→ ottobre 28, 2013

Intervista di Federica Meta a Tommaso Valletti
Secondo l’economista “agitarsi” attorno al tema della sicurezza e dell’occupazione “è tipico di un mondo che vuol conservare lo status quo e vuole trovare pretesti da dare in pasto al grande pubblico”. Le operazioni fatte in difesa dell’italianità “servono solo a trasferire risorse”
L’italianità della rete? Un grimaldello. Lo scorporo? Avrebbe un vantaggio per il Paese, a patto che avvenga in un quadro di regole certe. Tommaso Valletti, ordinario di Economia all’Imperial College London e all’università Tor Vergata di Roma, analizza gli scenari economici e industriali legati all’operazione Telefonica.
Come giudica l’operazione Telefonica su Telco?
Per analizzarla vanno considerate tre questioni diverse tra loro: i debiti di Telco, il prezzo pagato da Telefonica e le conseguenze per Telecom Italia.
Andiamo nel dettaglio.
I debiti ci sono da oltre dieci anni, in parte per via dei giochi di potere tipici del nostro capitalismo, le famose “operazioni di sistema”. Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo che nel passato si erano prestate volentieri a questo gioco, ora non sono più disposte ad investire. Per cui c’erano poche alternative alla salita degli spagnoli. Sul prezzo pagato, Telefonica ha fatto un buon affare dato che ha acquisito il controllo di Telco con pochi spiccioli. Ma questo lo consente la legge italiana sull’Opa che non tutela affatto gli azionisti di minoranza.
Le conseguenze per Telecom quali saranno a suo avviso?
La compagnia dovrà probabilmente dismettere, per motivi antitrust, le attività in Sud America. Ovviamente queste operazioni non avranno ricadute dirette sull’Italia, trattandosi di mercato separati. Ma comunque spiegano l’interesse di Telefonica per Telecom. Analizzando il mercato italiano, invece, non mi aspetto grandi cambiamenti: Telefonica, dal punto di vista industriale, è una società simile a Telecom Italia, più grande forse, ma con un volume di indebitamento simile. Le sinergie tra mercati sono poche, visto che le due società operano su mercati con connotazione geografica molto spinta. Semmai, se il mercato riconoscerà a Telefonica un minor rischio rispetto a Telecom Italia, il costo del capitale potrebbe diminuire e gli investimenti crescere un pochino.
L’operazione ha riacceso il dibattito sull’italianità della rete. Secondo lei ha un senso difenderla?
Assolutamente no. Gli spauracchi che si agitano sulla sicurezza e sull’occupazione sono tipici di un mondo che vuol conservare lo status quo e trova pretesti da dare in pasto al grande pubblico. È talmente ovvio che tutte le operazioni per difendere l’italianità che abbiamo fatto sino ad oggi – Alitalia in testa – non hanno comportato altro che il trasferimento di risorse dalla tasche dei cittadini a quelle di qualche gruppo privato.
Ma perché ci ricaschiamo ogni volta, allora?
Ci deve essere un errore di comunicazione o di informazione. Nel caso specifico non cambia nulla sulla sicurezza delle rete, checché ne dica il Copasir. Voglio dire che se la rete era già poco sicura, lo rimane. E poi mi pare che la memoria sia corta: problemi di sicurezza ce ne sono stati durante la gestione dell’italianissimo Marco Tronchetti Provera.
Altro tema sotto i riflettori è lo scorporo della rete. Ha ancora un senso strategico e/o economico?
Lo scorporo non ha un senso strategico per TI perché è l’asset non replicabile più importante che possiede, anche se ovviamente tutto dipende dal “prezzo”: se venisse “strapagata” la rete, ovvio che gli azionisti ci guadagnerebbero. Potrebbe avere un senso economico per il Paese: senza separazione vi è il rischio che l’operatore integrato verticalmente metta in atto comportamenti anti-competitivi nei confronti dei rivali a valle; cosa puntualmente sanzionata dall’Antitrust. Con la separazione invece questi comportamenti verrebbero meno. Detto questo, i problemi che vedo legati allo scorporo superano i vantaggi.
In che senso?
Bisogna chiedersi chi stabilisce il prezzo? A chi spetta il controllo della rete separata? Sotto quali regole di accesso? Domande regolarmente eluse nel dibattito attuale, perché tacciate di mera “tecnicalità”, ma talmente importanti da non poter avviare alcuna discussione altrimenti. Uno scorporo così vago non lo considero altro che un modo di ripianare debiti privati con risorse pubbliche – nel caso il pubblico si presti a partecipare in qualche modo, lasciando eventualmente il controllo effettivo della rete nelle mani di TI – senza risolvere alcun collo di bottiglia. Le operazioni di scorporo sono delicatissime e hanno bisogno di tempo, esperienza e risorse di altissima qualità. Non mi sembra ci siano i presupposti nel nostro paese.
I sindacati chiedono di non fare lo spin off, ma di puntare ad un aumento di capitale, anche riservato a Cdp. La proposta può avere un senso?
Non credo che la Cdp abbia le competenze per gestire una rete nazionale. E mi si perdoni il leit motiv: Cdp è esattamente il canale che serve alla classe politica affamata di spazi da occupare e nomine da controllare.
È partito l’allarme occupazione. C’è il rischio di perdere posti di lavoro?
Dipende dagli investimenti: se questi salgono, anche l’occupazione ne potrà risentire positivamente. Non mi aspetto molto da Telefonica, ma sono leggermente ottimista. Non posso dimenticare che gli investimenti di Telecom negli ultimi anni son stati sotto la media europea, quindi spero che si possa invertire questo andamento. Basta prendere statistiche “neutrali”, e non di parte: secondo la Digital Agenda Scoreboard 2013 della Commissione Europea, l’Italia è ultima come rapporto Capex/ricavi tra i 18 paesi analizzati (12,2%, la metà del Regno Unito ndr). Siamo anche ultimi come copertura della Nga e sempre nella parte molto bassa della classifica per la penetrazione della banda larga. Solo nel mobile ce la caviamo bene.
Governo e Parlamento stanno lavorando – rispettivamente – alla golden power e alla revisione della legge sull’Opa. La strategia scelta per stoppare Telefonica la convince?
La legge sull’Opa andrebbe cambiata, a prescindere dall’operazione Telefonica. Sulla golden power il mio giudizio è negativo. L’interferenza politica è una delle cause dei nostri mali. Ma mette tutti d’accordo: capitalisti indebitati che non rischiano di proprio, sindacati che proteggono le proprie posizioni, il grande pubblico male informato che cerca rassicurazioni. Arriva la politica che fa da deus ex machina e salva l’italianità Un copione già visto. La golden power, dunque, non fa altro che guadagnare del tempo per cercare di trovare anche questa volta la “soluzione di sistema”.
→ ottobre 24, 2013

Adriano Prosperi
Col processo e con la condanna di Priebke l’Italia aveva dato una lezione di civiltà giuridica al mondo intero. Non vendetta, solo giustizia: una regolare estradizione dell’assassino delle Ardeatine dall’Argentina, un processo, la sentenza. E dopo la condanna la concessione dei benefici dell’età. Così l’antico capitano delle SS ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime. Ne ha fatto uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello. Dietro di lui intanto altri pensavano a come farne un’icona politica dopo il vicino decesso. A favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico. Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo. E subito dopo l’onore dell’Italia civile è stato salvato dal popolo di Albano Laziale. È fallito così il tentativo di una burocrazia cieca e di un manipolo di antisemiti in tonaca di inscenare una celebrazione del morto e del nazismo nei luoghi bagnati dal sangue delle vittime. Ma da qui le cose hanno preso la strada sbagliata. Dopo la collera immediata e sacrosanta del popolo di Albano è subentrata quella dei poteri statali, dei partiti, dei rappresentanti della comunità ebraica. Ora, l’ira è ottima consigliera quando si deve reagire all’ingiustizia: ma non è con l’inchiostro dell’ira che si possono scrivere le leggi. Una legge è qualcosa che si scrive con attenzione, pensando a quello che ne deriverà. Non si legifera a furor di popolo. Non per questo sono state create costituzioni liberali e rappresentanze elettive. Invece stavolta, a caldo, alla vigilia del 16 ottobre, è stato proposto in Parlamento un emendamento all’art. 414 del codice penale che estende la pena del carcere (da uno a cinque anni), già prevista per i colpevoli di apologia e istigazione di delitti anche a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità. Ora, di leggi sbagliate ce ne sono tante in Italia: e siccome si ricorre sempre e solo al carcere abbiamo in Italia la vergogna di carceri orrende che scoppiano di abitanti. Ma questa non è solo una legge sbagliata: una norma penale contro un reato di opinione non può entrare nel codice di un paese erede dei principi dell’Illuminiperasmo senza alterarlo in modo sostanziale. Quanto agli effetti di una simile legge basta guardare ai paesi che ne hanno già di simili. È bastata una sentenza austriaca contro David Irving per fare di un sedicente storico che nessuno prendeva sul serio in Inghilterra, un martire della libertà di pensiero. Il suo caso ha fatto scuola. Nella civiltà dello spettacolo ci sono legioni di aspiranti alla “visibilità” pronti a imitarlo. Lo scandalo è la via universale al successo. Una condanna per negazionismo è oggi un buon biglietto d’ingresso sul palcoscenico televisivo della cultura di massa. I più furbi lohanno capito subito: lo mostrano gli echi a caldo del caso Priebke. E dietro l’intellettuale che invoca il suo superiore diritto a dubitare ci sono masse di analfabeti civili stufi di rituali di una memoria subìta. Non per niente Georges Bensoussan ha scritto che «oggi la Shoah è talmente commemorata da generare insofferenza». Bisogna dunque, secondo lui, che dalla politica della memoria si passi alla politica della storia. Ebbene, proprio questo e non altro è il punto. Oggi con la scomparsa della generazione dei sopravvissuti ai lager sta venendo meno la loro opera di “testes veritatis”: un’o- preziosa, svolta vincendo resistenze profonde, sfidando la distrazione e il rifiuto di un mondo che già all’altezza del 1945 era preso da altre cose e voleva solo voltare pagina. Con altri strumenti si dovrà dunque affrontare la minaccia della dimenticanza e della negazione: due facce della stessa realtà, anche se la menzogna del negazionismo è immensamente più grave perché è la continuazione con altri mezzi della strategia nazifascista. Non fu per caso se notte e nebbia avvolsero lo sterminio: cancellare le tracce, disperdere le ceneri, furono le strategie di una deliberata amputazione della memoria. Se le potenze dell’Asse avessero vinto, se a Stalingrado i russi non avessero resistito, vivremmo in un mondo che non saprebbe nulla della Shoah. Non è andata così: e oggi nel mondo risollevatosi a fatica dall’abisso c’è una diffusa coscienza di ciò che ci spetta. Sappiamo che la memoria dell’accaduto, la conoscenza e lo studio infaticabile dei fatti sono la sola fragile difesa di una specie umana che non voglia ricadere nell’orrore. E, nonostante l’opinione diffusa, va detto che questo riguarda in particolare gli italiani. L’autoassoluzione che ci siamo generosamente impartiti ha lasciato tutto il peso dell’antisemitismo e della Shoah sulle spalle tedesche. Che cosa fecero o non fecero le autorità politiche e le guide religiose del paese mentre si scivolava sul piano inclinato della caccia all’ebreo e dello sterminio? Qui la ricerca è appena cominciata: non tutti gli archivi sono aperti, ma già, grazie per esempio alle scoperte di Giorgio Fabre e alle più recenti indagini di Lucia Ceci, è possibile rispondere alla domanda di come Mussolini riuscisse a tacitare Pio XI e a tirarsi dietro la Chiesa nell’operazione delle leggi razziali del 1938. Un’operazione con cui l’Italia fascista batté nel tempo la Germania. Quelle leggi ebbero il primo banco di prova nella scuola. Da qui dunque bisogna ripartire, dal luogo dove tutto è cominciato. Una scuola pubblica rinnovata, un sistema di conservazione e trasmissione di memorie e saperi – biblioteche, archivi, formazione di ricercatori e insegnanti – potrebbero essere le armi per far fronte al negazionismo e più ancora alla labilità della memoria dei popoli e degli individui. Ma l’impresa di una campagna di alfabetizzazione civile di un popolo inebetito dal consumo televisivo non è né facile né popolare. Più facile varare un’altra legge inutile.
→ ottobre 24, 2013

di Michael Stürmer
In Germania la negazione dell’Olocausto è punibile dal diritto penale, altrove no. Entrambe le soluzioni hanno importanti argomenti dalla loro parte. La libertà d’opinione è un bene prezioso, e segna la linea di demarcazione tra democrazia e dittatura. La dittatura non può sopportare opinioni devianti e nasconde verità scomode nella “neolingua” di Orwell. La democrazia segue certo il modello del mercato delle opinioni dove alla fine vince la verità e null’altro che la verità. Ma ildiktatdella political correctness, per essere onesti e franchi, non le è ignoto. La favola dei nuovi abiti dell’imperatore trova il suo posto da qualche parte tra democrazia e dittatura. La dittatura annuncia che l’imperatore indossa gli abiti più belli, la voce d’un bambino constata che l’imperatore è nudo. Ma lasciamo da parte favole antiche e nuovi costumi: la libertà d’opinione finisce, ove comincia ildiktat dei fatti. O almeno così dovrebbe essere, e invece non è così. L’ex presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il quale, ossessionato dall’odio non si limitava a giochi e parole, combinava la minaccia di annientamento nucleare contro lo Stato d’Israele con l’affermazione che non ci fosse mai stato un Olocausto, che tutto fosse stato nul-l’altro che un’invenzione sionista. Il suo successore Rohani, che sembra o è considerato il più civile tra gli ayatollah al potere, ha intanto rinunciato a mobilitare sul tema Israele, per non disturbare i negoziati sui controlli sugli armamenti nucleari e sulla riduzione delle sanzioni. Non è un nuovo passo nel processo d’approfondimento, eppure il possesso della vertià, della semiverità o della menzogna è in ogni momento un’arma nello scontro tra opinioni e poi nell’uso delle armi. Il negazionismo dell’Olocausto, ideologia statale in Iran e in parte del mondo arabo, mobilita i guerrieri della Jihad, aiuta a istituire dittature militari e cementa l’unità ideologica, là dove altrimenti già da tempo guerre civili avrebbero distrutto tutto. La Siria è l’ultimo esempio. Può la democrazia perseguire penalmente la negazione pubblica del genocidio industriale degli ebrei? E dovrebbe farlo? Il pericolo è che i negazionisti dell’Olocausto parlino con disprezzo del divieto loro imposto, e lo trasformino in presunta prova che una scomoda verità viene nascosta e coperta. Ma allo stesso tempo, comunità o società democratiche non possono permettere che la propaganda assassina circoli liberamente. L’odio razziale come follia individuale, tranne in casi estremi, è pressoche impossibile vietarlo, ma è ben possibile proibirlo come forza che consente di costituire partiti e movimenti politici. Ciò vale anche se ci proiettiamo verso l’esterno. Per Konrad Adenauer, Padre della Patria, nulla era più importante che il conquistare fiducia. Non soltanto la fiducia dei tedeschi nella democrazia liberale, bensì ancor di più la fiducia dei vicini verso la Germania. A tale scopo non bastarono né il Piano Marshall né la politica di “benessere per tutti” di Ludwig Erhard: ci volle anche da noi un processo di civilizzazione del discorso politico. Certo, Adenauer permise a molti ex “camerati” di restare o tornare attivi nella vita pubblica. Ma alla condizione di chiamare Crimini i Crimini de nostro passato. La libertà d’opinione, nei fatti, è un bene supremo della democrazia. Ma ha i suoi confini là dove lo Stato di diritto e la democrazia sono in pericolo.
→ ottobre 24, 2013

Intervista di Simonetta Fiori a Riccardo Pacifici
«Perché vogliamo la legge? È necessario fissare con chiarezza dove sta bene e dove sta il male. E se anche non servirà a fermare i negazionisti, può funzionare da monito per i più giovani». Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, illustra le sue ragioni. «Vorrei anche ricordare che l’Italia arriva come fanalino di coda dopo ben quattordici paesi. I primi furono Germania, Austria e Francia. Può sfuggire alla legge proprio il paeseche ha partorito il fascismo e le leggi razziali?».
Una delle obiezioni riguarda l’efficacia del provvedimento. I negazionisti sono farabutti, ma la legge è un argine debole.
«Le leggi non risolvono i problemi. Il crimine non è stato debellato nei paesi dove vige la pena di morte. E nonostante il furto sia reato, in Italia e anche altrove si continua a rubare. Le leggi però fissano dei paletti. E oggi, con la recrudescenza dell’antisemitismo, serve a fissare uno spartiacque tra qual è la parte del bene e qual è la parte del male. Penso al vasto pubblico degli spettatori indifferenti e ignari. E penso ai più giovani, che poco sanno: il reato di negazionismo potrebbe indurli a una riflessione».
Non c’è il rischio di fare pubblicità a tesi ignobili? Là dove la legge è stata approvata, i processi sono stati formidabili tribune mediatiche.
«Ben vengano i processi, se servono a far parlare di quel che accadde settant’anni fa. Il dibattimento sul boia delle Fosse Ardeatine è servito a tante persone per approfondire pagine di storia altrimenti dimenticate. Così i processi contro i responsabili delle stragi nazifasciste in Italia: perfino io ho scoperto episodiche ignoravo».
Ma un conto sono i processi contro i responsabili dei crimini, un conto i processi contro chi li nega. Si rischia di farne dei martiri.
«È importante che comunque si continui a parlare dello sterminio. È necessario soprattutto ora che vengono a mancare i sopravvissuti. Sono stato pochi fa giorni ad Auschwitz, e purtroppo per ragioni di anagrafe e di salute molti degli ex deportati sono dovuti restare a casa. Le assicuro che è davvero un’altra cosa: parlare con loro e senza di loro».
Non pensa che la scuola serva più di una legge?
«Ma è evidente che i tribunali non sostituiscono l’azione di prevenzione fatta dalle scuole, che resta comunque prioritaria. Il reato ha però un valore simbolico forte. E poi dovremmo adottare verso i siti che predicano negazionismo e odio razziale le stesse misure adottate nei confronti dei siti pedopornografici. L’accostamento può suonare sacrilego, ma serve per far capire che ci sono le condizioni per intervenire concretamente».
Molti intellettuali anche ebrei si oppongono alla legge per una ragione di principio: non si può limitare la libertà intellettuale.
«Sì, sono contento che ci sia questa discussione. In realtà noi sosteniamo la legge non per soffocare la libertà di opinione, ma per impedire che i negazionisti entrino nelle università italiane – come purtroppo è già accaduto – o nelle sedi istituzionali. Quando Faurisson fu invitato dall’università di Teramo, per fermarlo occorsero l’intervento di un bravo rettore e perfino l’ordinanza di un questore coraggioso. Con una legge, ci sentiremmo più tutelati ».
Cosa pensano gli ex deportati di questa nuovo provvedimento?
«Tutti quelli che ho sentito sono favorevoli. Con l’unica eccezione di Piero Terracini. Ma è stato lo stesso Terracini a dire: io non so perché neghino. So per certo che, se fossero vissuti settant’anni fa, sarebbero stati dalla parte dei carnefici. Anzi: sarebbero stati essi stessi carnefici. In poche parole, ha detto tutto».
→ ottobre 23, 2013

di Salvatore Bragantini
Telecom Italia (TI), con margini ancora alti ma grandi debiti, non è cosa per azionisti deboli quali Banca Intesa, Generali e Mediobanca. Il controllo di TI tramite la finanziaria Telco gli scottava in mano e lo cedono alla spagnola Telefonica. Questa però non pensa a svilupparla investendo anche in Italia, ma a spolparla pro domo sua in America Latina.
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→ ottobre 23, 2013

Intervista di Livia Zancaner a Salvatore Bragantini
Domani mozione in Senato per rafforzare poteri Autorità.
Dare alla Consob il potere di stabilire, caso per caso, il verificarsi di situazioni di controllo di fatto di una quotata, indipendentemente dalla percentuale acquisita, ‘è errato, perchè una legge di questo tipo c’era già, è stata un’esperienza negativa e per questo è stata superata’.
Salvatore Bragantini, commissario Consob dal 1996 al 2001, gli anni della maxi opa della Olivetti di Roberto Colaninno su Telecom (1999) e del passaggio alla Olimpia di Marco Tronchetti Provera (2001), è ‘contrario, nonostante la stima, alla mozione che presenteranno domani in Senato Mucchetti e Matteoli’ e ‘perplesso’, poichè la legge in vigore dal 1992 al primo semestre 1998 (legge 149/92) non fissava una percentuale per definire il passaggio del controllo, ma spettava alla Commissione decidere di volta in volta. Una situazione ‘difficile da gestire e da amministrare’, spiega Bragantini, superata poi con l’introduzione del Tuf nel 1998 che ha introdotto la soglia del 30% oltre la quale scatta l’opa obbligatoria.
L’ex commissario cita come esempio il caso Ferfin, ‘che, dato l’azionariato, aveva una soglia opa pari a zero: nel novembre del 1995 la Consob impose a Mediobanca di lanciare l’opa dopo l’acquisizione del 10,7% di Ferruzzi Finanziaria’. La proposta dei presidenti delle commissioni parlamentari Industria e Infrastrutture, Massimo Mucchetti e Altero Matteoli, arrivata sulla scia delle polemiche legate all’incremento della quota della spagnola Telefonica in Telco, la holding che con il 22,4% di Telecom riesce di fatto a blindare le assemblee, prevede di modificare il Tuf rafforzando i poteri Consob e aggiungendo alla soglia del 30% una seconda soglia ‘mobile’, legata al controllo di fatto. ‘Oltre all’insicurezza legata alla gestione, non condivido l’idea di scoraggiare in via preventiva possibili cambiamenti di controllo con l’introduzione di una soglia mobile. È sbagliato legiferare sotto la spinta dei singoli eventi: se la prossima volta ci accorgiamo che la soglia mobile ha impatti negativi, la modifichiamo di nuovo?’ Senza contare che anche nel 2007, quando vi fu il passaggio delle azioni Telecom da Olimpia a Telco senza passare dal mercato, furono sollevate le stesse discussioni sulla possibilità di modificare la legge sull’opa, per poi concludersi con un nulla di fatto. ‘La questione Telefonica, che da gennaio 2014 ha la facoltà di salire al 100% di Telco, non deve essere affrontata così, ma in un altro modo: Telecom ha semplicemente bisogno di un aumento di capitale. Il consiglio di amministrazione dovrebbe avere il coraggio di approvare l’aumento di capitale, che passerebbe quindi dall’assemblea dei soci. A quel punto Telco dovrebbe essere esclusa per conflitto di interesse. L’alternativa alla ricapitalizzazione, che Telco non vuole, e’ la vendita delle attivita’ sudamericane, ipotesi che costringerebbe la società a vendere i pezzi migliori’.