Da qualche settimana, il mondo delle banche italiane sembra essere entrato in una fase di grande movimento. Si è iniziato con l’annuncio del progetto di fusione tra BNL e Banco di Napoli; è seguita, ed è tuttora in corso, una grande attivita’ sui titoli del Credito Italiano; il S.Paolo ha annunciato un piano che, se sarà portato a termine, darebbe luogo alla prima vera privatizzazione da parte di una fondazione — con il che si dimostrerebbe che cio’ che impedisce di vendere le banche, anche le piu’ grandi, non e’ la limitatezza del mercato, bensì’ la volonta’ dei proprietari: come abbiamo sempre sostenuto.
Invece di cogliere questi segnali, e di favorire il processo di privatizzazione delle banche pubbliche, il Governo ha approvato un disegno di legge, in cui le parole “privatizzazione” e “quota di controllo”, neppure compaiono. Il disegno di legge elimina si’ alcuni ostacoli che le fondazioni potevano invocare per giustificare la loro volonta’ di non vendere le banche, ma poi, quanto alla perdita del controllo, non pone obbiettivi o tanto meno vincoli, non stabilisce un limite temporale per la dismissione delle banche, come pure faceva la direttiva Dini, e offre incentivi fiscali limitati (tant’e’ che, per la copertura, il provvedimento stanzia non più di 50 Mld in 3 anni a fronte di patrimoni da dismettere valutati tra 30.000 e 50.000 Mld).
Quale e’ il meccanismo che dovrebbe indurre le fondazioni a vendere le banche? Il disegno di legge prevede che le fondazioni, sottoposte alla vigilanza di un’Authority, conseguano ogni anno una redditivita’ superiore a una soglia minima. Poiche’ si ritiene che la redditivita’ delle banche non raggiungera’ tale soglia, ecco che le fondazioni dovrebbero vendere le banche e investire il proprio patrimonio in attivita’ piu’ redditizie. Ma proprio qui sta l’inefficacia del progetto: a quale valore patrimoniale fara’ riferimento l’Authority? Se prendera’ a riferimento il valore di libro del patrimonio, richiedera’ una reddivita’ irrealizzabile, e le fondazioni troveranno in cio’ una ragione in piu’ per resistere. Se lo calcolera’ sul valore di mercato delle banche, le fondazioni non avranno alcuna convenienza a vendere, dato che il mercato valuta le banche proprio in base alla loro redditivita’. Il disegno di legge non introduce quindi alcun incentivo alla privatizzazione delle banche pubbliche.
Ma anche una legge inefficace puo’ provocare danni: come si constata dal moltiplicarsi degli interventi che essa sta suscitando, e che rimettono in discussione le ragioni stesse della privatizzazione delle banche (anche a costo di apparire monomaniaci, vorremmo ricordare ancora una volta che, anche dopo la privatizzazione di IMI, COMIT E CREDIT, le banche pubbliche contano per il 60,3 percento dell’intera raccolta, per il 64,4 percento degli impieghi, per il 52,2 percento del totale degli sportelli, per il 56,8 percento dei dipendenti) tre argomenti sono stati sollevati contro l’urgenza di privatizzare le banche:
1) argomento microeconomico: i guasti del sistema bancario italiano — frammentazione, costi elevati, bassa redditivita’ — non sono imputabili alla proprieta’. Essi dipendono in larga misura da resistenze sindacali e da tassazione eccessiva. La natura della proprieta’, pubblica o privata e’ ininfluente rispetto all’efficienza, almeno nella fase di ristrutturazione. Quindi prima ristrutturare, poi privatizzare.
2) argomento di politica economica: il sistema bancario e’ troppo importante perche’ la ricerca di assetti proprietari piu’ efficienti sia lasciata al mercato. E’ opportuno che essi vengano pilotati da una qualche autorita’.
3) argomento giuridico: perche’ mai una fondazione, o una libera associazione di cittadini non dovrebbe possedere una banca?
Chi ha detto che le fondazioni non sono private?
Si perde cosi’ completamente di vista la realta’: che i vertici delle fondazioni, e non solo delle maggiori di cui si occupano le cronache, sono ancora oggi, Febbraio del 1997, oggetto di contesa politica, cioe’ di spartizione tra i partiti; che questa spartizione ha per posta il controllo delle banche, e che cio’ ha avuto un’influenza determinante nell’isolare le banche dal processo di ammodernamento che ha coinvolto tanti altri settori dell’economia del nostro paese; che non ha senso privatizzare le imprese se non si privatizza il credito che ne sostiene lo sviluppo ; che e’ vano voler introdurre regole di governo societario nelle imprese, e poi negarlo nel controllo della linfa finanziaria che le alimenta.
Quanto alla prima obbiezione, quella microeconomica, si puo’ solo notare che essa avanza gli stessi argomenti dei difensori d’ufficio dei monopoli pubblici. Rimaniamo sinceramente disarmati difronte a chi rimette in discussione cio’ che sembrava acquisito: che l’Italia ha deciso di essere un’economia di mercato, in cui si lascia ai privati la gestione delle attivita’ economiche. Duole solo che certi argomenti vengano avanzati da chi esplicitamente si richiama a tali principi.
Veniamo ora all’argomento di politica economica, secondo cui gli assetti proprietari delle banche dovono essere frutto di “un certo governo dei processi”, come autorevolmente affermato nel recente convegno del PDS a Siena.
La tesi trova conferma in questa legge che aggiunge alla vigilanza della Banca d’Italia una nuova Autorita’ e, nell’interim, il controllo del Ministero del tesoro. Ma per ottenere assetti proprietari piu’ efficienti, non serve moltiplicare i controlli, cosi’ come spesso purtroppo non serve, ad impedire l’influenza politica, procedere a nomine eccellenti. “Chi garantira’ la realizzazione di questa sorta di dover essere?” si chiedeva Lanfranco Turci a Siena. Non esiste risposta a questa domanda: e questa era l’occasione per dimostrare di averlo capito. Finche’ le decisioni sono affidate ad un’Autorita’, non esiste virtu’ che possa dare questa garanzia, non esiste nomina che non sia controversa. Era l’occasione per dimostrare che si vuole abbandonare il dirigismo come costituzione materiale, e il controllo partitico come metodo per realizzarla.
Il sistema da noi proposto aveva anche il merito di significare una scelta emblematica per i meccanismi di mercato, e offriva incentivi forti per favorire le necessarie concentrazioni, ma anche garanzie contro concentrazioni eccessive. Le reazioni che abbiamo ricevuto testimoniano della trasversalita’ dello schieramento che rifiuta una scelta cosi’ netta. Ma almeno lo si riconosca, e ci si astenga dal contrabbandare l’incapacità di abbandonare schemi obsoleti per una grande riforma.
Ma e’ l’argomentazione giuridica la piu’ insidiosa. Si era giunti, se pur con difficoltà, ad un consenso: Essere i cosiddetti “Enti conferenti”, e cioè fondazioni e associazioni, soggetti pubblici poichè nati da un atto pubblico, la legge Amato che li istituisce. e con tale interpretazione concorda anche il nuovo disegno di legge, la’ dove (comma 2 art. 2) sancisce che “con l’approvazione delle modifiche statutarie gli enti diventano persone giuridiche private”, se lo diventano, vuol dire che oggi non lo sono. Ma proprio questo e’ l’aspetto piu’ grave della legge. Si concede a fondazioni ed associazioni lo stato giuridico di soggetti privati – con ciò privando per sempre lo stato del potere di intervenire – senza chiedere alcunchè in cambio, soprattutto senza che, preventivamente, fondazioni e associazioni abbiano ceduto il controllo delle proprie banche. In altre parole, dopo che cinque successivi governi hanno affermato la necessita’ di privatizzare le banche, dopo aver tanto discusso su come farlo, non si trova di meglio che risolvere il problema della privatizzazione trasformando ope legis i soggetti che possiedono le banche da pubblici a privati. Ego te baptizo piscem, dicevano gli abati nel medioevo, e cosi’ pensavano di salvarsi l’anima.
Che un Governo si dichiari incapace di risolvere un problema di tanta importanza, fonte di disfunzioni ed inefficienze quotidianamente deprecate, e’ grave; che si operi per perpetuarlo, spogliando anche i Governi futuri della possibilita’ di porvi mano, e’ sinceramente inaccettabile.
febbraio 13, 1997