Olli Rehn, il finlandese Commissario europeo per gli affari economici e monetari, in cinque pagine e 39 punti chiede al Governo di chiarire entro venerdì come intende attuare gli interventi a cui si è impegnato, e che risultati si attende. Vi si legge di aumento dell’età pensionabile, di privatizzazioni, di flessibilità in uscita, di concorrenza tra università, di tariffe professionali: nomi di battaglie o perse o non vinte, condotte in Parlamento e sui giornali, da destra e da sinistra. Chi vi prese parte ricorda i problemi che determinarono quelle sconfitte, e che oggi la crisi rende ancora più stringenti. Si chiamano compatibilità economica e consenso politico.
Compatibilità economica di austerità e crescita, di deflazione e sviluppo, due obbiettivi che richiedono misure opposte, è quello che richiede la lista di Rehn. Non siamo noi soli con i nostri ritardi a cercarla. La cerca Obama quando deve mediare tra Democratici e Repubblicani, non riesce a trovarla il Giappone da più di un decennio. Gli elenchi servono a memorizzare: ma nell’economia, di un Paese come in quella di un’area monetaria, gli effetti delle singole misure interagiscono tra di loro in modi sovente imprevedibili, e non semplicemente si sommano.
Consenso politico: è chiaro che dopo 17 anni da quello in cui molti vedemmo l’inizio di una fase nuova, 17 anni di aspettative frustrate e di promesse mancate, si perde credibilità, e più la perde chi più ha governato e più ha promesso. L’allarme rosso di queste ore, l’emergenza di dare una risposta immediata ai mercati per evitare il disastro, non può far dimenticare il problema politico, la necessità di trovare l’assetto stabile che non solo approvi le riforme in Parlamento, ma le radichi nel cuore e nella mente dei cittadini, e ne orienti le scelte.
Crescita e austerità, credibilità immediata e consenso duraturo: i problemi sono italiani e sono europei, i mercati razionalmente tengono conto degli uni come degli altri, e del loro interagire. Se l’Italia è in emergenza, non è solo per mancanza di credibilità propria. La gestione delle crisi europee non è stata, a dir poco, esemplare, c’è anche un problema di credibilità europea. Come ricordava ieri Martin Wolf (L’Europa sbaglia, anzi persevera, ilSole 24 Ore) la crisi dell’euro è più di flusso, che di stock, più di bilancia dei pagamenti che di entità del debito. L’Europa nel suo complesso è in equilibrio delle partite correnti, i suoi problemi sono interni. L’Italia ha perso competitività rispetto alla Germania, ma non riguardo al resto del mondo, altrimenti non si spiegherebbe la discreta tenuta delle esportazioni. Gli asset stranieri posseduti da italiani, che superano il valore del debito pubblico italiano in mani estere, non sono soggetti a rischio Paese.
Il consenso dipende anche da assetti istituzionali, e anche qui ci sono aspetti comuni. In Italia c’è un maggioritario che non si è voluto completare e che si è fatto degenerare in questa pessima legge elettorale. Se nell’eurozona scoppiano crisi in diversi Paesi, difficile non pensare a qualche difetto costitutivo; se le cause prossime appaiono diverse l’una dall’altra, logico ricercare la causa comune. Un anno fa, quando le emergenze erano Spagna Grecia e Portogallo, Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa mettevano in evidenza come, mentre da un lato l’adesione alla moneta unica rimuoveva il rischio inflazione, dall’altro non era in atto nessun controllo sulla eccessiva crescita del credito accordato; e concludevano che se non si fossero introdotti cambiamenti istituzionali, l’euro non sarebbe stato al riparo da crisi ricorrenti. Se un Paese dell’euro in crisi dovesse ricorrere all’Fmi, sarebbe difficile riproporre l’euro come moneta universale di conto.
La lettera di Olli Rehn è rivolta all’Italia e quindi in essa non possono trovare spazio queste considerazioni. Ma esse sono di certo ben presenti nella mente del Commissario europeo per gli affari economici e monetari: per questo ha chiesto che le risposte gli venissero mandate in inglese.
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