Entrare in Europa per obbligarci a risanare la finanza pubblica o ammodernare la nostra economia per entrare in Europa? Il Governo, con la finanziaria, ha deciso: il 3% a tutti i costi, e con tutti i mezzi, nel 1997. Impegnando il paese un disperato corpo a corpo con i numeri, il Governo dichiara di credere che solo costretti dal vincolo sappiamo praticare la virtù di bilancio. Anzi, che la nostra virtù sta nel pagare per comprarci un vincolo.
È vero, così è stato ultimamente. Un tempo si fecero le scelte lungimiranti del mercato comune e dello Sme: ma poi i cambiamenti non sono stati frutto di una scelta, ma conseguenza di un vincolo. Abbiamo dovuto rasentare la più grave crisi finanziaria del dopoguerra per varare, con Amato, la prima riforma strutturale delle pensioni. Si deve minacciare di tasse i tre quarti degli italiani che hanno una casa per poter parlare di pensioni baby. La disoccupazione deve salire al 12% per parlare di flessibilità del lavoro. E così per la casa, per il fisco; e per la giustizia.
Le analisi di questa finanziaria – si pensa soprattutto a quelle di Giavazzi sul “Corriere della Sera”, di Nardozzi sul “Sole 24 Ore” del 6 ottobre,e a quella recente del CER-ne evidenziano la duplice, rischiosa scommessa. La prima, che per effetto delle risorse sottratte al consumo, non si riduca (qualcuno stima fino ad annullarsi) la crescita del prodotto interno, e quindi che diminuisca il gettito delle imposte nonostante le aliquote più elevate. La seconda, che i nostri partner accettino anche da noi manovre di “finanza creativa” di vistose dimensioni, per ammontari che si stimano non inferiori a 30.000 Mld, l’1,5% del PIL; cioè che si riesca a uscire indenni dalla tagliola tra chi non accetterà i nostri “trucchi” e chi esigerà un rapporto di cambio a noi sfavorevole.
A queste scommesse, fa riscontro la rinuncia alle riforme strutturali. Sarà ufficiente richiamarle per titoli: pensioni, flessibilità, liberalizzazioni, controllo societario. Eppure queste riforme sono necessarie comunque; se in Europa oltre ad entrarci vogliamo anche restarci, solo con queste riforme si assorbiranno gli effetti di sempre possibili shock asimmetrici. Introdurle è l’interesse di tutta l’Unione, non solo dell’Italia. Proprio per questo, attuare riforme che conferiscono flessibilità al sistema sarebbe apprezzato, dai mercati e dai partner, più che non i conti truccati e le una tantum.
Invece, ancora una volta si impone il vincolo e si rinuncia alle scelte.
La coalizione di governo trova l’accordo per imporre all’Italia il rigore di bilancio, ma non per reggere le grida degli interessi colpiti da flessibilità e privatizzazioni vere, anche se queste si risolverebbero in più efficienza e meno inflazione.
Così si porta il paese a camminare su filo del rasoio, gli occhi bendati per non vedere i molteplici inganni: verso i partner comunitari cui si presentano conti truccati, verso il paese che si illude che questo sia l’ultimo sforzo per l’Europa, verso i difensori a oltranza degli interessi organizzati cui si fa credere che le riforme possano essere evitate.
L’accordo di Rifondazione all’Europa val bene la riforma pensionistica; un po’ di respiro sui tassi val bene la flessibilità del lavoro. D’altronde, anche l’Europa di Maastricht è stata costruita intorno all’algida indipendenza della banca centrale, all’osservanza dei suoi ferrei parametri. Anche per l’Europa di Maastricht l’economia reale, le imprese che producono e i cittadini che consumano, può attendere.
Trovando l’intesa solo nell’imporre il vincolo, anziché nell’accompagnarlo con la scelta delle riforme, si rivela l’impotenza della politica. Questa, ridotta al perseguimento dei saldi di bilancio, si inaridisce in amministrazione, incombente sulla vita dei cittadini ma incapace di soddisfare le loro necessità e di rispondere alle loro aspettative. Anche se la scommessa dovesse riuscire, senza riforme in Europa entrerebbe un paese che non ha risolto i suoi problemi strutturali, vulnerabile e spento; governato da una coalizione ingessata dalla mediazione, vulnerabile in Parlamento e afasica verso il paese. Non è un caso che la svolta della finanziaria “pesante” abbia fatto registrare un così vistoso vuoto di comunicazione. C’era solo da comunicare il vincolo, e questo l’ha fatto, con appassionata convinzione, il Ministro Ciampi.
Per le reazioni che ha suscitato, questa finanziaria sarà in parte emendata; a colpi di fiducia, sarà approvata. Ma, legata com’è a rischiose scommesse e non imperniata su riforme strutturali, diffonde preoccupazioni e inquietudini. D’Alema sembra esserne il più avvertito, come dimostra tra l’altro l’intervista che ha rilasciato al Sole 24 Ore. Lunga sembra però ancora la strada da percorrere perché si imponga una visione politica che introduca nel paese le riforme come scelta e non come conseguenza del vincolo. Che ciò comporti modifiche all’attuale coalizione, sembra inevitabile.
ottobre 18, 1996