Bin Laden, guerra a peccato americano

novembre 11, 2004


Pubblicato In: Articoli Correlati


di Luca Savarino

Non si può sconfiggere il terrorismo con le argomentazioni di una «guerra santa»

La guerra di Osama Bin Laden all’Occidente è una guerra fisica e metafisica, reale e simbolica: una guerra all’America e all’idea dell’America e dell’Occidente che essa rappresenta. Agli occhi dei terroristi, l’11 Settembre assumeva il carattere di una palingenesi, di un evento di purificazione e rinascita: l’attacco alle Torri Gemelle intendeva far rivivere un mito antico, il mito della distruzione della città del peccato, la Nuova Babilonia, simbolo del vizio e del materialismo americani, del dominio imperiale e capitalistico.

La raffigurazione della città occidentale corrotta è un tipico esempio di ciò che Ian Buruma e Avishai Margalit – Occidentalismo (Einaudi, pp. 163, ? 11.50), da oggi in libreria con una postfazione di Adriano Sofri che per dimensioni e profondità è quasi un libro-nel-libro – definiscono «occidentalismo»: l’immagine disumanizzante dell’Occidente dipinta dai suoi nemici.
L’occidentalismo ha un precedente illustre e simmetrico: lo scrittore palestinese Edward W. Said ha introdotto la nozione di «orientalismo» per indicare l’immagine deformata dell’Oriente prodotta dall’Occidente europeo, specialmente nel XIX e agli inizi del XX secolo, al fine di esercitare la propria influenza ed egemonia. Le analisi di Said erano guidate da un intento critico: si trattava di mettere in luce la non neutralità di un «sapere» – sorretto da «istituzioni, insegnamenti, immagini, dottrine, e, in certi casi, da burocrazie e politiche coloniali» – che avanzava la pretesa di essere scientifico, ma in realtà si prestava a sostenere lo sfruttamento coloniale. Per l’orientale Said, la risposta all’orientalismo non poteva, tuttavia, consistere nel suo capovolgimento, vale a dire nella costruzione di un’immagine speculare, altrettanto distorta, dell’Occidente.

Le cose sono andate diversamente. L’odio verso l’Occidente non si è sviluppato solo nell’Islam contemporaneo, ma riguarda contesti ed epoche molto differenti tra loro: «guerre contro l’Occidente sono state dichiarate in nome dell’anima russa, della stirpe germanica, dello stato shinto, del comunismo e dell’Islam». Se ne può ricostruire una sorta di modello ideale: per le culture altre, occidentale significa moderno, e modernità è sinonimo di tecnica. L’Occidente viene identificato con una mentalità scientifica e strumentale, non più in possesso di un fine davvero umano. La razionalità stessa diventa il fine: l’occidentalismo è una reazione alla fede nella tecnica. L’islamismo, in particolare, è la fonte principale dell’ occidentalismo religioso della nostra epoca, una combinazione sinora inedita di fondamentalismo religioso e di radicalismo politico. Si rifiuta una modernizzazione che viene percepita come perdita della cultura e della religione tradizionali. Al peccato originale della ragione che si erge a unico fine dell’esistenza, fa da contraltare l’idea di un’origine pura e non corrotta. Tra le ragioni dell’odio vi è la morale sessuale e l’avversione per la figura della donna occidentale «grande meretrice»: come se – con le parole di Sofri – la libertà delle donne «le riassumesse tutte».

Il «cuore» del libro è il confronto con le tesi di Samuel Huntington. «Conflitto di civiltà o no?», si chiede Giovanni Sartori nella prefazione a Jihad, le radici, di Luciano Pellicani (Luiss University Press, 2004), segnalando come molti critichino Huntington, ma poi non possano fare a meno di confrontarsi con le sue tesi: il conflitto nasce dall’«aggressione culturale» – secondo un’espressione di Arnold J. Toynbee – cui l’Occidente sottopone le altre civiltà in un’epoca in cui la globalizzazione ha raggiunto dimensioni planetarie. La civiltà islamica è incapace di una risposta flessibile al contatto con l’Occidente perché le sue strutture sociali e i suoi modelli culturali sono troppo rigidi. La speranza di separare la componente islamica moderata da quella radicale – Sartori cita Daniel Pipes, consulente di Bush sul mondo islamico – è destinata al fallimento.
In realtà, tra le ragioni del rifiuto delle idee di Huntington vi è il fatto che, spesso, queste vengano intese in senso prescrittivi e non descrittivo, come nelle intenzioni dell’autore. «Lo scontro di civiltà – scrive Sofri -, sta tra la constatazione e l’auspicio. Il secondo è odioso, la prima non è così infondata».
Buruma e Margalit non negano che lo scontro sia scontro tra culture, semplicemente mostrano come più originario dello scontro sia l’incrocio tra le culture stesse. L’esempio tipico riguarda il Giappone: il simbolo della reazione all’industrializzazione di fine ottocento e inizio novecento – il pilota kamikaze disposto a sacrificare la vita per la causa del proprio paese – non deriva dalla tradizione autoctona e dai suoi codici guerrieri, ma dalla reinterpretazione di questi stessi codici alla luce di modelli culturali occidentali, in particolare il nazionalismo romantico. Il Giappone non fu l’unico paese non occidentale a reagire alla modernizzazione adottando alcune idee occidentali estreme: anche i modelli culturali attraverso cui il fondamentalismo islamico fa la guerra all’Occidente sono una sintesi di «tradizioni native reinterpretate » e delle moderne ideologie totalitarie, di destra e di sinistra. Le tracce di una simile contaminazione di idee si trovano nelle biografie di molti ideologi dell’islamismo: tra gli altri, è il caso di Sati’ Husri, uno dei fondatori del baathismo, l’ideologia del governo siriano e dell’Irak di Saddam Hussein, «una sintesi, forgiata tra il 1930 e il 1940, di fascismo e di nostalgia romantica per una comunità “organica” di arabi»; o quello di un pioniere dell’Islam rivoluzionario in Iran, come Ali Shari’ati, che ha trasformato il marxismo in una versione purista dell’Islam.

L’opposizione tra un Occidente razionalista e un Oriente religioso è infondata perché «i due estremi sono pericolosamente intrecciati». Il terrorismo suicida non è il prodotto di povertà, sottosviluppo, od oppressione straniera, ma il frutto di una ibridazione e di una diffusione di stereotipi influenzati dalla cultura occidentale. «Quella che abbiamo raccontato in questo libro non è la storia manichea di una civiltà in guerra con un’altra. Al contrario, è la storia di una contaminazione incrociata di cattive idee». Buruma e Margalit riprendono uno schema già proposto da autori come Andrè Glucksmann e John Gray, secondo cui l’islamismo radicale consisterebbe in una difesa dalla colonizzazione che volge «l’Occidente contro l’Occidente».
L’occidentalismo nasce da un rifiuto della modernità figlio della modernità stessa: a quel punto, però, la religione tradizionale non è più la stessa, l’origine perduta non può più essere recuperata.
Nel suo ultimo libro, Le discours de la haine (Plon, 2004), Glucksmann sostiene che per vincere la sfida contro il terrorismo non è sufficiente esercitare una pressione di carattere materiale – economico o militare – ma è necessario intraprendere una «battaglia di idee», destinata a durare decenni. In maniera simile, Buruma e Margalit si chiedono come pensare per difendere il mondo delle democrazie liberali, e l’idea stessa di Occidente, dai loro nemici. Per molti paesi non occidentali, la sfida sembra consistere nella possibilità di pensare ad una modernizzazione che non sia, o non venga scambiata, per una forma di occidentalizzazione.
La modernità è una sola, come ci hanno insegnato gli illuministi, oppure ne esistono altre? E «la secolarizzazione, o quantomeno un ritiro della religione dalla sfera pubblica » ne è una condizione necessaria?
Il problema mai risolto dai primi modernizzatori – che spiega il fascino esercitato dal marxismo in molti paesi non occidentali – fu proprio la ricerca di una via alternativa alla modernità: «come modernizzare senza diventare un semplice clone dell’occidente».
Nel frattempo, l’invito di Buruma e Margalit è a non pensare che l’Occidente sia in guerra con l’Islam. La vera battaglia si combatte all’interno del mondo islamico, ed è simile a quella che l’Occidente ha vinto in un passato non lontano: la battaglia tra libertà e totalitarismo.
Bisogna allontanare la tentazione, comune a molte retoriche del conflitto, di cedere a un’immagine dell’Occidente simile a quella dei suoi nemici. Un’immagine che dipinge l’Occidente con i tratti della debolezza e del nichilismo, e invoca il ritorno della religione, perduta o ritrovata, come arma contro il nemico. La vera posta in gioco della battaglia di idee è la possibilità che la fermezza nella lotta al terrorismo non si giustifichi con argomentazioni da guerra santa. Altrimenti, «diventeremmo tutti occidentalisti, e non resterebbe nulla da difendere».

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: