Signor presidente, signor rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, vorrei fare solo alcune osservazioni senza pretesa di completezza, anche perché ci troviamo – credo – nei tempi supplementari.
Per quanto riguarda l’inflazione, mentre la Germania ha un tasso del 2 per cento, quello dell’Italia si aggira intorno al 6 per cento. L’obiettivo principale è ricondurre questa percentuale nei limiti di quelle contenute nel DPEF: il 3,6 per il 1996 e il 2,5 per il 1998: si tratta di un obiettivo straordinariamente impegnativo. Credo che ci troviamo di fronte a dei problemi analoghi a quelli che sono stati affrontati negli anni 1992 e 1993, e quindi ai mezzi che allora sono stati impiegati. Di conseguenza, vi sarà un altro aumento dei tassi, un’altra invocazione al mantenimento dei fondamentali accordi del 1992 e del 1993. Questi hanno dato luogo – è inutile che ce lo nascondiamo – ad un gigantesco trasferimento di risorse. Cosa gli andiamo a raccontare? Evidentemente, dovremo munirci di argomenti sostanziali su quello che lo Stato dà e su quello che lo Stato prende, iniziando ovviamente dalla politica tributaria.
A pagina 31 del DPEF leggo la seguente frase: “si proseguirà l’azione di contrasto all’elusione e all’evasione”. Sono consapevole del fatto che si ripetono sempre le stesse litanie e gli stessi ritornelli; non è un problema di gettito ma di fondamentale equità. Non sarò certo io a chiedere degli inasprimenti inutili e delle grida manzoniane di provvedimenti vistosamente severi quanto praticamente vani; però questo è un problema ineludibile. Se mi si passa l’esagerazione, vi è un Ministero e una politica da rifare; e qui dovremmo forse riprendere e riconsiderare uno dei pochi portati buoni del precedente Governo, e cioè il Libro bianco del ministro Tremonti.
E veniamo alle riduzioni dei costi. L’unica cosa è avere più mercato per aumentare la concorrenza; l’unico deterrente che le imprese conoscono è il rispetto. Di sacche di inefficienza ce ne sono tante: ci sono le banche con un costo del lavoro che supera gli interessi, i trasporti aerei di cui recentemente si è parlato, il commercio e la distribuzione, i servizi resi dalla pubblica amministrazione. Non si fa, per esempio, abbastanza ricorso all’ out sourcing, negoziando almeno un parziale trasferimento all’impresa assegnataria per ridurre l’entità delle dismissioni o i trasferimenti ad altre mansioni.
Certo, mi rendo conto che una cosa sono i dati programmatici che un Governo, anche a durata temporale limitata, può proporre come impegno alle forze politiche, un’altra cosa sono le azioni con cui attuarli; tali dati richiedono un’azione costante, prolungata nel tempo, minuziosa, coraggiosa e testarda. Emerge quindi chiaro il prezzo che paghiamo sia per l’instabilità politica, sia per la mancanza di orizzonti temporali certi, in cui un Governo possa proiettare la propria azione. Tornando a parlare di questioni minori, ma non del tutto inepta, debbo manifestare la mia sorpresa per quanto scritto a pagina 36 del DPEF, laddove si dice che: “Il Governo intende promuovere tale partecipazione”, cioè quella del capitale privato nella produzione di beni e servizi tradizionalmente affidati alla finanza pubblica ”estendendola dai grandi sistemi a rete (trasporti autostradali, ferroviari, sistemi aereoportuali, settore idrico) …”. Settore idrico: e perché non telecomunicazioni? Il Governo sa che la Stet ha annunciato investimenti per 13.500 miliardi di lire per cablare le città. Il Governo sa che in altri paesi il programma delle reti cavo è stato interamente finanziato dal capitale privato, cioè secondo quanto è riportato alla stessa pagina 36 del DPEF, dando luogo tra l’altro a ricavi non irrilevanti delle concessioni e ad una consistente riduzione delle tariffe. So bene che gli investimenti che la Stet dichiara di autofinanziare non gravano sul bilancio dello Stato, perché non fanno parte in prima battuta del Documento al nostro esame, ma il Governo sa bene che i costi telefonici costituiscono un’area di grande e potenziale risparmio per gli utenti privati, per le imprese e soprattutto per le banche. Mi dicono che vi sono taluni istituti di credito, in cui la bolletta telefonica costituisce il 30 per cento dei costi.
Se fosse vero quanto da tempo si dice e quanto è oggi riportato dai giornali, e cioè che la Stet sta negoziando i diritti per le partite di calcio, allora io chiedo quando il Governo vorrà porre fine a questa occupazione, da parte della Stet, di un settore nuovo che la tecnologia ha creato, quello della convergenza tra telefono e televisione che si concretizza nella posa delle reti cavo. Il Tesoro è azionista di maggioranza della Stet, non ha bisogno di attendere una legge del Parlamento che definisca in dettaglio il futuro assetto del settore; secondo me ha invece il dovere di impedire che il management Stet investa risorse nostre, perché tali sono anche se provengono da autofinanziamento, al solo scopo di precostituire condizioni che ostacolino la liberalizzazione futura nel settore delle telecomunicazioni.
Il discorso che ho fatto sulla Stet, seppure con molti distinguo e con ben altro tono, potrei fare anche a proposito di Enel, ma devo dire che non sono completamente d’accordo con alcune delle cose riportate oggi dai giornali in merito ad un’intervista del ministro Masera. A questo proposito non è possibile non rilevare che c’è un serio problema politico per la maggioranza che sostiene il Governo Dini. Noi ne sosteniamo la politica di bilancio di cui le privatizzazioni sono parte fondamentale, ma questa maggioranza si è espressa in modo non equivocabile in favore di una liberalizzazione che proceda almeno contestualmente alle privatizzazioni. Ricordo a tale proposito la mozione progressista del 16 marzo scorso.
Non so perché il Governo Dini non abbia scelto di passare alla storia come quello che ha introdotto mercato e concorrenza in settori vitali dell’economia, ma almeno, se non vuole agire in positivo, ha il dovere di evitare il precostituirsi di situazioni di fatto e di i lasciare almeno il campo intatto a future determinazioni.
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luglio 1, 1995