Per completare la riforma Amato, che aveva creato le fondazioni, separandole dalle loro banche, c’erano due strade: agire sulle banche, oppure agire sulle fondazioni. Il Governo ha scelto la seconda strada: la proposta di legge Pinza non riguarda le banche, ma le fondazioni. E’ una strada meno diretta e quindi dagli esiti più lenti e meno certi, perche’, quando si privatizza una banca, cambia “solo” la proprietà, ma il mestiere resta quello di prima.
Se invece si interviene sulle fondazioni, allora non bisogna chiedersi quanto la legge farà per l’efficienza del sistema bancario bensi’ domandarsi:
1. la legge e’ abbastanza efficace nel perseguire il fine dichiarato, creare i nuovi protagonisti del non-profit istituzionale?
2. la legge e’ abbastanza prudente nell’evitare effetti non desiderati, in particolare di produrre soggetti diversi da cio’ che si intende?
La disponibilità di un patrimonio comporta due distinte attività: gestirlo e impiegarne il reddito. Nelle “vecchie” fondazioni l’attività di gestione del patrimonio – la banca – è stata prevalente; quella di devolvere parte del reddito a sostegno di iniziative di pubblico interesse, è stata poco più di un’attività di pubbliche relazioni, sovente di acquisto di favori politici. La legge Pinza vuole che spendere il proprio reddito diventi il nuovo “mestiere” delle fondazioni, la loro ragion d’essere; e come spenderlo il loro modo di essere. Perché questa attività diventi prioritaria, bisogna rompere però con il passato: e la legge Pinza non lo fa con la nettezza necessaria per fondare proprio su questa rinuncia il nuovo status giuridico.
Tagliati i ponti col mestiere di proprietario di banche, bisogna non distrarsi cercando di impararne un altro diverso da quello indicato dalla legge: per esempio quello di diventare gestori di patrimoni. Farlo professionalmente è il mestiere dei fondi di investimento. Questi esistono, operano sul mercato in regime di concorrenza, i criteri che seguono e i risultati che ottengono sono trasparenti, noti, analizzati: non si sente la necessità di crearne per legge una nuova, anomala fattispecie.
C’è poi anche una ragione morale: questi ingenti patrimoni, proprio perche’ la legge vuole siano impiegati a favore delle comunita’ locali, devono essere gestiti con criteri di massima cautela, la stessa che la legge impone per i fondi pensione. Non basta disporre di un grande patrimonio per saperlo gestire bene: ricordiamoci la fine che hanno fatto i rimborsi per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Anche su questo punto il disegno di legge non e’ abbastanza preciso: bisogna frapporre un diaframma tra le fondazioni e le istituzioni finanziarie che esse sceglieranno per gestire i propri patrimoni, secondo i criteri che le fondazioni vorranno indicare: lo esigono ragioni di prudenza – preservare i patrimoni – e ragioni di efficacia – focalizzare le fondazioni su come spenderanno il reddito del patrimonio.
Accanto a queste ragioni “in positivo” ve ne è anche un’altra “in negativo”: evitare di dar vita a operatori finanziari anomali: di diritto privato ma non di proprietà privata, non di diritto pubblico ma di nomina pubblica, che investono a fini di lucro ma non sono misurati dal risultato. Soggetti autoreferenziali, svincolati da ogni controllo, con una proprietà sostanzialmente non contendibile.
Non si tratta di ipotesi fantasiose, ma di fatti già avvenuti: Compagnia di San Paolo e Cariplo sono entrate nel nucleo stabile di Telecom, hanno manifestato l’intenzione di partecipare alla privatizzazione di aziende municipalizzate. Se non si blocca sul nascere questa strada, scegliere aziende in cui investire diventerà, per i vertici delle fondazioni, passione dominante; si passerà da investimenti passivi a controllo attivo, da lungimiranti sostegni a “doverosi” aiuti e giù giù fino ai soccorsi per ragioni di pubblica utilità: il tutto senza che sia possibile valutare e sanzionare.
La passione diventerà tentazione, la tentazione prima o poi cedimento. Amato si è pentito di aver creato dei Frankenstein, ma aveva perlomeno l’attenuante di aver messo in moto il processo di dismissioni. Consentire oggi la nascita di nuovi Frankenstein non avrebbe giustificazione alcuna.
Infine una considerazione sull’autorità di vigilanza che la legge prevede e che molte fondazioni non gradiscono. Le istituzioni pubbliche sono soggette al controllo democratico del voto, quelle private a quello dei mercati, dei prodotti, dei capitali, del lavoro; perché le fondazioni, sole, devono sfuggire a ogni controllo? Le fondazioni hanno ragione a chiedere che il controllo sia leggero: lo sarà tanto più facilmente se riguarderà solo la destinazione del reddito, l’integrità del patrimonio essendo assicurata dall’affidamento alla gestione di investitori professionali. In tal caso il controllo potrebbe limitarsi a certificare e rendere pubbliche le somme erogate e le attività svolte direttamente o finanziate, consentendo ai cittadini delle comunità locali raffronti sulla efficienza della gestione e sull’efficacia degli interventi.
aprile 28, 1998