Quanti posti di lavoro sarebbero sufficienti per fare i beni che oggi vengono prodotti, applicando il massimo livello di tecnologia disponibile? Il calcolo, per la Germania, porterebbe ad una disoccupazione del 38%: e per l’Italia non sarebbe probabilmente molto diverso. L’assurdità sta nel metodo o nell’impostazione concettuale con cui viene affrontato il problema della disoccupazione?
Le proposte per combattere la disoccupazione si allineano secondo due direttrici, che potremmo chiamare dell’offerta e della domanda.
Secondo la prima la disoccupazione deriva dalla rigidità del mercato del lavoro: il livello minimo dei salari, le condizioni normative« e previdenziali che lo regolano. La crisi sarebbe di natura congiunturale, la soluzione strutturale sta nel fare evolvere l’offerta verso prodotti più sofisticati: quindi la necessità di investire massicciamente in formazione. Ma nel frattempo questa strada porta alla creazione della classe dei «lavoratori poveri» una situazione socialmente accettata negli Usa, ma che da noi investirebbe il fondamento stesso dei valori su cui è costruita la nostra società.
L’altra direttrice è quella che diremmo della domanda. Se abbiamo una crisi che avvita su se stessa (meno salari, meno consumi, meno domanda) bisogna sostenere la domanda agendo sul livello dei prezzi (versione protezionista), oppure sul suo volume, avviando grandi programmi di costruzione di infrastrutture. Il limite delle politiche della spesa sta nella possibilità di finanziarle: se con debiti, si innesca la spirale svalutazione-inflazione-aumento dei tassi; se con imposte, si riduce, insieme alla domanda, la possibilità di essere rieletti.
Le misure che i governi adottano si situano su entrambe le direttrici schematizzate: tutte hanno, se giudiziosamente impiegate, una loro utilità. Ma ormai anche chi le propone sa che neppure la ripresa ricreerà tutti i posti di lavoro perduti; che l’obbiettivo della piena occupazione è diventato non più realistico, che la società non è più in grado di promettere a tutti quelli che lo vogliono un posto di lavoro retribuito. Abbandonare quello che è stato l’obiettivo di emancipazione di oltre un secolo, che ha tenuto insieme le nostre società, in benessere e sicurezza crescenti, è una prospettiva sconvolgente, che non si può affrontare con misure in fondo ordinarie di politica economica.
Parlando di lavoro si intendono in realtà due cose diverse: il lavoro come una materia prima di cui c’è una disponibilità ed una richiesta, e lavoro nel senso di posto di lavoro. Ora nessuno può sostenere che del lavoro-materia prima non esista abbondanza: è davanti agli occhi di tutti che, come scrive Meinhard Miegel, «la quantità di lavoro non fatto diventa sempre maggiore: spingiamo davanti a noi una gigantesca montagna di problemi irrisolti, tutto lavoro I che non viene eseguito».
Quello che manca è quel «prodotto», fatto di altro la, voto, di idee, di innovazioni, in che consiste il posto di lavoro nelle economie industriali. Un «prodotto» estremamente appetibile, che offre soddisfazione, sicurezza, e che diventa sempre più ricercato e sempre più scarso.
Lo Stato sociale è in grado di offrire una soluzione in termini economici che è necessaria ma non sufficiente.
Necessaria e possibile, dato che il garantire a tutti condizioni decenti di sussistenza è un problema che, se presenta non piccole difficoltà implementative, è in teoria di pura distribuzione. Ma non è una risposta sufficiente: basta ascoltare le voci che la televisione porta nelle nostre case in questi giorni: parlano di preoccupazioni non solo economiche, ma esistenziali, richiedono non solo sicurezza ma identità.
Quello che appai-e necessario è un accordo sociale che parta da una ridefinizione del concetto di lavoro, che non lo restringa a quella «merce» sempre più rara che è il posto di lavoro organizzato e protetto, ma che si estenda a comprendere un insieme di lavoro retribuito e non retribuito, di tempo e di danaro, di lavoro dipendente e di lavoro in proprio, di tempo dedicato al lavoro e tempo dedicato alla famiglia. Si tratta di comprendere nel concetto di lavoro anche le attività basate sulla vocazione, la dedizione, la donazione, per usare le parole di Giorgio Fuà. Se vogliamo evitare la spaccatura della società tra chi è dentro e chi è fuori dal mercato del lavoro, tra chi è assistito e chi lavora, bisogna dare dignità di lavoro anche al lavoro non salariato. Lo Stato sociale ha reso possibile rompere l’equivalenza tra disoccupazione e povertà e miseria: dovrebbe ora essere possibile ricomprendere come lavoro, e distribuire nell’arco della vita di ognuno, attività che oggi sono percepite come non lavorative, o non percepite affatto, e trasformarle in attività lavorative.
L’adozione, od anche solo la considerazione di simili prospettive appare a tutti, anche a chi scrive, destabilizzante rispetto a convincimenti tanto radicati da sembrare l’ordine «naturale» delle cose. Ma, se è vera la prospettiva per cui non ci sarà mai più la società in cui chiunque voleva poteva avere un lavoro retribuito, quella che garantiva le antiche sicurezze, non si possono usare gli strumenti pratici e concettuali cui eravamo abituati. Non avere il coraggio di inventarne di nuovi potrebbe riservarci conflitti e fratture peggiori di quelli che le società industriali hanno conosciuto nel secolo scorso.
Tweet
gennaio 24, 1994