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→  ottobre 22, 2013


di Massimo Mucchetti

Al direttore.

Siamo sicuri che il Financial Times abbia ragione a dare l’allarme sul ritorno del protezionismo industriale in Italia? Ne sono convinti Francesco Giavazzi e altri 25 economisti e manager che nei giorni scorsi hanno sottoscritto un appello del Foglio: tra questi, noto ex presidenti della Cassa depositi e prestiti, dell’Acea e dell’Enel, consiglieri di amministrazione dell’Iri e dell’Eni Prima Repubblica ed ex parlamentari che chiusero un occhio sugli aiuti pubblici del Cip 6 all’industria elettrica privata.
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→  ottobre 20, 2013


di Giovanni Belardinelli

Colpisce e preoccupa l’assenza di opinioni critiche riguardo al disegno di legge che intende punire con la reclusione fino a tre anni chi si renda colpevole del reato di negazionismo. La legge, che ha sostanzialmente l’appoggio di tutte le forze politiche, non è stata ancora approvata dal Senato solo per una questione procedurale (la richiesta del M5S che a votarla sia l’Aula tutta e non soltanto la commissione giustizia in sede deliberante). Ma con pochissime eccezioni (il radicale Marco Pannella, la giornalista Fiamma Nirenstein) nessuno sembra attraversato da dubbi circa il suo carattere illiberale, che pure dovrebbe essere evidente dato che la nuova norma sanzionerebbe pur sempre delle opinioni. La storica debolezza della cultura liberale nel nostro Paese è testimoniata appunto dal fatto che tendiamo a ignorare come la libertà di opinione si misuri in primo luogo in relazione alle opinioni che non condividiamo e che troviamo anzi aberranti.

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→  ottobre 19, 2013


di Piero Ostellino

Per battere il negazionismo basta il buonsenso, non serve una legge

La bulimia legislativa del nostro Parlamento – figlia di una cultura «buonista», formalmente collettivista e sostanzialmente illiberale della classe politica – ha prodotto un’altra legge priva di senso. La Commissione giustizia del Senato ha licenziato un testo che prevede la condanna da uno a cinque anni «a chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio contro l’umanità». Diciamola, allora, tutta: chi andasse in giro a negare quello che hanno fatto Pol Pot in Cambogia e Stalin in Urss, in nome di un’idea personale e criminale di egualitarismo; l’uccisione di preti, suore e di gente comune, da una parte e dall’altra, durante la guerra civile spagnola, passerebbe per matto.

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→  ottobre 12, 2013


di MAssimo Mucchetti

Caro direttore, una volta passi, due volte sono tante, tre volte sono troppe. Quello che si annuncia per il 2014 sarebbe il terzo passaggio di mano della partecipazione di controllo di Telecom Italia senza che i nuovi «padroni» lancino un’offerta pubblica d’acquisto rivolta ai soci di minoranza. I benefici del controllo sono riservati ai soci eccellenti della finanziaria Telco, che detiene il 22,4% dell’ex monopolio dei telefoni. Un simile esito può e deve essere criticato sia perché danneggia l’85% della compagine azionaria (contando le azioni di risparmio) sia perché Telefonica sarebbe il «padrone» meno adatto che si possa immaginare. E questo per almeno tre ragioni: a) Telefonica ha già molti debiti e una storia di feroce monopolio in Spagna, dunque non è credibile quando promette investimenti in Italia per rassicurare il nostro Governo e rabbonire Antitrust e Agcom; b) la multinazionale iberica sta già trattando lo spezzatino di Tim Brasil, la gallina dalle uova d’oro del gruppo italiano: a Vivo, la sua filiale locale, Telefonica intende riservare le attività di Tim Brasil in alcuni Stati della confederazione brasiliana, al messicano Carlos Slim le attività di altri Stati e tutto il resto al tandem Oi-Portugal Telecom, indebitato ma benedetto dalla presidente Dilma Roussef; c) l’accordo negoziato da Telefonica a suo proprio beneficio dovrà essere ratificato dal consiglio di Telecom dove gli unici non in conflitto di interessi sono ormai i consiglieri eletti dalle minoranze. Ma, per quanto lo si possa criticare, un tale esito sarebbe legale.Secondo il Testo unico della finanza, che risale al 1998, l’obbligo dell’Opa (offerta pubblica d’acquisto) scatta solo quando un investitore accumuli una partecipazione superiore al 30% della società bersaglio ovvero quando cambi la maggioranza assoluta di una scatola finanziaria o di un sindacato azionario che possiedano la partecipazione superiore al 30%. Se il cambio del controllo avviene sotto la soglia del 30%, il nuovo dominus può lasciare gli altri soci a bocca asciutta. Questo sacrificio delle minoranze azionarie venne a suo tempo giustificato con la natura pionieristica della normativa sull’Opa obbligatoria (la Germania, se ben ricordo, non l’aveva ancora) e con l’idea che il cambio del controllo facesse bene non solo ai venditori privilegiati ma anche all’azienda. Dopo 15 anni di esperienza, anche i sassi hanno capito che il cambio del controllo non è un vantaggio in sé: talvolta fa bene e talaltra fa male. In Telecom Italia, per dire, ha fatto malissimo.Si può rimediare prendendo spunto dal caso Telco-Telecom per modernizzare il mercato, pensando anche a Generali, Pirelli piuttosto che alle aziende pubbliche’ Il Senato ci sta provando. Ieri è stata depositata una mozione che impegna il governo ad aggiornare, attraverso la decretazione d’urgenza, la normativa sull’Opa obbligatoria aggiungendo alla soglia secca del 30% una seconda soglia determinata dalla partecipazione che dà il controllo di fatto, quando questa sia inferiore al 30%. La mozione, che ha raccolto consensi vastissimi e autorevoli, induce il Governo ad avere coraggio. Le possibili obiezioni, del resto, sono inconsistenti.A chi imputasse a questa riforma effetti retroattivi sul caso Telco-Telecom, il Governo potrà ricordare quanto ha appena detto in Senato il presidente della Consob, Giuseppe Vegas: il passaggio del controllo nel sistema Telco-Telecom è stato annunciato ma non ancora eseguito e dunque, fino all’attribuzione dei diritti di voto alle nuove azioni Telco in mano a Telefonica (che avverrà nel 2014), la normativa sull’Opa può essere modificata senza effetti retroattivi sul caso specifico.A chi lamentasse un effetto frenante sugli investimenti esteri, il Governo potrà osservare che un conto sono gli investimenti nelle attività reali, un altro conto sono quelli finanziari. I primi sono sempre i benvenuti, ma in questo caso non un euro va all’azienda Telecom Italia. I secondi vanno visti caso per caso. Questa volta, con 850 milioni, gli spagnoli vorrebbero prendersi una società che vale almeno 11 miliardi, danneggiando gli investitori esteri che hanno messo i loro denari direttamente in Telecom.A chi prospettasse la difficoltà di individuare le situazioni di controllo di fatto, il Governo potrà rispondere che sarà facile per la Consob accertare ogni anno quali siano gli azionisti che, da soli o in concerto tra loro, abbiano nominato per almeno due assemblee di seguito la maggioranza assoluta del consiglio di amministrazione, con ciò esercitando un’influenza dominante nella società.A chi esortasse a non avere fretta perché la materia è complessa, il Governo potrà far presente che, essendo la soluzione molto semplice, ogni rinvio favorisce Telefonica e i suoi partner, Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo. I quali potrebbero anche anticipare le decisioni in Brasile e finalizzare il contratto.A chi infine bollasse come antieuropea la doppia soglia, il Governo ricorderà che europeisti come Mario Draghi e Tommaso Padoa-Schioppa nutrivano serie riserve sulla soglia unica fin dall’origine e che la direttiva Ue 2004/25/CE lascia agli Stati la definizione della soglia medesima, unica o doppia che sia. E se a lamentarsi fosse Telefonica, le si potrebbe sempre ricordare che l’iniziativa del Senato copia la normativa spagnola.Dopo di che, se Telefonica mettesse sul tavolo i denari dell’Opa, ci toglieremo il cappello e verificheremo quanto il debito impatti sugli investimenti nella rete. Ogni cosa a suo tempo.

→  ottobre 2, 2013


di Sergio Cesaratto

Siamo d’accordo con quanto afferma Franco Debenedetti, sul Foglio di venerdì scorso, nel suo commento al “Monito degli economisti”, l’appello pubblicato sul Financial Times lo scorso 23 settembre e poi presentato in un’intervista al Foglio dall’economista Riccardo Realfonzo: le vicende e le leggi economiche non si ripresentano meccanicamente nella storia, la quale risulta da un intreccio complesso fra economia e scelte politiche. Si riafferma una banalità nel sostenere che, tuttavia, l’evocazione attenta degli eventi storici è fondamentale per avere una guida alle scelte correnti. E Debenedetti converrà con noi che le scelte politiche non possano svolgersi senza riguardo ad alcuni principi economici di fondo.

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→  ottobre 1, 2013


di Marco Onado

Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007. Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

UN FINALE GIÀ SCRITTO

La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI

La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.

NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI

Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.

CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA

Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debiti rappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.

IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO

Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. La cash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.

Giovedì prossimo Bernabé uscirà per la seconda volta di scena e probabilmente si toglierà come nel 1999 qualche sassolino dalla scarpa con una lettera ai dipendenti (l’altra volta aveva facilmente previsto che con Colaninno non si sarebbe data stabilità azionaria alla società) ma fra le sue due dimissioni si è consumato un declino di Telecom che sarà ben difficile rovesciare, anche perché l’aumento in prospettiva del peso di Teléfonica non si sa quali vantaggi industriali porterà, mentre costringerà a cedere le partecipazioni sudamericane. Il che, a parte le conseguenze reddituali, farà di Telecom un’azienda esclusivamente domestica concentrata su un business vecchio. Allegria.
E tutto perché in quasi quindici anni di gestione da parte dei capitalisti privati italiani più o meno coraggiosi, i soldi sono serviti solo per pagare gli azionisti uscenti e quando si è scelto uno strumento di mercato, cioè l’opa, i soldi erano rigorosamente degli altri, cioè presi a debito e subito scaricati sulle spalle della società.
E si badi che la storia di Telecom è la storia di un intero settore, quello dei servizi pubblici, che è stato oggetto di processi di privatizzazione sia nelle aziende di respiro nazionale, sia nelle aziende che gestiscono servizi locali. I dati Mediobanca sulle principali imprese italiane ci dicono che negli ultimi dieci anni, questo settore è stato un enorme dispensatore di dividendi, appunto una mucca da mungere. (5) Innanzitutto in valore assoluto sotto forma di dividendi incassati; come dimostra la linea blu del grafico che segue, il flusso ha superato in alcuni anni i 10 miliardi di euro. Ma se si deducono i capitali freschi immessi dagli azionisti (sotto forma di aumenti a pagamento e sovrapprezzi versati) per definire un aggregato definito un po’ rozzamente “dividendi netti” (linea rossa) il risultato cambia di poco, il che significa che il flusso si è diretto solo dalla società agli azionisti, mai in senso inverso. E infatti il totale dei dividendi del periodo ammonta a oltre 60 miliardi, quello dei capitali immessi a 5, meno di 12 volte.

Telecom, una triste storia di capitalismo italianoDOSSIER
01.10.13
Marco Onado

Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007. Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

UN FINALE GIÀ SCRITTO

La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI

La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.

NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI

Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.

CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA

Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debiti rappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.

IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO

Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. La cash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.

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Giovedì prossimo Bernabé uscirà per la seconda volta di scena e probabilmente si toglierà come nel 1999 qualche sassolino dalla scarpa con una lettera ai dipendenti (l’altra volta aveva facilmente previsto che con Colaninno non si sarebbe data stabilità azionaria alla società) ma fra le sue due dimissioni si è consumato un declino di Telecom che sarà ben difficile rovesciare, anche perché l’aumento in prospettiva del peso di Teléfonica non si sa quali vantaggi industriali porterà, mentre costringerà a cedere le partecipazioni sudamericane. Il che, a parte le conseguenze reddituali, farà di Telecom un’azienda esclusivamente domestica concentrata su un business vecchio. Allegria.
E tutto perché in quasi quindici anni di gestione da parte dei capitalisti privati italiani più o meno coraggiosi, i soldi sono serviti solo per pagare gli azionisti uscenti e quando si è scelto uno strumento di mercato, cioè l’opa, i soldi erano rigorosamente degli altri, cioè presi a debito e subito scaricati sulle spalle della società.
E si badi che la storia di Telecom è la storia di un intero settore, quello dei servizi pubblici, che è stato oggetto di processi di privatizzazione sia nelle aziende di respiro nazionale, sia nelle aziende che gestiscono servizi locali. I dati Mediobanca sulle principali imprese italiane ci dicono che negli ultimi dieci anni, questo settore è stato un enorme dispensatore di dividendi, appunto una mucca da mungere. (5) Innanzitutto in valore assoluto sotto forma di dividendi incassati; come dimostra la linea blu del grafico che segue, il flusso ha superato in alcuni anni i 10 miliardi di euro. Ma se si deducono i capitali freschi immessi dagli azionisti (sotto forma di aumenti a pagamento e sovrapprezzi versati) per definire un aggregato definito un po’ rozzamente “dividendi netti” (linea rossa) il risultato cambia di poco, il che significa che il flusso si è diretto solo dalla società agli azionisti, mai in senso inverso. E infatti il totale dei dividendi del periodo ammonta a oltre 60 miliardi, quello dei capitali immessi a 5, meno di 12 volte.

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L’unico dato in crescita è quindi il rapporto fra oneri finanziari e margine lordo (istogrammi del grafico) che passa dal 36 al 90 per cento. Ovviamente, Telecom pesa molto in questi dati, ma è evidente che le fragilità che hanno piegato quello che fu il colosso delle telecomunicazioni sono comuni a molte aziende del settore e dunque neppure un comparto come quello dei servizi pubblici, relativamente protetto dai venti della concorrenza internazionale può considerarsi esente da problemi. E la causa, alla fine, è sempre la stessa: le imprese interessano soprattutto se assicurano un flusso di dividendi, possibilmente facile e i capitali servono a comprare il controllo da altri capitalisti, non a irrobustire patrimonialmente le società.

Forse, per risolvere i problemi nazionali, anziché partire dalla riforma del lavoro, bisognerebbe cominciare dalla riforma del capitale.

(1) Giuseppe Oddo e Giovanni Pons, L’affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della seconda Repubblica, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.
(2) I dati sulla società sono tratti dalla pubblicazione Mediobanca Le principali società italiane, disponibile sul sito www.mbres.it.
(3) Si veda il libro di Oddo e Pons, pag. 282.
(4) Pag. 201 del libro di Oddo e Pons.
(5) Mediobanca, Dati cumulativi di società italiane, Milano, agosto 2013. Disponibile al sito www.mbres.it. Va ricordato che i dividendi indicati per ciascun anno sono quelli deliberati (quindi pagati nell’anno successivo