→ Iscriviti

Archivio della categoria »Articoli Correlati« Segui questo argomento

→  febbraio 7, 2025


Presentazione Fondazione Corriere della Sera (Milano)



Un incontro realizzato dalla Fondazione Corriere della Sera. In collaborazione con il Consolato generale di Svizzera a Milano.
Intervengono Franco Debenedetti, Ferruccio de Bortoli, Fiona Diwan, Antonio Foglia, Claudio Giunta
“Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri 1943-1945” di Franco Debenedetti è pubblicato da Marsilio Arte.

→  gennaio 27, 2025


“Intervista a Franco Debenedetti sul suo libro “Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri 1943 – 1945″ (Marsilio Ed.)” realizzata da Michele Lembo con Franco Debenedetti (economista, saggista).

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Antifascismo, Antisemitismo, Debenedetti, Decessi, Donna, Ebraismo, Ebrei, Emigrazione, Fascismo, Fotografia, Germania, Giorno Della Memoria, Guerra, Italia, Libro, Lingua, Olocausto, Rifugiati, Segre, Storia, Svizzera, Violenza.

leggi il resto ›

→  gennaio 26, 2025


di Michele Novaga

Nel libro Due lingue, due vite: i miei anni svizzeri 1943-1945 il manager ed ex senatore della Repubblica italiana racconta il diario della fuga in Svizzera per sfuggire ai nazifascisti. Ma anche i tempi trascorsi da rifugiato con la famiglia a Lucerna fino alla fine della guerra e lo studio di una nuova lingua: il tedesco.

Nel novembre del 1943, la famiglia Debenedetti, di origini ebree, decise di darsi alla fuga data la situazione insostenibile in Italia creatasi soprattutto dopo l’8 settembre. Troppo pericoloso restare e non solo perché i bombardamenti avevano distrutto la loro casa e la fabbrica di famiglia. E così la Svizzera diventò il luogo scelto per la fuga: lì i Debenedetti potevano contare sull’aiuto di una famiglia di imprenditori di Lucerna con cui erano in affari. “Mia madre mi informò del piano di passare in Svizzera facendomi giurare che non lo avrei detto a nessuno tantomeno a mio fratello”, spiega a tvsvizzera.it Franco Debenedetti.

Il suo racconto è chiaro e dettagliato come la calligrafia con la quale scrisse quel diario di esule. Un prezioso documento di quella fuga verso la salvezza e dei tempi passati al sicuro da nazisti e fascisti che scrisse in quel periodo della sua vita dal 1943 al 1945 quando la famiglia fu costretta a rifugiarsi in Svizzera e lui era solo un ragazzino. “Mia madre diede a me e a mio fratello Carlo, più piccolo di me di due anni, dei quaderni con l’idea di farci scrivere tutti i giorni quello che stavamo vivendo sotto forma di diario” racconta “Grazie al diario ho fissato i miei ricordi di quel tempo”.

L’idea della pubblicazione del diario
Il manoscritto originale del diario di Franco Debenedetti, infatti, è un volume molto corposo arricchito dai ritagli dei giornali dell’epoca che raccontano dell’evoluzione della guerra su tutti i fronti, da cartine, cartoline, lettere che arrivavano dai parenti rimasti in Italia, disegni.

“L’idea di pubblicarlo nasce in occasione della “Giornata della memoria” del 2023 – spiega – allorquando l’insegnante di mio nipote mi chiese di raccontare i miei ricordi. Io feci delle fotocopie in A4 a fascicolo e ne feci stampare una ventina di copie. Poi, dopo che l’anno scorso mio fratello Carlo fece stampare da Treccani il suo diario di quell’epoca in copia anastatica, chiamai il mio amico editore Luca De Michelis della Marsilio dicendogli che anch’io volevo pubblicare il mio diario. Lui sposò l’idea suggerendomi però di farne un vero libro strutturato in capitoli che introducono al contenuto del diario”.

L’ingresso in Svizzera
Nelle prime pagine è raccontato nel dettaglio l’ingresso clandestino nella Confederazione illustrato da un disegno che ritrae una casetta e una recinzione con un buco dal quale la famiglia Debenedetti passò per entrare in Svizzera.

“C’era uno stretto buco in una rete. Io passai per primo, poi papà, poi Carlo e infine la mamma. Ma senza badare all’uomo che teneva la rete che diceva: ‘Calma, adagio non c’è fretta!’ Due passi su un fradicio ponticello in legno ed…eccoci in Isvizzera!. Era il giorno 9 novembre 1943, ore 17.25”.

Il primo mese a Lugano e l’”altra vita” a Lucerna
Poi da lì la famiglia fu condotta a Bellinzona per le visite mediche e l’interrogatorio. Il racconto insiste sul dormitorio dove passarono la notte in attesa di essere trasferiti all’hotel Richard e poi all’Hotel de la Paix di Lugano. Un passaggio reso possibile da un foglio in cui un impiegato di banca registrò i valori che la famiglia portò dall’Italia che vennero depositati a Bellinzona. “Così ebbe inizio la nostra quarantena che durò dal 3 novembre al 10 dicembre durante la quale potevamo uscire solo scortati in attesa di poter andare a Lucerna dai nostri amici Meyer Keller”, racconta ancora Franco Debenedetti. L’11 dicembre del 1943 l’arrivo a Lucerna nella pensione Ruttimann che divenne il loro domicilio per un anno e mezzo.

Come per il passaggio in Svizzera attraverso la rete della casa di Chiasso avvenuto grazie all’aiuto del direttore della dogana a cui il papà Debenedetti aveva pagato gli studi, l’arrivo a Lucerna fu reso possibile dalla famiglia di Otto Meyer Keller. “I Meyer Keller erano i proprietari della Metallschuchfabrik Luzern, mio padre era proprietario della Compagnia italiana metalli flessibili e tra loro e con la Metallschuchfabrik Pforzheim dei fratelli Witzenmann, vigevano intrecci, accordi commerciali e ottimi rapporti famigliari”.

L’apprendimento del tedesco in casa e a scuola
Fu proprio Adrienne, la sorella del proprietario della Metallschuchfabrik, colei che insegnò a Franco il tedesco e che si occupò di tutta la famiglia Debenedetti sin dal loro arrivo poco prima di quel Natale del 1943. “Per me era il primo Natale non italiano. Ma anche la prima volta che ammiravo l’albero con tutte quelle luci, le candeline, i fuochi artificiali dato che da noi si faceva solo il presepe. Scoprii anche le canzoni natalizie come Oh Tannenbaum e Stille Nacht, heilige nacht. Da allora anche per noi il Natale è diventato l’albero “svizzero” e il canto Stille Nacht è parte della tradizione”.

Adrienne diviene una figura chiave del soggiorno di Franco a Lucerna. Non solo gli insegna il tedesco ma lo intrattiene, gli fa fare delle gite, cucina per lui e la sua famiglia. “La prima al ginnasio cantonale iniziava un semestre dopo e cioè a Pasqua. In quei tre mesi imparai il tedesco grazia ad Adrienne che nonostante non avesse mai insegnato, inventò un metodo per farmi imparare il tedesco attraverso lo studio di dieci vocaboli al giorno”, racconta Debenedetti che, sul diario, quel 24 aprile del 1944 scriveva: “Ho fatto il mio primo ingresso alla scuola cantonale. Questa data segna un grande cambiamento nella mia vita”.

All’inizio delle lezioni scrive già in tedesco e l’anno successivo, all’indomani della fine della guerra, arriva a scrivere un tema di sette pagine intitolato “In attesa della pace” in cui fa un’analisi del conflitto data la sua passione per la storia e la strategia militare e che il suo professore fa trasmettere al giornale locale dove viene poi pubblicato. “Per me furono decisive le letture di giornali come Neue Zürcher Zeitung e Luzerner Tagblatt che raccontavano come stava andando la guerra dallo sbarco in Sicilia a quello in Normandia, all’ingresso dei sovietici a Auschwitz e pubblicavano le cartine con le strategie militari e i movimenti delle truppe”, aggiunge.

Svizzera terra di accoglienza
Dal timore di essere respinti alla frontiera come era successo per esempio a Liliana Segre e a suo padre e anche a due cugini di Franco Debenedetti perché “la barca è piena”, all’asilo temporaneo in Svizzera come internati, la sua vita si arricchisce di un’altra vita.

“La Svizzera era nel mio destino: andando in Svizzera ho acquisito un’altra lingua, un’altra cultura e un’altra vita come scrive Thomas Mann nel Doktor Faust”, dice aggiungendo che “l’accoglienza della Svizzera terra d’asilo è stata importante. A Lucerna sono tornato tante volte e mi sento come a casa”.

→  dicembre 16, 2024


War Room Books – Davide Giacalone discute con Franco Debenedetti



War Room, 07 febbraio 2025

Il diario di un ragazzo e la nostra storia
AMATE LINGUE OSTILI
Davide Giacalone ne discute con Franco Debenedetti, Ingegnere, Manager, Presidente Istituto Bruno Leoni, autore di “Due lingue, due vite” (Marsilio)

Guarda il video


«Invecchiare si può, ma proprio come Debenedetti



di Stella Pende, 04 febbraio 2025

Caro Corriere, per merito di Marco Pogliani, amico prezioso, ricevo ogni giorno una sua piccola rassegna stampa condita da commenti e canzoncine ad hoc. L’altro giorno ha segnalato una vostra intervista a Franco Debenedetti (Corriere, 2 febbraio), intellettuale, visionario e di più. Come raccontate, Franco Debenedetti ha 92 anni. Appare in foto con una ricca chioma candida, confessa di amare la montagna e lo sci. Quando voi insistete sulla rarità di umani che a quell’età possano concedersi il lusso di abitudini riservate alla giovinezza, lui vi risponde serafico: mangio di tutto e scivolo nel sonno.

Leggi il resto


Atto d’accusa



di Mattia Feltri, 04 febbraio 2025

In un libro molto bello, struggente, appena uscito per Marsilio Arte (Due lingue, due vite), Franco Debenedetti pubblica il diario che tenne oltre ottant’anni fa, quand’era un ragazzino di dieci e undici e dodici anni, in fuga con la famiglia dalle leggi fasciste e razziste.

Leggi il resto


Il «fuoco amico» di Franco Debenedetti sul fratello



di Gustavo Bialetti, 04 febbraio 2025

Gli anni passano e la famiglia De Benedetti, attaccato o staccato dipende dai fratelli, non si smentisce mai. Franco, 92 anni, e Carlo, fresco novantenne, amano farsi intervistare e dire la loro sul mondo. Ma già che ci sono, si punzecchiano sempre. Ieri è toccato a Franco, con una paginata sul Corriere in cui non ha mancato, per la ventesima volta, di puntualizzare che Carlo «non so perché, ha separato il cognome, ma all’anagrafe è tutto attaccato». Però la notizia, questa volta. c’è ed è notevole.

Leggi il resto


Debenedetti: «Decisi di andarmene dalla Fiat quando Romiti offese mio fratello. Mio figlio precipitò sulle Dolomiti»



di Aldo Cazzullo e Roberta Scorranese, 03 febbraio 2025

Franco Debenedetti: «Il caso dell’eredità di Vattimo? Caminada è innocente. Io a 92 anni non smetto di sciare»

Franco Debenedetti, è vero che a 92 anni va a sciare?
«Certo. Sulle Tofane. E a Dobbiaco».

Come si arriva alla sua età in piena forma?
«Mio padre è morto a 99 anni: una piccola beffa per uno come lui, che voleva arrivare a cento a tutti i costi».

Genetica, dunque?
«Non so. Posso però dirvi che bevo un bicchiere di rosso a pasto e mangio di tutto, tranne la testina. E ho sempre coltivato il piacere di scivolare nel sonno accompagnato da un bel libro».

Leggi il resto


Intervista a Franco Debenedetti sul suo libro “Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri 1943 – 1945″ (Marsilio Ed.)



di Michele Lembo, 27 gennaio 2025

“Intervista a Franco Debenedetti sul suo libro “Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri 1943 – 1945″ (Marsilio Ed.)” realizzata da Michele Lembo con Franco Debenedetti (economista, saggista).
Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Antifascismo, Antisemitismo, Debenedetti, Decessi, Donna, Ebraismo, Ebrei, Emigrazione, Fascismo, Fotografia, Germania, Giorno Della Memoria, Guerra, Italia, Libro, Lingua, Olocausto, Rifugiati, Segre, Storia, Svizzera, Violenza.

Ascolta il resto


Franco Debenedetti: la mia fuga “in Isvizzera” per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste



di Michele Novaga, 26 gennaio 2025

Nel libro Due lingue, due vite: i miei anni svizzeri 1943-1945 il manager ed ex senatore della Repubblica italiana racconta il diario della fuga in Svizzera per sfuggire ai nazifascisti. Ma anche i tempi trascorsi da rifugiato con la famiglia a Lucerna fino alla fine della guerra e lo studio di una nuova lingua: il tedesco.

Leggi il resto


Leggere fa bene alla Ragione



07 gennaio 2025

Un libro scritto da un ragazzino, iniziato quando ancora doveva compiere gli undici anni, un libro tirato fuori dal cassetto dove solita- mente queste cose finiscono, se non vanno perdute, ha il potere di porci un problema su cui dobbiamo quotidianamente vigilare.
La famiglia Debenedetti, ebrei piemontesi, era sfollata in campagna nel 1942 per sfuggire ai bombardamenti che, fra le altre cose, avevano distrutto la fabbrica costruita dal padre. Il quale nel 1943 decide di trasferirsi in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni razzia- li. Nell’intraprendere questo non facile passaggio – altre famiglie erano state respinte – la signora Debenedetti, cattolica, suggerisce ai figli di tenere un diario. E il libro è il diario di Franco, accompagnato da alcune sue considerazioni e inquadrature storiche.

Leggi il resto


Un libro raggiante e spaventoso



di Diego Gabutti, 04 gennaio 2025

Franco Debenedetti è la pecora bianca della famiglia Debenedetti, dove la pecora nera (agli occhi, beninteso, dei suoi avversari) è il fratello Carlo, editore e finanziere, nonché «De Benedetti» (immagino per qualche forma di snobismo) invece che «Debenedetti».
Nessun avversario, invece, e niente snobismi, per Franco Debenedetti. Ingegnere, imprenditore, liberale e persino un po’ liberista, contemporaneamente presidente dell’Istituto (neoliberista hard) Bruno Leoni ed ex senatore Pds e Ds, Franco Debenedetti racconta in questo suo vecchio diario gli anni dell’esilio in Svizzera, tra il 1943 e il 1945, che lo introdussero a «due lingue e due culture»: quella tedesca (Thomas Mann, poi Thomas Bernhard) e quella (democratica) italiana, sopravvissuta alle violenze e alle distorsioni del regime.

Leggi il resto


La via del ricordo, la via del rifugio. Le due vite di Franco



di Fiona Diwan, 03 gennaio 2025

Da Asti a Lucerna, 1943-1945. In un memoir di Franco Debenedetti, rivive il bambino che era mentre racconta la fuga verso Chiasso, la vita in Svizzera, il bilinguismo italiano-tedesco, la doppia identità. Il memoir sarà presentato alla Fondazione Corriere il 6 febbraio

Non è banale pensare a un bambino di dieci anni che da Asti fugge in Svizzera con la famiglia e che in piena guerra scrive un diario perfetto, con la tenera e regolare calligrafia di uno scolaro delle elementari, e poi incolla ritagli di giornale sul diario e doviziosamente documenta con fotografie ciò che vive e scrive. Un bambino che ancora non ha fatto il bar-mitzvà che ascolta e trascrive le sue giornate a Lucerna, che impara il tedesco in poco più di tre mesi per poter accedere al Ginnasio Cantonale, che affronta l’ignoto con vorace curiosità tuffandosi in un mondo sconosciuto dopo essere passato attraverso il buco del filo spinato che, nei boschi intorno a Chiasso, divideva l’Italia dalla Svizzera, la via del rifugio.

Leggi il resto


Il punto di Paolo Pagliaro



di Paolo Pagliaro, 20 dicembre 2024


Il diario di infanzia racconta un’epoca



di Ernesto Galli Della Loggia, 14 dicembre 2024

Ottobre 1943: la famiglia Debenedetti – due bambini intorno ai 10 anni, con un apà ebreo e una mamma cattolica – riesce a fuggire dall’Italia e a raggiungere la Svizzera dove attenderanno la fine della guerra. Al più grande dei due, franco, di dieci anni (in futuro destinato come si sa a un importante ruolo pubblico) la mamma consiglia di tenere un diario. Che ora possiamo leggere, riprodotto e stampato insieme alle foto e ai ritagli di giornale d’epoca non ché ai ricordi dall’autore (Franco Debenedetti. Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri. 1943-1945, Marsilio Arte, pp.287, s.i.p.).

Leggi il resto

→  dicembre 11, 2024


di Paolo Lepri

Inchiesta del laboratorio di ricerca umanitaria di Yale: il presidente Vladimir Putin e alti ufficiali di Mosca hanno autorizzato «intenzionalmente e direttamente» le deportazioni e sono state impiegate risorse che fanno capo specificatamente al leader del Cremlino

Il Laboratorio di ricerca umanitaria di Yale ha compiuto un’inchiesta accurata, frutto di un lavoro ammirevole, sulle adozioni forzate in Russia di bambini ucraini. Alcuni casi sono stati individuati, le dinamiche dell’operazione — già in parte note — sono state ulteriormente chiarite, le persone coinvolte sono state identificate. Ma a dominare sono le conclusioni «politiche», di cui ha scritto nei giorni scorsi il New York Times: il presidente Vladimir Putin e alti ufficiali di Mosca hanno autorizzato «intenzionalmente e direttamente» le deportazioni e sono state impiegate risorse che fanno capo specificatamente al leader del Cremlino. «Il suo ufficio — ha detto a Euronews Nathaniel Raymond, direttore esecutivo del centro — è coinvolto nella gestione logistica del programma, per il quale sono stati usati fondi, edifici e aerei che lo hanno facilitato».

I dati raccolti in questi anni dal governo di Kiev indicano che 19.500 bambini ucraini sono stati trasferiti con la forza in Russia ma il numero è sicuramente più alto a causa dell’impossibilità di entrare nelle zone occupate. Il Laboratorio di Yale ha accertato 314 episodi. Alcuni minori sono stati prelevati da istituti, altri sono stati allontanati da genitori privati dei loro diritti. La tappa successiva è stata un processo di «russificazione»: una sorta di lavaggio del cervello preliminare all’adozione e all’inserimento nelle nuove famiglie. «L’indottrinamento — ha spiegato Raymond — prevede anche il divieto di parlare la loro lingua».

Un aspetto significativo della ricerca di Yale è che aggiunge prove documentali, messe a disposizione dei giudici, al procedimento della Corte Penale dell’Aia. Il mandato d’arresto per crimini di guerra emesso nel marzo 2023 nei confronti di Putin riguarda proprio le deportazioni di bambini ucraini in Russia. È decisivo che la giustizia internazionale, messa oggi in discussione da più parti, venga aiutata in modo indipendente a compiere la propria missione.

→  ottobre 8, 2022


di Pietro Ichino

Le idiosincrasie di chi vede il Jobs Act come fumo negli occhi, ma dice di ripartire dai più poveri

Dopo le elezioni del 25 settembre molti, a sinistra, sostengono che il Pd dovrebbe tornare a “occuparsi dei poveri”. Vi è qualche ragione per ritenere che chi lo afferma non abbia le idee chiare su che cosa questo significhi in concreto; perché, da sinistra, ciò che occorre fare veramente per consentire ai poveri di uscire dalla loro condizione viene per lo più bollato come “di destra” e dunque rifiutato. “Occuparsi dei poveri”, se lo si vuol fare bene, significa principalmente far funzionare i cosiddetti ascensori sociali, cioè gli strumenti che consentono alle persone meno dotate di “salire”, di migliorare la propria condizione socio-economica. Il primo e più efficace ascensore sociale è la scuola. Potenziare la scuola significa, certo, investire di più su edilizia e attrezzature scolastiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell’insegnamento, cioè sulla capacità e sull’impegno degli insegnanti.

Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l’opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Se finora nella scuola pubblica italiana tutto questo non si è fatto, è perché porta inevitabilmente a qualche attrito con i sindacati degli insegnanti.

Oggi, dunque, se un professore insegna male o non insegna del tutto, nella quasi totalità dei casi non accade nulla: così un’intera classe viene privata per uno o più anni dell’insegnamento di materie essenziali, come l’italiano o la matematica. E questo, si osservi, accade in modo diffusissimo: quasi ogni classe ha almeno un professore – se non due o addirittura tre – che per incapacità o negligenza non svolge in modo appropriato il proprio servizio.

Occuparsi dei più poveri significa attivare una sistematica e rigorosa valutazione della qualità dell’insegnamento impartito dagli istituti scolastici pubblici; ma anche consentire loro di scegliere gli insegnanti e attirare i migliori premiandoli. Questo si deve fare se si vuole davvero stare dalla parte dei più poveri. Ma a questo la sinistra-sinistra si è sempre fortemente opposta. Un altro ascensore sociale importantissimo è costituito dai servizi al mercato del lavoro. Occuparsi dei poveri significa adoperarsi per risolvere un problema gravissimo: quel 40 per cento di posti di lavoro qualificato o specializzato – in Italia sono centinaia di migliaia! – che le imprese hanno necessità di coprire ma non riescono a farlo per mancanza delle persone idonee.

E’ la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia. Per farlo il sistema c’è (è previsto dal Jobs Act: artt. 13-16 del d.lgs. n. 150/2015): istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ma questa previsione legislativa è stata totalmente disattesa per un’intera legislatura: non solo perché per la sinistra-sinistra il Jobs Act è come il fumo negli occhi, ma anche, più specificamente, perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e alla sinistra-sinistra sta più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro, o che aspirerebbero a farlo.

Per concludere, il Pd farà benissimo a occuparsi con maggiore impegno dei poveri. Ma per farlo dovrà liberarsi di questi veri e propri tabù di una sinistra che al primo posto mette l’interesse degli addetti ai servizi, non quello di chi ne ha vitale bisogno. E che forse, a ben vedere, sinistra nel senso proprio del termine non è affatto.