Si deve procedere con le privatizzazioni di Eni ed Enel
Portare a termine le due più importanti privatizzazioni, quella di Eni e di Enel, è il compito a cui il Governo deve ora mettere mano con decisione.
Il Governo incontra difficoltà a procedere su molti dei fronti aperti: Alitalia, Finmeccanica, le Poste, la RAI, i residui poteri delle fondazioni bancarie, le resistenze dei Comuni nei servizi pubblici locali. Difficoltà che non si disconoscono, ma che sono un motivo in più per mirare all’obbiettivo grosso, portare cioè a termine due grandi operazioni.
Fu una difficoltà, per Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro di un Governo che si reggeva col voto di Rifondazione Comunista, vendere la telefonia di Stato; successivamente, fu difficile vendere quote dell’Enel e la maggioranza di ENI. Sarebbe ben strano se questo Governo accampasse qualche ragione per non dismettere il controllo delle due aziende simbolo dell’intervento dello stato nell’economia: l’Enel di Lombardi e del primo centrosinistra, e l’ENI di Mattei e della sinistra democristiana.
Nella congiuntura attuale diventa essenziale sciogliere l’equivoco, caro ai nostalgici di Mattei, secondo il quale nel settore energetico sussiste un nesso essenziale tra politica aziendale e politica estera. Se questo nesso fosse davvero ferreo, bisognerebbe concludere che è stato un errore avviare la quotazione in Borsa. Poiché, grazie al cielo, questa premessa sbagliata non è mai stata posta, occorre sciogliere al più presto il nodo del conflitto di interessi tra l’azionista pubblico e le migliaia e migliaia di azionisti privati. Perché è questo conflitto, che situazioni di tensione internazionale come quella in corso rischiano di fare esplodere, a produrre un perdente sicuro: gli azionisti di minoranza, che non sono parte attiva nel decidere le proiezioni di forza tentate o abortite dell’Italia nella corsa ad assicurarsi un ruolo nella geografia politica mondiale.
L’obiezione di chi non vuole vendere è il ritornello del “non svendere”. E cioè la tesi che sui mercati azionari fortemente depressi dell’ultimo anno e mezzo, primo, ci siano pochi compratori; e secondo, che il prezzo non sarebbe adeguato. Quanto ai compratori l’assunto non è assiomatico: non si fanno sotto gli acquirenti se il bene non è in vendita. Quanto all’inadeguatezza del prezzo, a contrastare questo argomento è volta la proposta che segue.
Il 33 % di ENI ed il 68% di Enel, che il Tesoro detiene, valgono oggi circa 45 miliardi di euro. Se il Tesoro ritiene che questo valore sia depresso dall’attuale andamento dei mercati mobiliari, questa non è una ragione per non privatizzare. Lo strumento di tutela contro il rischio di vendere in una congiuntura non favorevole è molto semplice. Il totale dei titoli Oil&Gas nel mondo vale 1.600 miliardi euro: i circa 18 miliardi di euro della partecipazione in ENI ne rappresentano l’1,1%. Il totale delle utilities nel mondo vale 1.035 miliardi euro; i 27 miliardi euro della partecipazione in Enel ne rappresentano il 2,7%. Se Il Tesoro vuole mantenere il proprio investimento nei settori originari, basta che investa il ricavato della vendita delle quote in ENI ed ENEL in un paniere di azioni di imprese quotate, per poi venderle in un momento più favorevole. Così smette di fare il gestore e, da buon amministratore di patrimoni, diversifica il rischio: a un costo stimabile in 6/8 punti base, cioè, su tre anni, meno di 100 milioni euro in totale. Se invece preferisse il massimo di diversificazione potrebbe investire nell’indice europeo (di cui avrebbe lo 0,7%) o addirittura in quello mondiale (di cui avrebbe lo 0,2%). E’ vero che, se vendesse col metodo del nocciolo duro, il Tesoro perderebbe l’upside sul premio richiesto. Ma se il nocciolo duro detenesse il 10% del capitale, e il relativo premio fosse, poniamo, del 20%, il potenziale apprezzamento riguarderebbe il 2% della totale capitalizzazione: perderlo sarebbe un prezzo modesto a fronte dei vantaggi che le privatizzazioni recano all’economia del paese.
Questo piano richiede, per essere attuato, che nella Finanziaria si modifichi la norma (introdotta con la Finanziaria 96 nella legge 432/93) per cui i proventi relativi alla vendita di partecipazioni dello Stato devono essere conferiti al fondo di ammortamento del debito pubblico. La modifica dovrebbe prevedere vincoli stringenti: che la deroga valga solo per ENI ed ENEL, che il fondo sia liquidato entro 3 anni (per analogia al limite che la legge pone alle privatizzazioni con pagamento rateale); che si acquisti non un indice ma le azioni “fisiche” (per avere sempre una controparte liquida); che la quota detenuta in ciascuna società non sia superiore al relativo peso nel paniere. Con tali limiti il provvedimento non appare essere in contrasto con le norme Eurostat sul trattamento bilancistico delle entrate da privatizzazioni.
I benefici che le privatizzazioni arrecano all’economia del paese sono in realtà ben maggiori del ricavo delle relative dismissioni. Dunque, non è certo l’ansia di assicurare ricavi di maggiore entità alle casse dello Stato a suggerire questa proposta. Essa intende semplicemente dimostrare che l’interruzione del processo di dismissioni pubbliche non ha giustificazioni solide. Il “piano di governo per una legislatura” della Casa delle Libertà indica “nei 9 mesi successivi” ai primi 100 giorni la scadenza per “l’avvio della fase finale della privatizzazione delle società e dei beni che sono ancora, senza ragione, in mano allo Stato” (pag.74; corsivo mio). Il tempo stringe: è necessario vanificare le tentazioni e rintuzzare le mire – di cui si vedono segni inequivocabili – dei partiti di riempire il vuoto, di occupare nuovamente lo spazio gestionale da cui erano stati estromessi dai Governi Amato e Ciampi e tenuti fuori da quelli successivi. Di mese in mese si rafforza la tentazione di un ritorno al passato. Un passato che chi oggi governa, fino al 13 Maggio scorso duramente condannava, solennemente contraendo con gli elettori l’impegno a smantellarne ogni residuo. Ma un passato il cui ritorno tutti hanno interesse a scongiurare. Tutti, chiunque governi: perché farebbe ritornare indietro il Paese di anni.
Le quote di controllo di ENI ed ENEL ancora in mano allo Stato lo sono davvero “senza ragione”.<
ottobre 25, 2001