Perché, in queste prime settimane del suo nuovo governo, non sembra che Giuliano Amato stia ripetendo il “miracolo politico” che seppe offrire al paese tra il 92 e il 93? A chiederglielo è un centrosinistra sconfitto alle regionali, in cerca di formule che non lo facciano esplodere, e in cui – temo – il verbo riformista rischia di annegare tra tensioni neocentriste e sinistra antagonista. Il rischio di ridursi a un governo debole e rissoso è sotto gli occhi di tutti. Ho l’impressione, allora, che si debba partire proprio dall’aspra e impropria requisitoria di Antonio Di Pietro in Senato.
Di Pietro ha accusato Amato di essere la riproposizione di un regime partitico associato al nome di Craxi. Come tutta risposta c’é stata la pubblicazione su La Stampa di un saggio in cui Amato rivendica di avere, otto anni fa, applicato l’art.92 della Costituzione ed estromesso i partiti dagli enti pubblici. Una replica che mi è parsa fuori bersaglio.
A differenza di Ciampi, Amato non é un “tecnico”: ha lunga milizia nella sinistra e nel socialismo, nei 20 anni che hanno preceduto il 92; nei secondi 10 di quei 20 anni esercitando anche quella particolare declinazione della politica come Beruf propria dei consiglieri di chi la politica l’ha fatta in prima persona, e cioè di Bettino Craxi. E’ il non riprendere il filo da dove è stato interrotto – dico politicamente, non giudiziariamente perché in quel caso avrebbe ragione Di Pietro – a condannare i riformisti oggi al silenzio politico; e a ricondurre i Ds alla tentazione dell’accordo con Bertinotti visto che, quando D’Alema e Veltroni hanno riconosciuto che nello scontro tra comunisti e riformisti erano stati i primi a sbagliare, nessuno dei secondi si è alzato per rivendicare un ruolo politico coerente alle ragioni di quell’ammissione storica.
Chi può farlo, se non Giuliano Amato? Egli ne ha tutti i mezzi. Nelle suoi lavori teorici del 72 e del 76, è stato lui prima di altri a descriverci come le passioni e insieme gli errori portarono dalla politica di piano di Giolitti e di Lombardi all’esito nefasto di “una generale ricerca del consenso”. Fu severo critico delle cosiddette “riforme senza spese”, che diedero sì al paese elementi essenziali di libertà e di eguaglianza, ma al prezzo di paurosi squilibri di finanza pubblica.
Quanto alla corruzione, già nel dicembre del 1979, al primo emergere dell’affare ENI Petronim, Amato impegnava una battaglia interna al Psi, con un appello di protesta firmato da 25 amici di Mondoperaio, tra cui – oltre a Luciano Cafagna e Federico Coen – Bassanini, Bobbio, Flores d’Arcais, Galli della Loggia.
Ma il Giuliano Amato che io – che non sono mai stato socialista – ho imparato a stimare, era quello che dalla critica all’arretrato modello di sviluppo italiano si impegnava nel “duello a sinistra”, come scrisse nell’82, per la realizzazione di un riformismo che si sottraesse all’abbraccio delle due grandi chiese DC e PCI. Craxi come il Mitterrand italiano: per questo Amato gli prestò la sua finezza intellettuale. Ora interesserà gli storici sapere se il presidente Scalfaro, professor Amato, lo abbia incoraggiato e poi smentito quando nel ’93 il suo Governo tentò di varare il decreto Conso. Ma il problema non è questo. Il problema è che il suo imbarazzo a parlare di Craxi data da quando lei, alla London School of Economics, ebbe a dire “Craxi non ha più futuro politico”.
Sono passati sette anni. Certo, se oggi D’Antoni raccoglie applausi dicendosi democristiano, è perché Andreotti ha affrontato le accuse mossegli da Palermo come Craxi non è stato capace. Ma se in Italia l’ipotesi mitterrandiana ha perso e il rischio è di tornare a una sinistra sindacale, è proprio l’ex prestigioso collaboratore di Craxi che deve riprendere il fardello sulle proprie spalle.
Questa riflessione, Presidente Amato, noi non possiamo aspettare che lei ce la dia tra qualche anno da studioso: é dal leader politico, adesso, che noi ne abbiamo bisogno. E ne ha bisogno anche lei. Lo dico vincendo la ritrosia personale che mi viene, anche, dalla stima che le porto.
maggio 25, 2000