Quella delle banche è, di tutte le privatizzazioni, la più importante. Per i cittadini, la garanzia che i propri risparmi siano gestiti in modo sicuro ed efficiente è più importante che non poter scegliere tra due servizi telefonici in concorrenza tra loro; per le aziende il costo del danaro è più importante che il costo dell’energia elettrica; per le nuove iniziative la disponibilità di finanziamenti è più determinante che l’apertura di nuovi spazi di attività.
La strada che ha portato alla consapevolezza che si deve privatizzare quel 60 per cento di sistema creditizio ancora in mano pubblica perché detenuto da fondazioni è stata lunga e tortuosa; le resistenze che si incontrano sono forti e si sono palesate con le reazioni suscitate dal disegno di legge che ho presentato a metà settembre, che pone tempi certi e offre procedure definite al compiersi di questo processo. Eppure privatizzare le banche è vantaggioso per tutti: per il sistema economico in generale, per le banche, per le fondazioni che le controllano.
È abbastanza evidente che l’ottimo per un’economica si raggiunge quando ogni impresa è controllata dalla perso na più idonea: perché ciò si verifichi nel corso della vita di un’impresa bisogna che tutti possano concorrere all’acquisizione del suo controllo, che funzioni quindi un efficiente mercato per l’allocazione dei diritti di proprietà. Se ciò che è pubblico è per definizione sottratto al possibile acquisto da parte di chi potrebbe gestire l’impresa in modo più efficiente, è evidente che la proprietà pubblica è di per sé causa di inefficienza. Ma lo sono anche tutti i meccanismi che concentrano in mano a pochi il controllo e lo sottraggono alla concorrenza tra possibili acquirenti. Il massimo di pressione competitiva sul management si ottiene quando le aziende sono scalabili: in tal modo infatti il mercato finanziario esercita un continuo monitoraggio sull’attività delle imprese. Ma, come ha detto recentemente Dini. «se la banche devono contribuire, anche tramite l’assunzione di partecipazioni, a un efficace monitoraggio dell’attività delle imprese, a maggior ragione la loro struttura proprietaria deve assicurare un monitoraggio altrettanto efficace. Quis custodiet custodes?»
La privatizzazione è anche nell’interesse delle banche. È noto che il nostro sistema bancario è assai inefficiente: personale pletorico, stipendi elevati (il costo medio è di 107 milioni per dipendente all’anno), estrema frammentazione con presenza di molte banche di piccole dimensioni. La proprietà `pietrificata’ nelle mani delle fondazioni può avere protetto per un certo periodo le banche da pressioni concorrenziali: liberarle oggi significherebbe dare al management delle banche maggiore libertà di azione, e consentirebbe il processo di concentrazione necessario alla loro funzionalità. È stato Zandano, del San Paolo, a indicare come i profitti delle banche siano scesi in tre anni da 8 mila a poco più di 400 Mld. E le disastrose condizioni in cui versa il Banco di Napoli o il Banco di Sicilia stanno a dimostrare quali possano essere le conseguenze di attività creditizie non ispirate a economicità gestionale.
La privatizzazione è anche nell’interesse delle fondazioni. La legge Amato ha separato banche, costituite in SpA, da fondazioni. Le banche infatti sono imprese a fini di lucro, le fondazioni dovrebbero andare a costituire il `terzo settore’, che svolga, con i proventi del proprio patrimonio e con la raccolta di erogazioni da parte dei cittadini, attività di interesse pubblico nella ricerca, nella formazione superiore, nell’assistenza sanitaria. Perché ciò avvenga è necessario che la fondazione diversifichi il proprio patrimonio, lo investa alla ricerca di un maggior reddito, e si doti di una gestione professionale nei campi di attività che si sarà scelti. La dismissione dell’attività bancaria fino al limite che comporti la perdita del controllo è quindi condizione necessaria perché le fondazioni possano riorientare la propria attività. Se, come concordemente affermano, questa è anche la loro intenzione, dovrebbero accogliere con interesse iniziative che indicano tempi uguali per tutti per le dismissioni, e forniscono strumenti legislativi che le facilitino. Se il termine che ho indicato (3 anni, cui si deve aggiungere il tempo per l’iter parlamentare del provvedimento) pare troppo ridotto, se ne indichino le ragioni e si contropropongano altri termini. In caso contrario risulterà chiaro a tutti che altre sono le ragioni dell’opposizione: ciò che si intende preservare non è il valore economico della banca , ma il potere legato al suo possesso.
In soldoni la mia proposta
Propongo tre percorsi per la vendita delle banche da parte delle fondazioni.
Il primo è un percorso volontario e dura 18 mesi. Le fondazioni hanno la più ampia libertà di scelta quanto a strumenti per vendere: trattativa diretta, offerta pubblica, asta pubblica. Alla fine la partecipazione della fondazione nella banca deve essere sotto il 15 per cento del capitale. Ovviamente sono impedite le partecipazioni incrociate tra fondazioni.
Se invece alla fine dei 18 mesi la fondazione detiene una percentuale di azioni superiore al 15 per cento, scatta il percorso automatico. Le fondazioni distribuiscono dei buoni di acquisto a tutti i dipendenti, ex dipendenti e persone fisiche che intrattengono rapporti finanziari con la banca (conti correnti, mutui, prestiti, quote di fondi di investimento della banca). Ogni buono dà diritto a sottoscrivere le azioni della banca ancora in possesso della fondazione. I buoni sono cedibili: il destinatario del buono può o esercitare il diritto di acquisto o venderlo in borsa, dove i buoni vengono trattati per un periodo di tre mesi. Il prezzo di sottoscrizione delle azioni è pari a tre volte il prezzo medio negli ultimi due mesi di negoziazione in borsa. Il vantaggio economico offerto a dipendenti, ex dipendenti e correntisti è quindi del 25 per cento.
Il meccanismo offre alcuni importanti vantaggi: il valore della banca non viene fissato da advisor e valutatori, ma è determinato dal mercato stesso; si esalta il radicamento locale delle fondazioni e delle banche, che si concretizza in coloro che con la banca hanno rapporti di lavoro o di affari; si gettano le basi per un autentico azionariato popolare di massa: sì calcola che il numero dì aventi diritto ai buoni possa superare di molto i 10 milioni di persone.
Quanto può valere un buono? Dipende da quante azioni resteranno alla fondazione dopo il primo periodo: nel caso del San Paolo, se si trattasse di vendere oltre il 50 per cento e se gli aventi diritti fossero un milione e mezzo di persone, il valore del buono sarebbe nell’ordine di 500mila lire a testa. Il terzo percorso riguarda le banche con gravi problemi, per le quali è improbabile che, nelle attuali condizioni, si trovi un acquirente. Per esse è previsto il commissariamento della fondazione proprietaria e l’intervento del Tesoro.
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novembre 30, 1995