Caccia al lavoro perduto

gennaio 24, 1994


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Quanti posti di lavoro sarebbero sufficienti per fare i beni che oggi vengono prodotti, applicando il mas­simo livello di tecnologia di­sponibile? Il calcolo, per la Germania, porterebbe ad una disoccupazione del 38%: e per l’Italia non sa­rebbe probabilmente molto diverso. L’assurdità sta nel metodo o nell’impostazione concettuale con cui viene af­frontato il problema della di­soccupazione?

Le proposte per combattere la disoccupazione si allineano secondo due direttri­ci, che potremmo chiamare dell’offerta e della domanda.

Secondo la prima la disoccu­pazione deriva dalla rigidità del mercato del lavoro: il livello minimo dei salari, le condizioni normative« e pre­videnziali che lo regolano. La crisi sarebbe di natura con­giunturale, la soluzione strutturale sta nel fare evolvere l’offerta verso prodotti più sofisticati: quindi la ne­cessità di investire massic­ciamente in formazione. Ma nel frattempo questa strada porta alla creazione della classe dei «lavoratori poveri» una situazione social­mente accettata negli Usa, ma che da noi investirebbe il fondamento stesso dei valori su cui è costruita la nostra società.

L’altra direttrice è quella che diremmo della domanda. Se abbiamo una crisi che avvita su se stessa (meno sa­lari, meno consumi, meno domanda) bisogna sostenere la domanda agendo sul livel­lo dei prezzi (versione prote­zionista), oppure sul suo vo­lume, avviando grandi programmi di costruzione di in­frastrutture. Il limite delle politiche della spesa sta nella possibilità di finanziarle: se con debiti, si innesca la spirale svalutazione-inflazione­-aumento dei tassi; se con im­poste, si riduce, insieme alla domanda, la possibilità di essere rieletti.

Le misure che i governi adottano si situano su entrambe le direttrici schematizzate: tutte hanno, se giudiziosamente impiegate, una loro utilità. Ma ormai anche chi le propone sa che neppure la ripresa ricreerà tutti i posti di lavoro perdu­ti; che l’obbiettivo della pie­na occupazione è diventato non più realistico, che la so­cietà non è più in grado di promettere a tutti quelli che lo vogliono un posto di lavo­ro retribuito. Abbandonare quello che è stato l’obiettivo di emancipazione di oltre un secolo, che ha tenuto insie­me le nostre società, in be­nessere e sicurezza crescenti, è una prospettiva sconvolgente, che non si può affron­tare con misure in fondo or­dinarie di politica economi­ca.

Parlando di lavoro si in­tendono in realtà due cose diverse: il lavoro come una materia prima di cui c’è una disponibilità ed una richie­sta, e lavoro nel senso di po­sto di lavoro. Ora nessuno può sostenere che del lavoro-materia prima non esista abbondanza: è davanti agli oc­chi di tutti che, come scrive Meinhard Miegel, «la quan­tità di lavoro non fatto di­venta sempre maggiore: spingiamo davanti a noi una gigantesca montagna di pro­blemi irrisolti, tutto lavoro I che non viene eseguito».

Quello che manca è quel «prodotto», fatto di altro la, voto, di idee, di innovazioni, in che consiste il posto di la­voro nelle economie indu­striali. Un «prodotto» estre­mamente appetibile, che of­fre soddisfazione, sicurezza, e che diventa sempre più ri­cercato e sempre più scarso.

Lo Stato sociale è in grado di offrire una soluzione in termini economici che è necessaria ma non sufficiente.

Necessaria e possibile, dato che il garantire a tutti condizioni decenti di sussistenza è un problema che, se presenta non piccole difficoltà implementative, è in teoria di pura distribuzione. Ma non è una risposta sufficiente: basta ascoltare le voci che la televi­sione porta nelle nostre case in questi giorni: parlano di preoccupazioni non solo eco­nomiche, ma esistenziali, ri­chiedono non solo sicurezza ma identità.

Quello che appai-e neces­sario è un accordo sociale che parta da una ridefinizione del concetto di lavoro, che non lo restringa a quella «merce» sempre più rara che è il posto di lavoro organiz­zato e protetto, ma che si estenda a comprendere un insieme di lavoro retribuito e non retribuito, di tempo e di danaro, di lavoro dipendente e di lavoro in proprio, di tempo dedicato al lavoro e tempo dedicato alla fami­glia. Si tratta di comprende­re nel concetto di lavoro an­che le attività basate sulla vocazione, la dedizione, la donazione, per usare le paro­le di Giorgio Fuà. Se voglia­mo evitare la spaccatura del­la società tra chi è dentro e chi è fuori dal mercato del la­voro, tra chi è assistito e chi lavora, bisogna dare dignità di lavoro anche al lavoro non salariato. Lo Stato sociale ha reso possibile rompere l’e­quivalenza tra disoccupazio­ne e povertà e miseria: do­vrebbe ora essere possibile ricomprendere come lavoro, e distribuire nell’arco della vita di ognuno, attività che oggi sono percepite come non lavorative, o non perce­pite affatto, e trasformarle in attività lavorative.

L’adozione, od anche solo la considerazione di simili prospettive appare a tutti, anche a chi scrive, destabiliz­zante rispetto a convinci­menti tanto radicati da sembrare l’ordine «naturale» delle cose. Ma, se è vera la prospettiva per cui non ci sarà mai più la società in cui chiunque voleva poteva ave­re un lavoro retribuito, quel­la che garantiva le antiche si­curezze, non si possono usare gli strumenti pratici e concettuali cui eravamo abitua­ti. Non avere il coraggio di inventarne di nuovi potrebbe riservarci conflitti e frat­ture peggiori di quelli che le società industriali hanno co­nosciuto nel secolo scorso.

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