Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, pp. 248, 18). Vide la luce a Parigi nel 1911 e in italiano nel 1914 con non poche integrazioni, ma anche — come scrisse lo stesso Pareto all’economista Maffeo Pantaleoni — con «molti, moltissimi errori materiali» commessi dal traduttore. Liberilibri, editore di Macerata, la ripropone eliminando le antiche mende, con un’introduzione di Franco Debenedetti. Il quale ricorda che il libro è «lo sfogo del liberale positivista contro le repressioni dei conservatori, e l’esempio di come analizzare le irrazionalità del comportamento umano in modo scientifico».
L’opera, sottolinea ancora Debenedetti, nasce contro le misure repressive che Luigi Luzzatti, il protezionista della scuola padovana divenuto presidente del Consiglio, prenderà nel 1910 contro la letteratura immorale. Sono gli anni in cui Pareto sente l’influenza di Pantaleoni e dei suoi Principi di economia politica pura; il tempo nel quale rinuncia (1899) alla cattedra che fu di Léon Walras, l’economista matematico di Losanna, per scrivere un trattato di sociologia. Disciplina che don Benedetto Croce giudicava al tramonto, dopo il declino del positivismo e delle filosofie della storia. Del resto, questa povera sociologia non era forse, per il pensatore napoletano, un «mezzo inferiore» della vita intellettuale?
Pareto era uno dei pochissimi che potevano permettersi una polemica con Croce senza uscirne con le ossa rotte, e questo libro su Il mito virtuista, sia pamphlet che opera scientifica, nasce mentre egli attende al Trattato di sociologia generale (1916) nell’«eremo» di Céligny e medita, tra l’altro, le idee di Georges Sorel. Già, Sorel. Aveva visto — usiamo frasi dello stesso Pareto — «molto bene l’importanza capitale del mito nella vita dei popoli», giacché l’ideale «manifestandosi sotto la forma di mito, li eccita, li trascina, li sostiene e li rende capaci di grandi azioni storiche». Colto, informatissimo, in quest’opera riproposta da Liberilibri mostra la sua indole liberale e libertaria, sbugiardando le ipocrisie che si celano nel proibizionismo. Del resto, nel 1911 e oggi, il comportamento dei «virtuisti» non cambia. Comincia con qualche appello alla morale collettiva e finisce declinando i verbi vietare e proibire.
Nell’appendice viene riportato il testo di un paio di sentenze di tribunali italiani dell’epoca e la circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche. Sono documenti che aiutano a comprendere le tesi del libro di Pareto. Lui stesso ricorda che in un processo si vedrà l’incriminazione di due brani, l’uno tolto dalla Bibbia e l’altro dai Dialoghi delle cortigiane di Luciano. Che dire? Nel Belpaese, dove per decenni ci si è regolati alla meglio con il «comune senso del pudore», senza che nessuno avesse bene in mente cosa fosse, l’immoralità non è mai mancata e opere come Il mito virtuista si sono ignorate. Al pari delle parole di Oscar Wilde del Ritratto di Dorian Gray: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Tutto qui».
→ novembre 10, 2011

by Nouriel Roubini
With interest rates on its sovereign debt surging well above seven per cent, there is a rising risk that Italy may soon lose market access. Given that it is too-big-to-fail but also too-big-to-save, this could lead to a forced restructuring of its public debt of €1,900bn. That would partially address its “stock” problem of large and unsustainable debt but it would not resolve its “flow” problem, a large current account deficit, lack of external competitiveness and a worsening plunge in gross domestic product and economic activity.
To resolve the latter, Italy may, like other periphery countries, need to exit the monetary union and go back to a national currency, thus triggering an effective break-up of the eurozone.
Until recently the argument was being made that Italy and Spain, unlike the clearly insolvent Greece, were illiquid but solvent given austerity and reforms. But once a country that is illiquid loses its market credibility, it takes time – usually a year or so – to restore such credibility with appropriate policy actions. Therefore unless there is a lender of last resort that can buy the sovereign debt while credibility is not yet restored, an illiquid but solvent sovereign may turn out insolvent. In this scenario sceptical investors will push the sovereign spreads to a level where it either loses access to the markets or where the debt dynamic becomes unsustainable.
So Italy and other illiquid, but solvent, sovereigns need a “big bazooka” to prevent the self-fulfilling bad equilibrium of a run on the public debt. The trouble is, however, that there is no credible lender of last resort in the eurozone.
One is urgently needed now. Eurobonds are out of the question as Germany is against them and they would require a change in treaties that would take years to approve. Quadrupling the eurozone bailout fund from €440bn to €2,000bn is a political non-starter in Germany and the “core” countries. The European Central Bank could do the dirty job of backstopping Italy and Spain, but it does not want to do it as it would take a huge credit risk. It also cannot do it, as unlimited support of these countries would be obviously illegal and against the treaty no-bailout clause.
Thus, since half of the European financial stability facility’s resources are already committed to Greece, Ireland, Portugal and to their banks, there is only about €200bn left for Italy and Spain. Attempts have been made to use financial engineering to turn this small sum into €2,000bn. But the leveraged EFSF is a turkey that will not fly, because the original EFSF was already a giant collateralised debt obligation, where a bunch of dodgy, sub-triple-A sovereigns try to achieve, by miracle, a triple-A rating via bilateral guarantees. So a leveraged EFSF is a giant CDO squared that will not work and will not reduce spreads to sustainable levels. The other “turkey” concocted by the EFSF was supposed to be a special purpose vehicle where reserves of central banks become the equity tranche that allows sovereign wealth funds and the Bric countries to inject resources in a triple-A super senior tranche. Does this sound like a giant sub-prime CDO scam? Yes, it does. This is why it was vetoed by the Bundesbank.
So, since the levered EFSF and the EFSF SPV will not fly – and there is not enough International Monetary Fund money to rescue Italy and/or Spain – the spreads for Italian debt have reached a point of no return.
After a patchwork of lending facilities are cobbled together, and found wanting by the markets, the only option will be a coercive but orderly restructuring of the country’s debt. Even a change in Italian government to a coalition headed by a respected technocrat will not change the fundamental problem – that spreads have reached a tipping point, that output is free-falling and that, given a debt to GDP ratio of 120 per cent, Italy needs a primary surplus of over 5 per cent of GDP just to prevent its debt from blowing up.
Output now is in a vicious free fall. More austerity and reforms – that are necessary for medium-term sustainability – will make this recession worse. Raising taxes, cutting spending and getting rid of inefficient labour and capital during structural reforms have a negative effect on disposable income, jobs, aggregate demand and supply. The recessionary deflation that Germany and the ECB are imposing on Italy and the other periphery countries will make the debt more unsustainable.
Even a restructuring of the debt – that will cause significant damage and losses to creditors in Italy and abroad – will not restore growth and competitiveness . That requires a real depreciation that cannot occur via a weaker euro given German and ECB policies. It cannot occur either through depressionary deflation or structural reforms that take too long to reduce labour costs.
So if you cannot devalue, or grow, or deflate to a real depreciation, the only option left will end up being to give up on the euro and to go back to the lira and other national currencies. Of course that will trigger a forced conversion of euro debts into new national currency debts.
The eurozone can survive with the debt restructuring and exit of a small country such as Greece or Portugal. But if Italy and/or Spain were to restructure and exit this would effectively be a break-up of the currency union. Unfortunately this slow-motion train wreck is now increasingly likely.
Only if the ECB became an unlimited lender of last resort and cut policy rates to zero, combined with a fall in the value of the euro to parity with the dollar, plus a fiscal stimulus in Germany and the eurozone core while the periphery implements austerity, could we perhaps stop the upcoming disaster.
The writer is chairman of Roubini Global Economics, professor at the Stern School at New York University and co-author of ‘Crisis Economics’
→ novembre 10, 2011

by Allen Mattich
A surge in Italian bond yields is triggering a wholesale euro-zone panic.
Investors fear the financial conflagration that looks to be forcing Greece out of the euro will soon consume Europe’s biggest sovereign debtor too, putting the very existence of the single currency at risk.
Yields on 10-year Italian government bonds peaked just below 7.5% yesterday , a level that had been consideredthe point of no return for Ireland, Portugal and Greece during their own debt crises. There’s a widespread assumption that Italy wouldn’t be able to sustain yields at these levels, which would put it on the road to default.
But what few observers seem to be asking is what sort of yields are justified by Italy’s economic circumstances, rather than what’s necessary to hold the single currency together. History suggests perhaps not too far from where they are now, according to Paolo Manasse, an economics professor at Bologna University.
“The puzzle is that interest rates have risen so little and so late, despite the worsening of fundamentals,” he wrote last week, before the latest spike in yields.
For instance, Italian debt is forecast at around 121% of gross domestic product this year, almost exactly where it was in 1994, well before euphoria over the introduction of the single currency later in the decade started to force yields on the debt of all prospective member states to converge on Germany’s exceptionally low levels.
In 1994, yields on 10-year Italian debt hovered around 9%. It’s true Italian inflation was higher then, at 4.2%, compared with about 2.6% now. But assuming inflation expectations were rooted in current price levels, real expected yields are only moderately higher now than they were then.
Other fundamentals are different, too. In 1994, Italy was running bigger government deficits as a proportion of GDP and had higher unemployment. On the other hand, its ability to finance its deficit seemed more secure. The Italian economy was growing more solidly—2.2% in 1994 against 0.6% forecast for this year—and was generating a solid current-account surplus of 1.2% of GDP against an anticipated deficit worth 3.5% of GDP for 2011.
The lack of growth and low inflation compared with 1994 worries some economists. Italian officials may take comfort that the budget is in primary balance—after stripping out interest costs—but this is false comfort, says Charles Dumas of Lombard Street Research. Simple math shows why, he argues.
Take Italy’s net government debt, which is currently around 100% of GDP. Even though Italian government debt has a relatively long maturity—it averages out at about seven years—which means current high yields have a relatively small impact on interest payments, unless they come down smartly over the coming months, they will represent an interest cost of around 6% of GDP, Mr. Dumas estimates.
In a world of high growth or high inflation, those interest costs would be manageable. Either income covers the outlay or inflation erodes the debt burden.
But Italy has neither to look forward to. The International Monetary Fund forecasts Italy to grow by less than 1% a year over the coming three years and for Italian prices to rise by little more than 1% over the same period. Mr. Dumas is more pessimistic. He thinks there’s a real risk Italy doesn’t grow at all and suffers deflation. In this case, the Italian government has to find about 6% of GDP from spending cuts or tax rises unless it wants its debt burden to grow—something the markets are unlikely to accept.
And that sort of austerity is exactly what Greece is struggling against. It becomes a self-defeating downward spiral. Tax rises and spending cuts against a recessionary backdrop only cause the economy to contract further. Economic contraction pushes up government spending and reduces its revenue, making it impossible for the government to make headway on its finances while the economy just gets worse.
For Italy to get out of its ever-deepening hole, it needs much lower yields on its debt. The European Central Bank could engineer this by buying Italian government bonds in the market. It has done so as an emergency measure, albeit with only temporary success. The ECB has bought some €183 billion ($247 billion) in euro-zone government debt so far, a large proportion of which was Italian, and was reportedly intervening heavily in the market on Wednesday. But this is a pittance compared with how much it would have to buy if investors abandoned Italy. Next year alone, Italy has to roll over €300 billion in maturing debt and is expected to need another €25 billion to cover its budget deficit.
ECB members have made it clear they’re unwilling and legally unable to be unlimited buyers of government debt. But it is, in any case, questionable how much lower Mario Draghi, the ECB’s new president, would be willing to push Italian yields. Although Mr. Draghi says yields are now “overshooting,” he also admits they fell too low pre-Lehman.
Investors were demanding too little return from the Italian government during the euro’s long honeymoon. Its 10-year debt at one point yielded just nine basis points—less than a tenth of one percentage point—more than Germany’s equivalent issues. That spread is now around 570 basis points. Although this is high, it was higher in 1995. In 1994, the spread largely ranged between 300 and 450 basis points.
Unfortunately, even if fair value were toward the lower end of those spreads, Italy would find it brutally painful to pay what it owes. The only alternative, argues economist Nouriel Roubini, is for a debt restructuring. Default, in other words, and all the collateral damage that entails.