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→  gennaio 22, 2014


di Raffaele Bonanni

Caro Direttore,
solo alcuni organi di informazione (tra cui Il Sole 24 Ore) hanno saputo valorizzare la svolta storica rappresentata dall’accordo sulla rappresentanza tra le tre maggiori Confederazioni sindacali e Confindustria. Una straordinaria “riforma istituzionale” che sana un ‘vulnus’ sulla certificazione della rappresentatività sindacale che esisteva fin dal varo della Costituzione repubblicana.

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→  gennaio 12, 2014


di Antonio Foglia

Con un efficace paragone, l’economista Luigi Zingales ricorda che l’euro è un progetto analogo alla Conquista del Messico da parte di Cortes che si bruciò le navi alle spalle per impedire ogni tentazione di ritirata ai suoi uomini. Quando partì l’euro, chi lo volle sapeva che si trattava di un progetto incompleto che avrebbe probabilmente avuto bisogno di importanti aggiustamenti. Il vertice europeo del giugno 2012 mise a fuoco quelli più urgenti.

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→  dicembre 20, 2013

di Stefano Feltri

Il senatore del Pd Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, è preoccupato per il destino di Telecom e soprattutto è molto perplesso per come si è comportato il governo. A parole Enrico Letta approvava il progetto bipartisan di modifica della legge sull’Of – ferta pubblica di acquisto, per costringere Telefónica a spendere qualche miliardo, se proprio vuole il controllo dell’azienda italiana, remunerando i piccoli azionisti e non solo il salotto buono. Ma Palazzo Chigi ha boicottato la modifica promossa da Mucchetti, affondata due giorni fa in Senato: “La riforma dell’Opa viene per l’en – nesima volta sospesa, ma non cancellata: la non ammissibilità riguarda il provvedimento sugli Enti locali cui era agganciata”. Forse prima o poi si farà, ma è troppo tardi per evitare che Telecom vada agli spagnoli per pochi spiccioli. Senatore Mucchetti, partiamo dall’inizio. Dopo l’annuncio dell’accordo Telco, il 24 settembre, il Senato fa le audizioni del caso e il 17 ottobre approva una mozione per la riforma dell’Opa obbligatoria. Il governo è un po’ per – plesso, ma non rischia il confronto. Si rimette all’aula, che dà un consenso plebiscitario alla mozione. Pochi giorni dopo, ecco un emendamento al decreto Imu che dà corpo alla mozione. Il governo, prima in commissione, poi in aula, chiede il ritiro dell’emendamento per evitare una terza lettura del decreto alla Camera. Si accetta solo perché il governo afferma di condividere gli argomenti del Senato e a provvedere “in tempi brevissimi”, testuale. Invece niente, nessun decreto sull’Opa. Passano le settimane, noi ripresentiamo, migliorato, l’emendamento. Questa volta alla legge di Stabilità, ma la commissione Bilancio del Senato non riesce a completare l’esame del disegno di legge. La proposta viene riagganciata al decreto per gli Enti locali. Nel frattempo, Marco Causi, deputato del Pd, la propone alla Camera, ma è dichiarata non ammissibile dalla commissione Bilancio (presieduta dal lettiano Francesco Boccia, ndr). E ora di nuovo inammissibile al Senato. Sono passati quasi tre mesi e la riforma resta al palo senza che il governo accetti un confronto pubblico. Non demorderemo, ma temo ormai che arriveremo tardi. Perché Letta è contrario a una riforma della legge sull’Opa che ostacolerebbe l’operazione di Telefónica? Il governo avrebbe preferito che, alla soglia fissa del 30 per cento oltre la quale scatta l’obbligo dell’Opa e che si è dimostrata inefficace, si aggiungesse una seconda soglia anch’essa fissa e non una legata al controllo di fatto, quando questo derivi da una partecipazione inferiore al 30 per cento ma superiore al 15. Sul piano politico, il governo avrebbe voluto un provvedimento che entrasse in vigore non prima del maggio 2014 così da non avere influenza sull’affare Telecom. In ogni caso, la convinzione del governo è così blanda che non è mai stata oggetto di una sua iniziativa. Un compromesso era possibile? Era già pronto un testo B con la seconda soglia fissa al 15 per cento. Ma Letta non vuole un provvedimento immediatamente esecutivo. Sarebbe, a suo avviso, un intervento su una partita in corso che scoraggerebbe gli investimenti esteri. Questa obiezione di Letta è fondata? È una preoccupazione che avevamo anche noi. Ma non è fondata. Il contratto Telco non prevede una data per il closing. Non si danno partite senza che si sappia quando l’arbitro fischia la fine. E non c’è passaggio del controllo fino a quando Telefónica non si attribuirà i diritti di voto sulle nuove azioni Telco acquisite il 24 settembre. Investimenti esteri: Telefónica, in Telecom dal 2007, si è sempre opposta a un aumento di capitale che abbattesse il debito, frutto delle speculazioni degli azionisti maggiori. Senza risorse, di quali investimenti parliamo? La Commissione Caio scoprirà che la rete fa acqua. Sarà una conferma autorevole. E poi? Telefónica non mette un euro in Telecom ma dà una mancia a Intesa, Mediobanca e Generali. Starei attento a non fare regali, quando si trovasse il modo di estrarre la rete da Telecom per farvi investire lo Stato. Letta sta lasciando andare Telecom per mantenere buone relazioni con Generali, Mediobanca, Intesa e con gli spagnoli, visto che è animatore del forum Italia-Spagna? Questo lo dice lei. Io credo alle motivazioni che Letta ha dato, ancorché non le condivida. Anche Mediaset vuole mantenere buoni rapporti con Telefónica, viste le operazioni sulla pay tv che hanno in discussione in Spagna… Non vedo come Mediaset possa condizionare Letta, essendo Forza Italia all’opposizione. L’assemblea dei soci di oggi potrebbe ribaltare la situazione? Molto dipenderà dalle scelte di BlackRock. Tutto lascia credere che il fondo Usa giochi con Telefónica, di cui è il primo socio non bancario. Come potrebbe sfiduciare il consiglio di Telecom che l’ha appena beneficato con il prestito convertendo? Un fondo autonomo avrebbe interesse a un ribaltone che renda contendibile Telecom. Che conseguenze avrebbe un eventuale concerto con gli spagnoli, alle spalle del mercato? Un accordo sottobanco tra Telefónica e BlackRock andrebbe provato dalla magistratura cui Consob ha passato le carte. Comunque, con Telefónica, BlackRock potrebbe ricavare benefici se appoggerà l’uscita di Telecom dal Brasile. Che cosa sta succedendo in Brasile? La banca d’affari brasiliana Pactual sta preparando un’offerta su Tim Brasil per ripartirla tra Telefónica, America Movil e Oi-Portugal Telecom. Quando arriverà l’offerta, Telecom l’accetterà riducendo Tim Brasil a un mero fatto finanziario o la lascerà cadere perché intende restare multinazionale? Se Telecom venderà, BlackRock potrà cedere bene la sua quota agli spagnoli restando sotto il 30 per cento. A quel punto si arriverà alla fusione per incorporazione di Telecom Italia in Telefónica, controllante de facto, a concambi azionari che lascio immaginare. Nessuno me l’ha detto, ma è lo scenario che temo. Esistono alternative a Telefónica? Certo. Telecom può anche andare avanti da sola con un vero aumento di capitale. In seguito, potrà partecipare ai processi di concentrazione delle telecomunicazioni lungo l’asse renano. Sommare i debiti di Telecom Italia a quelli di Telefónica, invece, non creerebbe ricchezza ma un debito più grande. Anche Orange e Deutsche Telecom hanno forti esposizioni debitorie, ma il rischio Germania e il rischio Francia sono inferiori al rischio Italia e al rischio Spagna. Dobbiamo decidere se stare nel Mediterraneo o giocare in Serie A.

→  dicembre 17, 2013


di Massimo Mucchetti

Faccio appello al premier e al segretario del Pd, dalle colonne de l’Unità, affinché rompano gli indugi e battano un colpo per salvare Telecom Italia dalle opache mene di un concorrente, Telefonica, o quanto meno costringano tale insidioso soggetto a pagare il dovuto lanciando un’Opa per contanti rivolta a tutti gli azionisti. Non che questo garantisca troppo, ma almeno la triste fine della madre di tutte le privatizzazioni costerebbe qualcosa al beneficiario finale e non si sarà risolta in un mancia, elargita dall’hidalgo Alierta, ai tremebondi signori di Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca d’intesa con Mediaset.

E guardino, Letta e Renzi, che l’evocazione di Mediaset non è una svista travagliesca.

Sono perfettamente consapevole che questo appello ha poche probabilità di essere accolto. Enrico Letta non è mai venuto in Parlamento a illustrare la linea del governo e a rispondere alle perplessità che essa suscita. Si è limitato a poche parole di maniera: un po’ poco per chi dice di voler fare politica industriale. Matteo Renzi ha fatto una battuta a «Servizio Pubblico» che ho dimenticato. Ma chi presiede la commissione Industria del Senato, interpretando peraltro un’opinione multipartisan, ha il dovere di parlare chiaro anzitutto ai leader del governo e del partito che sostiene.

Inerzia ingiustificata
L’inerzia del governo e del Pd non si giustifica con il rispetto del mercato in un mondo nel quale i governi intervengono pesantemente nell’economia. È dei giorni scorsi la notizia che il Tesoro Usa ha perso 11 miliardi di dollari investendo in azioni Gm. Ha fatto male? No. Ha dimostrato di avere coraggio e visione, perché oggi Gm è tornata grande e genera gettito fiscale.

Con la loro pseudo neutralità, Letta e Renzi stanno commettendo lo stesso errore che commise D’Alema nel 1999. L’allora premier postcomunista non fu responsabile di una privatizzazione sbagliata di Telecom, come ha detto Renzi. La privatizzazione la fecero Ciampi e Draghi due anni prima, e qui non abbiamo lo spazio per raccontarla come si deve. D’Alema non fece votare il Tesoro, ancora nel 1999 maggior azionista singolo di Telecom, nell’assemblea chiamata dal management per varare misure anti scalata, che sarebbero state possibili al raggiungimento del quorum. L’avesse fatto, sarebbe stato difficile per la Banca d’Italia, altra azionista Telecom, chiamarsi fuori e anche qualcun altro in Italia si sarebbe posto il dubbio se quell’Opa facesse davvero gli interessi dell’azienda. Forse non sarebbe stato sufficiente a raggiungere il quorum o forse sì.

Certo, la neutralità di D’Alema, che pure aveva la responsabilità di proteggere il valore della partecipazione Telecom del Tesoro, favorì gli scalatori e aprì le porte alla politica del debito, esaltata poi da Tronchetti Provera, e alla cristallizzazione del controllo di fatto in una scatola finanziaria, poi passata di mano più volte senza nulla dare ai soci di minoranza e ogni volta aggravando le condizioni dell’azienda.
Ora, non si può criticare D’Alema, che pure operava all’indomani dell’approvazione delle norme sull’Opa obbligatoria, e dunque si trovava in fase sperimentale, e poi seguire la stessa posizione ponziopilatesca quindici anni dopo, quando la legge sull’Opa che ha dimostrato tutte le sue fragilità e quando la sequenza delle diverse proprietà ha fatto i danni che sappiamo a Telecom.

Di più, non si può girare la testa dall’altra parte quando il fondo di private equity americano Blackrock, grande azionista di Telefonica e consulente ben remunerato di Intesa Sanpaolo, viene favorito dal management insediato dagli spagnoli e dai loro sodali italiani in modo smaccato e sospetto con l’attribuzione di una parte cospicua del convertendo senza seguire le procedure che regolano i rapporti tra parti correlate. Non si può considerare normale che Blackrock informi prima l’americana Sec del suo rastrellamento azionario in Telecom Italia e si faccia richiamare all’ordine dalla Consob. Non si può far escludere dalla commissione Bilancio della Camera l’emendamento sull’Opa per estraneità di materia (che, invece, al Senato era stata concessa) per evitare un confronto alla luce del sole e poi, nottetempo, infilare nella legge di Stabilità un emendamento sulla Consob, quasi a volerla commissariare mentre sta cercando di far luce sulle molte oscurità del caso Telecom.

Il premier Letta dice che non si interviene in una partita in corso. Ma si ricorda che cosa fece il governo di Madrid in occasione del tentato take over di Endesa da parte della tedesca E.On? E si ricorda come Enel ci arrivò, bussando a tutte le porte e pagando tutto a tutti? Di quale partita si parla se il contratto, siglato il 24 settembre 2013 tra i soci di Telco, non prevede nemmeno una data per il closing? Si è mai vista una partita dove l’arbitro dà il fischio di inizio ma nessuno sa quanto deve durare? Se il closing avviene tra 5 anni, restiamo fermi 5 anni aspettando Godot? Il presidente della Consob, dice che si può modificare la legge sull’Opa senza che si possa parlare di effetti retroattivi fino a quando Telefonica non avrà la maggioranza dei diritti di voto in Telco. Perché palazzo Chigi fa finta di niente?

Ansia di compiacere
C’è forse una sfiducia preventiva nella Consob di Giuseppe Vegas perché Vegas è stato nominato da un governo Berlusconi. Eppure, l’impegno di Forza Italia sul fronte Telecom sembra al momento non andare oltre l’impegno generoso e intelligente dei senatori Gasparri e Pelino. Mi risulta che Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, non condivida le modifiche all’Opa.

E poi leggo sul Sole 24 Ore che Mediaset sta studiando con Telefonica un’offerta comune per la pay-tv iberica Digital Plus. Che cosa deve pensare una persona normale? Che cosa penseranno i militanti del Pd che sperano di girare pagina?

Non capisco quest’ansia di compiacere un soggetto come Telefonica in nome dell’attrazione degli investimenti esteri. Telefonica non sta mettendo un euro in Telecom Italia. E non l’ha mai messo prima. Anzi è perfettamente corresponsabile della carenza di investimenti dell’ex monopolio, dovuta ai debiti fatti dai suoi «padroni», non dall’azienda. Certo, Telefonica dà qualche denaro a Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca. Ma allora vediamola dalla parte dei venditori, questa storia. E allora, di nuovo ci vuole chiarezza. Su sua richiesta ho ricevuto il presidente delle Generali, Gabriele Galateri, dopo l’annuncio del 24 settembre.

Per scoraggiarmi dal proseguire con la riforma dell’Opa obbligatoria, che potrebbe costringere il suo amico Cesare Alierta a mettere mano al portafoglio se vuol comandare, Galateri ha detto di aver avuto via libera da chi di dovere prima del 24 settembre. Letta mi ha sempre detto di non averne mai saputo nulla. E questo il governo ha detto in Senato. Quali sono i poteri occulti che hanno dato via libera al presidente delle Generali oppure questi viene in Senato a millantare?

Una caricatura di mercato
Caro Letta, caro Renzi, fermate questa brutta giostra. Che è una caricatura di mercato. Prima che, magari, qualche magistrato scopra un concerto tra spagnoli e americani degno di quelli del banchiere Fiorani sulla pelle di una delle maggiori aziende italiane, non di una media banca com’era Antonveneta. Date via libera, anche se forse ormai è tardi, alla riforma dell’Opa. E non diteci che bisogna studiare di più. Sono passati tre mesi e non avete mosso un dito. E non diteci, quando riformate la Banca d’Italia per decreto in 10 giorni perché i disegni di legge rappresentano un binario morto, che qui ci vuole un disegno di legge.

→  dicembre 13, 2013


di Luca Ricolfi

Che Renzi abbia vinto le primarie del Pd e ne sia diventato il segretario è un fatto positivo. Renzi, infatti, è l’unico leader dal quale è ragionevole aspettarsi due risultati: primo, la fine della stagione immobilista del governo Letta, finora colpevolmente tollerata da Pd e Pdl; secondo, la rinuncia a percorrere scorciatoie anti-istituzionali, che sono invece la perenne tentazione di Berlusconi, Grillo e Lega, ossia di circa metà del Parlamento.

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→  dicembre 13, 2013


di Paolo Flores d’Arcais

Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo di domenica mi accusa di “evidente contraddizione” per una interpretazione della Costituzione che ho avanzato in un trascorso numero di MicroMega (“Realizzare la Costituzione”, ormai non in edicola ma disponibile sul sito di micromega.net), che sarebbe “eversiva alla radice dell’ordine repubblicano” e “premessa per una sorta di guerra civile” e le cui “forsennate conseguenze” implicherebbero la volontà di “messa al bando per decreto” per tutti coloro che non la condividano, vale a dire “la parte riottosa ai suoi [cioè miei] precetti”, parte su cui “naturalmente” calerei ipso facto l’accusa di “fascismo”, con cui del resto bollerei “la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale” (per quest’ultima accusa Galli usa la formula dell’interrogativo retorico).

Questa ricca giaculatoria di anatemi, solo per aver io ricordato quanto la Costituzione solennemente pone a fondamento della nostra convivenza civile. Se con l’art. 4, ad esempio, “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ne deriva proprio la conseguenza logica, come ho scritto su MicroMega, che “diventerebbero estranei e nemici della Repubblica” i governi che non operassero per la piena occupazione. Se con l’art. 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione … in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ne deriva la conseguenza logica che ostili alla Costituzione sono parlamentari e ministri che agiscano secondo politiche difformi da questo imprescindibile obiettivo (prosternandosi ai diktat di Marchionne, ad esempio). Se con l’art.37 “le condizioni di lavoro devono … assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, è conseguenza logica, scrivevo, che vada “contro la Costituzione ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido” (Galli chiosa: “a tutti i bambini, immagino”. In effetti solo a loro pensavo, ma il suo articolo mi ha inoculato un dubbio).

Se l’art. 42, recitando che “la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, pone per ben due volte la proprietà privata in una posizione subordinata a quella pubblica, aggiungendo esplicitamente che “la legge ne determina [della proprietà privata] i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, ne consegue logicamente che sono fuori e contro la Costituzione le forze politiche ostili a perseguire il primato della “funzione sociale” rispetto al diritto proprietario dei privati (questo “terribile diritto”, come lo definisce un libro di Rodotà proprio in coerenza con la Costituzione). Tanto è vero che (art. 43) è previsto anche l’esproprio “salvo indennizzo” non specificato e funzionale “a fini di utilità generale”.

Non riproduco gli altri esempi fatti su MicroMega. Trovo francamente curioso che agli occhi e alla “logica” di Galli tutte queste inoppugnabili conseguenze logiche appaiano costituire una “evidente contraddizione”.

A meno di non tornare alla contrapposizione tra norme programmatiche e norme precettive con cui la Corte di Cassazione fino a tutto il 1955, zeppa di magistrati ossequienti al regime fascista e applicando norme fasciste a go go, riuscì a impedire che la Costituzione fosse davvero vigente. La sentenza numero 1/1956 della Corte Costituzionale poneva fine a questa prevaricazione giuridica, e da allora, con sempre maggiore chiarezza, sentenze della Corte e dottrina pressoché unanime evidenziano come le norme programmatiche della Costituzione non siano “libri dei sogni” o innocui “castelli in aria”: non sono direttamente e immediatamente precettive in quanto da sole non possono dar luogo a sanzioni, ma sono inequivocabilmente prescrittive nei confronti del legislatore, a cui detta le coordinate cui deve uniformarsi il lavoro parlamentare, e nei confronti dei tribunali, che devono interpretare le leggi alla luce della Costituzione.

Gli articoli della Costituzione non sono dunque “inapplicabili”, come sentenzia Galli, costituiscono anzi la strettissima via maestra all’interno della quale devono muoversi legislativo esecutivo e giudiziario se vogliono mantenersi fedeli al Patto che fonda la nostra convivenza, “giurato da uomini liberi” che venivano dalla prigione, dall’esilio, dalla lotta armata contro il fascismo. A cui dobbiamo una delle Costituzioni più avanzate del mondo, e che la vollero rigida, cioè particolarmente ardua da modificare, proprio per impedire che ne fosse stravolto o edulcorato l’imprinting.

La nostra è infatti una Costituzione che trasuda “giustizia e libertà” quasi da ogni articolo (non l’art.7, ovviamente). Per questo non piace a Galli. Il quale non l’avrebbe “a gran dispitto” se non comportasse le logiche conseguenze che ho richiamato. Del resto lo confessa, seppure con qualche obliquità: “effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo”.

Proprio per questo l’establishment del berlusconismo e dell’inciucio, nel suo ventennio che forse si chiude, ha provato a stravolgerla: con le nomine di giudici costituzionali che sperava corrivi, o con comitati di controriforma. Inutilmente, fin qui.
Galli chiede polemicamente a Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky cosa pensino del mio atteggiamento “ferocemente divisivo”. Per certo don Luigi Ciotti, dal palco della manifestazione ricordata da Galli, ha usato l’espressione “Costituzione tradita” almeno sei o sette volte. Per questo resta un programma politico attualissimo. Purtroppo, visto che la nostra Costituzione antifascista dovrebbe essere l’orizzonte comune a tutti i cittadini e a tutti i politici.

Antifascista, sì. Galli sa perfettamente che ogni norma trae legittimità da una norma di livello superiore, per cui, se si vuole evitare regresso all’infinito o legittimazione circolare, la norma fondamentale (la Grundnorm di Kelsen) che regge l’intero sistema deve avere carattere extra-giuridico. Tutte le norme traggono in definitiva la loro legittimità dal fatto storico che ha dato vita a una Costituzione. Per quella Americana è la rivoluzione per l’Indipendenza, per la nostra è la Resistenza antifascista e la sua vittoria il 25 aprile, che le tre partigiane in armi della copertina di MicroMega simboleggiano.

Se la Resistenza antifascista è – come inoppugnabilmente è – la Grundnorm del nostro patto di convivenza, un ovvio sillogismo ci dice che il rifiuto dell’ethos antifascista mette a repentaglio la legittimità del nostro intero ordinamento giuridico. Ma è solo nella fantasia di Galli che io dia del “fascista” a tutti coloro che si sentono estranei o ostili alla nostra Costituzione. Non mi sognerei mai di definire fascista la signora Thatcher (e neppure Ostellino o altri editorialisti di questo giornale), ma benché non fascista la politica economico-sociale della prima resta radicalmente incompatibile con la nostra Costituzione repubblicana, verso la quale del resto l’inimicizia di Ostellino è dichiarata, reiterata e perfino ostentata.

Perciò da parte mia nessuna “geremiade sulla non avvenuta attuazione” della Costituzione, ma la consapevolezza che in Italia ci sono due grandi partiti trasversali, uno dei quali è nemico della Costituzione, e se cerca di cambiarla aggirandone il carattere rigido è anzi nemico eversivo. Da combattere con democratica intransigenza. Perché, finché c’è lotta c’è speranza.