Caro Ottone, non è più il tempio delle colonie

luglio 31, 1997


Pubblicato In: Giornali, Panorama


E se Fiat e Pirelli finissero, come Costa Crociere, comprate da un con­corrente straniero, che cosa ne sarà dell’Italia? Non «saremo colonia»? la domanda che si pone Piero Ottone nel suo attimo libro che appunto re­ca questo titolo. Per rispondervi ri­percorre i tentativi fatti dalle nostre maggiori imprese di acquisire con­correnti europei, parlando con Agnel­li di Citroën, con Pirelli di Continen­tal, con Carlo De Benedetti del Belgio (e curiosamente non ricorda le ini­ziative di Berlusconi, né i capitoli francesi della storia di Cardini: ep­pure anche loro all’epoca erano i mo­schettieri italiani).

Il discorso si snoda piano e accat­tivante, Ottone ci fa amabilmente partecipare alle sue gradevoli conversazioni, ricordi e riflessioni svol­te col sereno distacco conferito dal tanto tempo trascorso. Strada fa­cendo si scoprono le debolezze del no­stro sistema d’impresa: la mancan­za di un mercato finanziario adegua­to, di regole di corporate governan­ce, di una vera cultura di mercato.

Finisce che, aldilà e fin contro le probabili intenzioni di Ottone, la no­stra debolezza viene identificata con gli insuccessi delle politiche dì espansione europea delle nostre maggiori famiglie industriali. Ma se anche la fortuna avesse arriso a quelle iniziative, se Fiat fosse pa­drona di Citroën e Carlo De Benedet­ti vivesse a Bruxelles, sarebbe tan­to diversa la situazione del nostro Paese, avremmo minore rischio di di­ventare colonia?

Vien voglia di rovesciare il pro­blema: chiedersi cioè se il pericolo non consista tanto nel fatto che troppi investitori esteri minaccino di impegnare i loro capitali comprando aziende italiane, ma invece che sia­no in troppo pochi a farlo. Che que­sta sia la situazione lo dimostra la statistica pubblicata recentemente dal «Sole 24 Ore», secondo cui siamo agli ultimi posti quanto a investimenti diretti esteri. Esistono certo ester­nalità positive per un imprenditore locale, la conoscenza dell’ambiente e delle sue regole scritte e non scrit­te, la prossimità ai decisori politici: ma la mobilità del capitale finanzia­rio ne diminuisce l’importanza. La raccolta dei 500 maggiori fondi di in­vestimento off shore supera il Pil ita­liano, i due terzi delle azioni quotate nelle borse ufficiali sono posseduti da intermediari finanziari, ogni anno un milione di miliardi di lire si ren­dono apolidi.

Questi capitali sono come aerei che volano nel cielo del pianeta: più che interrogarsi sulla nazionalità del pilota è importante predisporre luo­ghi favorevoli per l’atterraggio. Più che ricordare le passate battaglie conviene por mente alle presenti e in­certe: un mercato del lavoro inges­sato e gravato da insopportabili tri­buti; un’amministrazione costosa e inefficiente, un prelievo fiscale sco­raggiante; soprattutto l’uscita del pubblico dagli spazi di mercato che ancora occupa verso assetti indefi­niti, tra veti e rinvii.

Il nesso tra questo ben noto «cahier de doleances» e il rischio di essere emarginati è evidente; assai più evidente di quello tra il fallimen­to dei progetti di espansione europea delle grandi famiglie e il rischio di di­ventare colonia.

Anzi se si osserva che la abnorme espansione della quota di Pil inter-mediata dallo Stato, la gigantesca re-distribuzione di reddito inesistente finanziata con i debiti, si è accompa­gnata con la sostanziale garanzia de­gli assetti proprietari esistenti, con un ritardo clamoroso nell’introdu­zione di garanzia di concorrenza sui mercati dei beni e di protezione de­gli interessi minoritari in quelli dei diritti di proprietà, è il collegamento stesso che Ottone suggerisce a rive­larsi parte del problema. II problema è cioè anche il permanere di una mentalità per cui le fortune del nostro Paese sono legate più ai succes­si delle grandi famiglie che all’abbat­timento dei tabù che impediscono la creazione di un ambiente atto ad attrarre investimenti.

Le strategie industriali che Otto­ne rievoca avevano tutte come tea­tro l’Europa continentale. Ma la do­manda «Saremo colonia?» rimanda a problemi comuni a tutta l’Europa dell’euro. Ottone dubita della fatti­bilità di una moneta unica basata sui criteri «ragionieristici» di Maa­stricht, sul potere di una banca cen­trale che non risponde a nessun po­tere politico: tutte ragioni political­ly correct. Sorprende che neanche lui ricordi che Maastricht non fu vo­luta da qualche monetarista di Chi­cago o da qualche paladino di poli­tiche dell’offerta, ma proprio da quei postkeynesiani che ora ne vorrebbe­ro rilassare le regole per consentire qualche rilancio di investimenti pub­blici, o di sostegno della domanda, evitando di affrontare i problemi: in questo caso non quelli delle grandi famiglie, ma del sistema sociale eu­ropeo. È un’altra contraddizione: an­che questa «politically correct».

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