Banche: meglio private in tempi certi che così per sempre

novembre 30, 1995


Pubblicato In: Varie


Quella delle banche è, di tutte le privatizza­zioni, la più impor­tante. Per i cittadini, la garanzia che i pro­pri risparmi siano ge­stiti in modo sicuro ed efficiente è più importante che non po­ter scegliere tra due servizi telefonici in concorrenza tra loro; per le aziende il costo del danaro è più importante che il co­sto dell’energia elettrica; per le nuove iniziative la disponibilità di finanzia­menti è più determinante che l’apertu­ra di nuovi spazi di attività.

La strada che ha portato alla consape­volezza che si deve privatizzare quel 60 per cento di sistema creditizio an­cora in mano pubblica perché detenu­to da fondazioni è stata lunga e tor­tuosa; le resistenze che si incontrano sono forti e si sono palesate con le reazioni suscitate dal disegno di legge che ho presentato a metà settembre, che po­ne tempi certi e offre procedure defi­nite al compiersi di questo processo. Eppure privatizzare le banche è van­taggioso per tutti: per il sistema eco­nomico in generale, per le banche, per le fondazioni che le controllano.

È abbastanza evidente che l’ottimo per un’economica si raggiunge quando o­gni impresa è controllata dalla perso na più idonea: perché ciò si verifichi nel corso della vita di un’impresa bi­sogna che tutti possano concorrere al­l’acquisizione del suo controllo, che funzioni quindi un efficiente mercato per l’allocazione dei diritti di proprietà. Se ciò che è pubblico è per definizio­ne sottratto al possibile acquisto da parte di chi potrebbe gestire l’impresa in modo più efficiente, è evidente che la proprietà pubblica è di per sé causa di inefficienza. Ma lo sono anche tutti i meccanismi che concentrano in mano a pochi il controllo e lo sottraggono al­la concorrenza tra possibili acquirenti. Il massimo di pressione competitiva sul management si ottiene quando le a­ziende sono scalabili: in tal modo in­fatti il mercato finanziario esercita un continuo monitoraggio sull’attività del­le imprese. Ma, come ha detto re­centemente Dini. «se la banche devo­no contribuire, anche tramite l’assun­zione di partecipazioni, a un efficace monitoraggio dell’attività delle impre­se, a maggior ragione la loro struttura proprietaria deve assicurare un moni­toraggio altrettanto efficace. Quis cu­stodiet custodes?»

La privatizzazione è anche nell’inte­resse delle banche. È noto che il nostro sistema bancario è assai inefficiente: personale pletorico, stipendi elevati (il costo medio è di 107 milioni per di­pendente all’anno), estrema frammen­tazione con presenza di molte banche di piccole dimensioni. La proprietà `pietrificata’ nelle mani delle fonda­zioni può avere protetto per un certo periodo le banche da pressioni concor­renziali: liberarle oggi significherebbe dare al management delle banche mag­giore libertà di azione, e consentireb­be il processo di concentrazione ne­cessario alla loro funzionalità. È stato Zandano, del San Paolo, a indicare co­me i profitti delle banche siano scesi in tre anni da 8 mila a poco più di 400 Mld. E le disastrose condizioni in cui versa il Banco di Napoli o il Banco di Sicilia stanno a dimostrare quali pos­sano essere le conseguenze di attività creditizie non ispirate a economicità gestionale.

La privatizzazione è anche nell’inte­resse delle fondazioni. La legge Ama­to ha separato banche, costituite in SpA, da fondazioni. Le banche infatti sono imprese a fini di lucro, le fonda­zioni dovrebbero andare a costituire il `terzo settore’, che svolga, con i pro­venti del proprio patrimonio e con la raccolta di erogazioni da parte dei cit­tadini, attività di interesse pubblico nel­la ricerca, nella formazione superiore, nell’assistenza sanitaria. Perché ciò av­venga è necessario che la fondazione diversifichi il proprio patrimonio, lo investa alla ricerca di un maggior red­dito, e si doti di una gestione profes­sionale nei campi di attività che si sarà scelti. La dismissione dell’attività ban­caria fino al limite che comporti la per­dita del controllo è quindi condizione necessaria perché le fondazioni possa­no riorientare la propria attività. Se, co­me concordemente affermano, questa è anche la loro intenzione, dovrebbero accogliere con interesse iniziative che indicano tempi uguali per tutti per le dismissioni, e forniscono strumenti le­gislativi che le facilitino. Se il termine che ho indicato (3 anni, cui si deve ag­giungere il tempo per l’iter parlamen­tare del provvedimento) pare troppo ri­dotto, se ne indichino le ragioni e si contropropongano altri termini. In ca­so contrario risulterà chiaro a tutti che altre sono le ragioni dell’opposizione: ciò che si intende preservare non è il valore economico della banca , ma il potere legato al suo possesso.

In soldoni la mia proposta

Propongo tre percorsi per la ven­dita delle banche da parte delle fondazioni.

Il primo è un percorso volonta­rio e dura 18 mesi. Le fonda­zioni hanno la più ampia libertà di scelta quanto a strumenti per vendere: trattativa diretta, offerta pubblica, asta pubblica. Alla fine la partecipazione della fondazione nella banca de­ve essere sotto il 15 per cento del capitale. Ovviamente so­no impedite le partecipazioni incrociate tra fondazioni.

Se invece alla fine dei 18 mesi la fondazione detiene una percentuale di azioni superiore al 15 per cento, scatta il per­corso automatico. Le fondazioni distribuiscono dei buoni di acquisto a tutti i dipendenti, ex dipendenti e persone fisiche che intrattengono rapporti finanziari con la banca (con­ti correnti, mutui, prestiti, quote di fondi di investimento della banca). Ogni buono dà diritto a sottoscrivere le azio­ni della banca ancora in possesso della fondazione. I buoni sono cedibili: il destinatario del buono può o esercitare il diritto di acquisto o venderlo in borsa, dove i buoni vengo­no trattati per un periodo di tre mesi. Il prezzo di sottoscri­zione delle azioni è pari a tre volte il prezzo medio negli ultimi due mesi di negoziazione in borsa. Il vantaggio economi­co offerto a dipendenti, ex di­pendenti e correntisti è quindi del 25 per cento.

Il meccanismo offre alcuni im­portanti vantaggi: il valore del­la banca non viene fissato da advisor e valutatori, ma è de­terminato dal mercato stesso; si esalta il radicamento loca­le delle fondazioni e delle banche, che si concretizza in co­loro che con la banca hanno rapporti di lavoro o di affari; si gettano le basi per un autentico azionariato popolare di massa: sì calcola che il numero dì aventi diritto ai buoni possa superare di molto i 10 milioni di persone.

Quanto può valere un buono? Dipende da quante azioni re­steranno alla fondazione dopo il primo periodo: nel caso del San Paolo, se si trattasse di vendere oltre il 50 per cento e se gli aventi diritti fossero un milione e mezzo di persone, il valore del buono sarebbe nell’ordine di 500mila lire a testa. Il terzo percorso riguarda le banche con gravi problemi, per le quali è improbabile che, nelle attuali condizioni, si trovi un acquirente. Per esse è previsto il commissariamento del­la fondazione proprietaria e l’intervento del Tesoro.

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