Caro amico DDV, la libertà d’opinioni la crea il mercato e non l’editore puro

luglio 11, 2013


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Trent’anni. Tanti, uno più uno meno, sono passati da quando è iniziata la liberalizzazione delle comunicazioni via etere: prima le radio, poi le televisioni locali, poi la diffusione nazionale a mezzo cassette portate con la vespa, Berlusconi, la Mammì, le dimissioni dei ministri, la Gasparri. Una guerra di trent’anni, e ci ho pure scritto su un libro.[1]

Pluralismo, posizioni dominanti, confitto di interessi, concorrenza: quanto ne abbiamo parlato! In flash back ricompaiono le discussioni, gli scritti, gli interventi, i convegni, le proposte di legge, i girotondi. E la RAI, come dimenticare la RAI, e la sua sorella, modella di virtù in Albione?

Trent’anni non sono bastati. Le Corti, e le commissioni parlamentari sono lì a ricordarci che per alcuni quella guerra sarà finita solo il giorno in cui la vicenda politica di Silvio Berlusconi si sarà chiusa con la sua definitiva espulsione dal sistema. Ma nessuno, a quanto mi risulta, ha osservato la quasi concomitanza tra l’appello di Diego Della Valle a favore della libertà di opinioni nei mezzi di comunicazioni di massa, e l’intensificarsi delle iniziative che, per varie e magari giustificate ragioni, finiscono sul capo di colui al quale nessuno potrà disconoscere il merito di avere liberalizzato il sistema radiotelevisivo italiano.

L’appello di DDV presenta un’altra singolarità, rispetto a quella certamente minor, eppur non indigna. Gli obbiettivi per cui si contende non sono gli stessi per cui si è combattuto nella guerra dei trent’anni: non più la televisione dalla chioma leonina, ma la stampa dalla patinata superficie. E’ vero, anche allora la carta entrava nel conto, ma era roba di second’ordine, da cedere ai fratelli cadetti. E chi l’aveva fatta entrare nel conto del SIC, il famigerato Sistema Integrato delle Comunicazioni, ancor oggi è accusato di averlo fatto solo per confondere le acque e truccar le carte a favore del Cavaliere. Invece oggi è a un giornale, sia pure a tanto giornale, che attengono le questioni per cui si ritiene necessario appellarsi al Capo dello Stato. Per l’appassionato lettore di giornali renitente alla leva televisiva, è una soddisfazione di cui sono sinceramente grato a Diego della Valle. Come forse ricorderà, ci siamo conosciuti all’ISTOA da Giorgio Fuà, un figlio intellettuale di Adriano Olivetti: al quale questa attenzione alla carta stampata non sarebbe dispiaciuta.

Ma veniamo alle questioni sollevate dall’appello pubblicato da DDV.

Libertà di opinione è libertà di opinioni: abbiamo scoperto il pluralismo.

Le opinioni si confrontano, e ciascuno cerca di convincere altri della giustezza delle proprie: nella società di massa, i mezzi di comunicazione di massa. Abbiamo riscoperto fasti e nefasti dell’industria culturale, da Adorno a Umberto Eco.

Le opinioni rappresentano interessi: culturali, politici, economici. Come le opinioni, così gli interessi confliggono tra di loro: abbiamo scoperto la concorrenza.

Basta la concorrenza a creare pluralismo? La concorrenza deve essere “garantita”? Ponendo limiti? Alla diffusione, alla raccolta pubblicitaria, al potere economico della proprietà, nel suo valore complessivo, nella sua composizione? Quale forma di corporate governance garantisce meglio? Garantisce che cosa, i fatti o le opinioni, il numero di lettori o la loro collocazione sociale, lo status del giornale o quello dell’editore?

Così non se ne esce, torniamo ai fatti base. I giornali sono imprese, le imprese devono guadagnare (internet permettendo), i guadagni sono le vendite. I giornali “di opinione” forniscono ai lettori una visione del mondo: comperando il giornale i lettori dànno la misura del consenso. La visione del mondo è coerente con degli interessi. Vale per tutti i giornali, per il Manifesto e l’Osservatore Romano, per l’Avvenire e per il Sole 24 Ore. Per Il Corriere della Sera e per la Repubblica. Tutti sostengono che quello che essi rappresentano coincide con l’interesse generale.

L’editore puro, che fa solo giornali? Ma anche quello prima o poi, piuttosto prima che poi, butta il suo peso di mercato a favore dell’uno o dell’altro candidato. Il Grande Fratello? Ma a farlo ci pensano altri, e non fanno giornali. Che un gruppo industriale di soverchiante potenza possa abusarne se possiede anche un giornale, è esempio di scuola ovunque, nell’Italia del capitalismo senza capitali fa piangere più che ridere. “Elkann ineleggibile!”, avevo scritto al Direttore, quando la notizia che egli aveva portato la sua quota al 20% di RCS aveva fatto sollevare qualche illustra sopracciglio. Mi sembrava di vederli, quanti in parlamento si rompono la testa per rendere ineleggibile il cavaliere, buttarsi famelici sul nuovo osso.

Che un gruppo coerente di industriali portatori di una visione liberale dello Stato formi in modo trasparente un nuovo nucleo proprietario del Corriere, non può che essere una buona notizia. Il mio amico Diego della Valle avrebbe certo contributi positivi da apportare.

Al suo appello Giorgio Napolitano ha risposto “Il mercato è libero”. Mi sembra perfetto.

[1] F. Debenedetti, A.Pilati. Guerra dei Trent’anni, Storia politica della TV, Einaudi 2009

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