E se Fiat e Pirelli finissero, come Costa Crociere, comprate da un concorrente straniero, che cosa ne sarà dell’Italia? Non «saremo colonia»? la domanda che si pone Piero Ottone nel suo attimo libro che appunto reca questo titolo. Per rispondervi ripercorre i tentativi fatti dalle nostre maggiori imprese di acquisire concorrenti europei, parlando con Agnelli di Citroën, con Pirelli di Continental, con Carlo De Benedetti del Belgio (e curiosamente non ricorda le iniziative di Berlusconi, né i capitoli francesi della storia di Cardini: eppure anche loro all’epoca erano i moschettieri italiani).
Il discorso si snoda piano e accattivante, Ottone ci fa amabilmente partecipare alle sue gradevoli conversazioni, ricordi e riflessioni svolte col sereno distacco conferito dal tanto tempo trascorso. Strada facendo si scoprono le debolezze del nostro sistema d’impresa: la mancanza di un mercato finanziario adeguato, di regole di corporate governance, di una vera cultura di mercato.
Finisce che, aldilà e fin contro le probabili intenzioni di Ottone, la nostra debolezza viene identificata con gli insuccessi delle politiche dì espansione europea delle nostre maggiori famiglie industriali. Ma se anche la fortuna avesse arriso a quelle iniziative, se Fiat fosse padrona di Citroën e Carlo De Benedetti vivesse a Bruxelles, sarebbe tanto diversa la situazione del nostro Paese, avremmo minore rischio di diventare colonia?
Vien voglia di rovesciare il problema: chiedersi cioè se il pericolo non consista tanto nel fatto che troppi investitori esteri minaccino di impegnare i loro capitali comprando aziende italiane, ma invece che siano in troppo pochi a farlo. Che questa sia la situazione lo dimostra la statistica pubblicata recentemente dal «Sole 24 Ore», secondo cui siamo agli ultimi posti quanto a investimenti diretti esteri. Esistono certo esternalità positive per un imprenditore locale, la conoscenza dell’ambiente e delle sue regole scritte e non scritte, la prossimità ai decisori politici: ma la mobilità del capitale finanziario ne diminuisce l’importanza. La raccolta dei 500 maggiori fondi di investimento off shore supera il Pil italiano, i due terzi delle azioni quotate nelle borse ufficiali sono posseduti da intermediari finanziari, ogni anno un milione di miliardi di lire si rendono apolidi.
Questi capitali sono come aerei che volano nel cielo del pianeta: più che interrogarsi sulla nazionalità del pilota è importante predisporre luoghi favorevoli per l’atterraggio. Più che ricordare le passate battaglie conviene por mente alle presenti e incerte: un mercato del lavoro ingessato e gravato da insopportabili tributi; un’amministrazione costosa e inefficiente, un prelievo fiscale scoraggiante; soprattutto l’uscita del pubblico dagli spazi di mercato che ancora occupa verso assetti indefiniti, tra veti e rinvii.
Il nesso tra questo ben noto «cahier de doleances» e il rischio di essere emarginati è evidente; assai più evidente di quello tra il fallimento dei progetti di espansione europea delle grandi famiglie e il rischio di diventare colonia.
Anzi se si osserva che la abnorme espansione della quota di Pil inter-mediata dallo Stato, la gigantesca re-distribuzione di reddito inesistente finanziata con i debiti, si è accompagnata con la sostanziale garanzia degli assetti proprietari esistenti, con un ritardo clamoroso nell’introduzione di garanzia di concorrenza sui mercati dei beni e di protezione degli interessi minoritari in quelli dei diritti di proprietà, è il collegamento stesso che Ottone suggerisce a rivelarsi parte del problema. II problema è cioè anche il permanere di una mentalità per cui le fortune del nostro Paese sono legate più ai successi delle grandi famiglie che all’abbattimento dei tabù che impediscono la creazione di un ambiente atto ad attrarre investimenti.
Le strategie industriali che Ottone rievoca avevano tutte come teatro l’Europa continentale. Ma la domanda «Saremo colonia?» rimanda a problemi comuni a tutta l’Europa dell’euro. Ottone dubita della fattibilità di una moneta unica basata sui criteri «ragionieristici» di Maastricht, sul potere di una banca centrale che non risponde a nessun potere politico: tutte ragioni politically correct. Sorprende che neanche lui ricordi che Maastricht non fu voluta da qualche monetarista di Chicago o da qualche paladino di politiche dell’offerta, ma proprio da quei postkeynesiani che ora ne vorrebbero rilassare le regole per consentire qualche rilancio di investimenti pubblici, o di sostegno della domanda, evitando di affrontare i problemi: in questo caso non quelli delle grandi famiglie, ma del sistema sociale europeo. È un’altra contraddizione: anche questa «politically correct».
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luglio 31, 1997