di Stefano Folli
Giunto quasi alla fine del suo brillante «pamphlet», scritto con la penna del polemista di vaglia, Franco Debenedetti butta lì una frase chiave, di quelle che inquadrano bene un problema storico e politico in dieci parole. Scrive Debenedetti che l’Italia di oggi avrebbe bisogno di un De Gaulle, mentre il modello di Mario Monti è Jean Monnet.
E poiché stiamo parlando del «peccato del professor Monti», si capisce che anche questa preferenza è parte integrante di una scelta peccaminosa, anzi la riassume alla perfezione. In verità questo piccolo, istruttivo saggio muove da un’idea saldamente liberale e da una diffidenza assoluta verso la democrazia consociativa, nonché da un cospicuo scetticismo nei confronti del «montismo» come proposta di governo. Al Monti politico, succeduto attraverso una rapida mutazione al Monti tecnico, Debenedetti rimprovera parecchie cose, ma una in particolare: voler sostituire la bontà astratta delle soluzioni “tecniche” al duro confronto politico fra passioni opposte. L’asse delle riforme come identità politica sostitutiva rispetto al vecchio asse destra-sinistra.
Debenedetti è appunto convinto che l’antica dialettica sia tutt’altro che da confinare nel museo delle chincaglierie politiche. Monti invece privilegia la distinzione fra chi è “riformista” e chi non lo è. Il nuovo Governo dopo il voto dovrà essere composto da “riformisti”, si suppone pescati anche in modo trasversale agli schieramenti, così da avviarli a scomposizione. Riformisti contro “conservatori”, questi ultimi da individuare a destra ma anche a sinistra. Per fare un esempio: Vendola sarebbe un conservatore, Pietro Ichino un riformista.
Come si è detto, Debenedetti contesta in modo radicale questa visione che a suo avviso fa rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta, ossia l’idea che il miglior governo possibile sia quello appaltato ai “tecnici” e ai competenti, al di fuori delle passioni politiche. I competenti sanno quali sono le riforme che realmente servono, i cui colori non sono mai quelli accesi e abbaglianti prodotti dallo scontro fra visioni diverse: è piuttosto il grigio di un’efficienza mai sovraesposta e mai piegata al mostro più volte indicato come il “male assoluto”: il populismo.
Riepiloghiamo. L’Europa resta l’approdo dei sostenitori e dei critici di Monti (non tutti, forse, ma una buona parte). E tuttavia gli europeisti vanno difesi da se stessi, o meglio da un eccesso di astrattezza. Illudersi che sia possibile giungere a breve termine a una «governance» in cui 500 milioni di persone votano insieme per eleggere i propri reggitori, è fuorviante. Come lo è cullare l’utopia di un «nation building» tecnocratico, al di là dei furori e se si vuole dei limiti della lotta politica.
Si arriva così a Jean Monnet. Lui, l’europeista a tutto tondo, il visionario dello Stato sovranazionale in cui si fondono e si mescolano le diverse patrie in nome della meritocrazia e della tecnica, sarebbe il vero punto di riferimento di Monti. Laddove invece, scrive Debenedetti, ci vorrebbe un De Gaulle, con la sua capacità concreta di edificare le nazioni, riscrivere le Costituzioni senza tabù, accendere e non sopire le passioni. Al fondo di tutto c’è la convinzione che il destino dell’Italia sia nel bipolarismo (destra vs sinistra), quando invece il montismo introduce il “terzo polo” e di fatto inquina il confronto e prelude a un nuovo consociativismo. Resta da capire a questo punto quanto le critiche di Debenedetti, peraltro assai bene argomentate, siano calzanti.
È vero che la candidatura di Monti rappresenta una rottura consapevole del bipolarismo. Così come è vero che l’appello per le riforme contiene un pizzico di ambiguità. Tuttavia si può replicare che per costruire bisogna prima distruggere. Nel futuro di Monti, se i dati del 25 febbraio non saranno impietosi, c’è l’implicita volontà di riassorbire l’intero centrodestra (senza Berlusconi, ovviamente) sotto la propria leadership. Ma ci vuole tempo. E per quanto riguarda le riforme, il rischio che tutto si risolva in un grande patto neo-consociativo, da Vendola a certi ambienti cattolici, è realistico. Ma in attesa dell’avvento di una società realmente liberal-democratica, le riforme sono quelle dettate dal buonsenso. E dall’Unione, piaccia o non piaccia. L’agenda Monti coincide con l’agenda dell’Europa, specie ora che ci sono segnali di disgelo nelle politiche di austerità. Senza passione, certo, ma con un pragmatismo da non buttare via.
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febbraio 18, 2013