A far ripartire le aziende dopo la pandemia non basta il credito bancario: perché riprendano a investire è necessario che venga ricostituito il capitale bruciato. Per le grandi aziende, è perlopiù possibile fare il necessario aumento di capitale senza che vengano rovesciati gli assetti proprietari. Invece per le PMI sorgono problemi, rilevanti per le maggiori, le cosiddette multinazionali tascabili. I loro problemi sono problemi per il Paese: perché è grazie a loro che il Paese è riuscito a stare a galla durante la ricadute europee della bolla dei subprime, e poi a crescere sui mercati esteri. I loro proprietari o ne sono anche i gestori o ne controllano, anche gelosamente, gestione e strategie: un aumento di capitale rischia di turbare equilibri delicatissimi. Per questi motivi l’Europa raccomanda che questi avvengano con strumenti di “quasi-equity”. Pio desiderio, perché chi mette soldi in un’azienda deve a sua volta rispondere a chi glieli ha affidati, e quindi deve avere qualche potere di controllo su gestione e strategie. C’è dunque un ampio “non detto” tra vecchi e nuovi azionisti, il loro rapporto si basa largamente su fiducia, immagine, storia passata e progetti futuri.
I governi Conte, come avevano pensato di sovvenire ai problemi di liquidità, con prestiti e con garanzie alle banche, di mantenere i posti di lavoro con la Cassa integrazione in deroga, così avevano ordinato a CDP di costituire un fondo “patrimonio dedicato” di 40 miliardi di ?, dedicato a investire nel capitale di aziende medio piccole. La nostra opinione in proposito è chiara e netta: la CDP non deve intervenire nel patrimonio delle PMI. E non deve perché non è l’unica soluzione possibile: esiste infatti un vasto mercato di aziende finanziarie, venture capital, private equity, “angeli”, decine in Italia, centinaia in Europa, e tutte con abbondanza di capitali alla ricerca di investimenti.
C’è un abisso di diversità tra avere per socio lo Stato o un altro privato. Le aziende finanziarie private non hanno il potere della CDP, non sono gravate dalla sua storia, hanno un’altra ragion d’essere. Come le imprese in cui investono, vivono nella concorrenza. Per entrambe il lavoro è un input della produzione, a differenza del pubblico, per cui è, dichiaratamente, l’output: c’è sempre il rischio che capitale pubblico finisca “destinato” a mantenere posti di lavoro anche in aziende decotte. Le finanziarie private sono anche loro cresciute per proprio dinamismo, innovando. Sono esposte a rischi, massimo per loro quello reputazionale: un comportamento non diciamo scorretto, ma anche solo troppo invadente, sarebbe immediatamente risaputo sul mercato. Infine hanno una exit strategy: non hanno interesse a restare nell’impresa, vogliono uscirne appena è risanata, per reinvestire il capitale.
Mantenere vivace e intatta la cultura della sua imprenditoria privata è una priorità esistenziale per il futuro del nostro Paese. Il premier Draghi dunque si affretti a cancellare il fondo attribuito alla Cassa per investire nelle PMI. Quei soldi è bene che stiano dove sono: nelle tasche dei contribuenti presenti e futuri.
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giugno 22, 2021