La contingenza pre-contrattuale può giustificare che si alzino i toni; ma se le analisi sono tanto semplificatrici da apparire rozze, il risultato nuoce alla credibilità stessa di chi le enuncia.
Stiamo parlando, come si sarà capito, della recente intervista di Sergio Cofferati “Un capitalismo egoista sta fiaccando l’economia” (La Repubblica, 4 maggio ). Sarebbe fin troppo facile ribattere ricordando quanta responsabilità sindacale ci sia nei vincoli che ostacolano lo sviluppo, dalla flessibilità alla burocrazia centrale e locale, dai trasporti alla scuola. Ma il problema posto da Cofferati é un altro e va affrontato con serietà non fosse altro perché il suo “senza qualità” sembra riecheggiare, sia pure con toni e accenti assai diversi, il “senz’anima” pronunciato pochi giorni fa da Carlo Azeglio Ciampi.
Il sillogismo del segretario della CGIL é questo: c’è crisi perché i prodotti sono senza qualità; sono senza qualità perché sono prodotti da capitalisti senza qualità. I capitalisti sono senza qualità perché badano solo alla variabile finanziaria, espressione questa con cui probabilmente si vuole indicare il profitto. E con ciò si pone un duplice problema, uno che riguarda le imprese, l’altro la politica.
Per Cofferati l’attività di impresa é scissa in due, da un lato la produzione dall’altro il suo finanziamento. Per quanto riguarda la produzione, il sindacato sembra avere completamente accettato i principi della liberalizzazione e privatizzazione: le OPA sulle banche devono essere consentite perché permettono loro di crescere; riconsegnare Telecom privatizzata ad un investitore pubblico, lo Stato tedesco, è “un paradosso”, un progetto “elaborato in condizioni di emergenza che consegna all’accordo coi tedeschi una società priva di potere contrattuale”; l’Enel “dovrà essere privatizzata al più presto”.
Se la produzione é il positivo, l’attività di finanziamento dell’impresa é il negativo. In un mondo stanno gli assetti produttivi, nell’altro il loro valore finanziario, di cui i capitalisti approfittano; in uno il contenuto industriale, nell’altro la plusvalenza di brevissimo periodo. Se i nostri industriali “non rischiano, non investono”, cioè non mettono radici profonde nel primo mondo, è perché la loro testa é nel secondo e “badano solo alla variabile finanziaria”.
Prima di privatizzare, sostiene Cofferati, si sarebbero dovuti far nascere i fondi pensione. Ma quali? Si diffonde un colossale equivoco nominalistico: perché i fondi pensione, quelli veri, sono investitori spietatamente esigenti verso i manager; sono stati loro a scrivere e diffondere il nuovo vangelo della “creazione del valore”, ad esigere che si adottassero proprio le pratiche di riduzione del capitale e ricorso massiccio all’indebitamento come pungolo per l’efficienza, e di riduzione dei perimetri aziendali vendendo attività non centrali o meno redditizie: proprio le pratiche finanziarie che Cofferati aborre, e senza le quali risulta incomprensibile perché mai in una public company “la qualità del prodotto e del produrre” dovrebbe essere migliore.
I fondi pensione che servono a questa visione sono diversi: anziché preoccuparsi di far rendere i patrimoni da cui dipendono le condizioni di chi ha risparmiato per una vita, dovrebbero essere poco esigenti; dovrebbero investire per proteggere l’italianità delle imprese, anche se all’estero ci sono occasioni di investimento migliori; dovrebbero intraprendere strategie che privilegiano l’aumento della dimensione anche a scapito della redditività. Invece del capitalista egoista, il fondo pensione generoso: a spese dei pensionati. Non si hanno forse tutti i torti ad addossare agli industriali responsabilità per il mancato decollo dei fondi pensione: ma se questi dovessero esserne i criteri di gestione, meglio per i lavoratori tenersi il vecchio TFR!
Il modello che così si delinea é ben noto: poggia su un sistema di regole per cui non sia possibile contrastare la convergenza tra management e dipendenti per attuare strategie volte prioritariamente a ridurre i rischi e ad aumentare la dimensione d’impresa; ed é sostenuto da investitori istituzionali, meglio se controllati dai sindacati stessi, che li finanzino senza troppe pretese. Questa sarebbe la “democrazia economica”.
E “non accrescere la democrazia economica” è l’accusa che il leader del maggior sindacato muove al Governo, a questo Governo, ponendo così un problema politico. Su come si debba intendere la “sfida riformatrice di una sinistra moderna” l’opinione di Cofferati é netta: gli “avversari” sono “i capitalisti”, che “sui nuovi assetti di potere cercano di non farti toccare palla”. Se si abbraccia questa visione solo due possono essere le conseguenze: o il Governo diventa espressione attiva di una concezione penalizzante per l’impresa; oppure é il sindacato costretto ad avere rapporti conflittuali con una sinistra al Governo capace di perseguire interessi generali.
Spiace dirlo: Giorgio Amendola e Luciano Lama avevano dato, su questo punto, risposte più chiare.
maggio 6, 1999