“Ricordare”, in occasioni come questa, ha di solito il significato soggettivo di riflessione sulla persona scomparsa, e di testimonianza del suo lascito.
“Ricordare” può anche essere l’occasione per riaprire la scatola della memoria, tirarne fuori reperti, ridar loro vita e salvarli dalla perdita definitiva. Rodolfo Debenedetti l’ha fatto con il suo Nato ad Asti : è nello stesso senso che vorrei usare il breve spazio di oggi. Incomiciando, com’è doveroso, da un omaggio alla città.
Ci sono persone e cose che, senza quel libro, sarebbe come se non fossero mai esistite. Oggi il libro in formato elettronico è sul sito della Fondazione Rodolfo Debenedetti, e tra poco Tito Boeri ce ne parlerà. Quanto a me, nutro la speranza di riuscire a far scrivere la storia della comunità israelitica di Asti, e così salvare alla memoria altre persone e altre storie.
Abbiamo poche cose della storia di nostro padre ad Asti: l’Atto di nascita, la frequentazione dell’istituto infantile ed elementare israelitico Clava dal 1895 al 1901, come i suoi fratelli tutti.
Battute infantili (ch’a t na fase se a l’han butà le tase ‘n si pujeuil), qualche parole jiddish, i giochi al Marino, un De Amicis ricevuto come premio nel 1905, il liceo Alfieri, la famosa foto che ritrae tutti i cugini adolescenti.
Tutti i figli di Israel presero una laurea, forse saranno servite anche le 10.000 lire, lascito di Isacco Artom a ciascuno dei figli della sua “amata Dolcina”, nostra bisnonna.
Il Politecnico, le serate in loggione del Regio a sentire e risentire Wagner, (all’epoca in cui io incespicavo sulle suites francesi, lui strimpellava i Maestri Cantori, leggendo lo spartito con disinvoltura), sabato pomeriggio in pelli di foca alla capanna Kind, per “la” discesa domenicale; la volta che lo tirarono fuori da una valanga.
La guerra, sull’Isonzo, sull’Altissimo e anche sul Garda, ricordo il racconto della pesca notturna con le bombe a mano. Il libretto di Benedetto Croce, acquistato a Padova nel 1917, dove era stato mandato per il corso di allievo ufficiale.
La spagnola, il Politecnico da finire velocemente, la laurea, l’apprendistato presso il Cav. Martina, quello della vettura Lanza Martina del 1895, conservata al museo dell’automobile, quello dell’aneddoto sugli ascensori.
All’inizio del ‘900, in un‘Europa divisa da tariffe doganali protezioniste, è formata principalmente da ingegneri l’elite che riuscì ad agganciare l’Italia alla seconda rivoluzione industriale. Negli anni 20, nel pieno di quella fase evolutiva, Rodolfo Debenedetti è innanzitutto un ingegnere. Quello era lo Zeitgeist, e lo fu per tutta la sua vita. E’ con mentalità da ingegnere che subito si mette in proprio, convince i parenti ricchi a finanziarlo, e a rifarlo due volte quando i soldi sono finiti, compera un’azienda di radiatori per aerei, e dopo la guerra segue gli sviluppi della petrochimica e dell’auto estendendo la produzione rispettivamente a compensatori e termostati. Dall’azienda che aveva fondata, grazie alle intuizioni e capacità di Carlo ebbe origine la storia eccezionale che conosciamo. Essa in parte si è riverberata anche sulla sua figura, ma egli rimase nel fondo sempre legato a quella cultura da ingegnere che fece dell’Italia una grande nazione industriale. Ricordo quando cercava di spiegarmi, avrò avuto 6 anni, la costruzione per trovare il centro di un cerchio, o più tardi il motore a campo magnetico rotante, inventato da Galileo Ferraris 8 anni prima che lui nascesse, che avrebbe permesso di cambiare anche visivamente le officine, dalla selva di macchine azionate da cinghie, all’essenzialità della catena di montaggio, simbolo della seconda rivoluzione industriale. Quella rivoluzione l’Italia, prima e dopo la guerra, l’acchiappò al riparo di tariffe doganali. Anche la Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili nacque da un accordo per produrre in Italia ciò che veniva importato dalla Germania. Dell’attività commerciale avrebbe continuato ad occuparsi la ditta Sinigaglia dei Flli Mondini, soci e poi amici fraterni. La Tubi cresceva: con l’auto furono i tubi per travasare la benzina prima dalle taniche e poi dai primi distributori. Il colpo di genio fu il tubo Avioflex: la gomma dei tubi di alimentazione dei motori si deteriorava rapidamente a contatto con la benzina. Negli aerei soprattutto la cosa era sgradevole. Con un sistema semplice ma ingegnoso riuscì a fare un tubo che si piegava senza strozzarsi, dove la benzina non entrava in contatto con la gomma, e che resisteva alle vibrazioni ed era incombustibile. Fu un grande successo, vendette i diritti di fabbricazione ovunque. Con ironia ebraica, ci dicevamo che forse alimentavano i bombardieri che colpirono anche Torino.
La fabbrica fu trasferita ad Asti, noi eravamo a Saluzzo, nella ex clinica del dottor Racca, che non tornerà dalla Russia. Ricordo un sabato sera d’inverno, ad attendere che il papà arrivasse da Asti con la 1500 a metano con i fari oscurati a fessura. Con l’8 Settembre, prima il convento delle suore a Revello, poi la fuga in Svizzera. Nei due anni a Lucerna, mentre Carlo ed io andavamo alla scuola pubblica e mamma chiacchierava con Adrienne Meyer, lui tutti i giorni andava a piedi nella fabbrica dei nostri soci e insieme ad Albert Dreyer metteva a punto i due prodotti che dopo la guerra avrebbero consentito la crescita, e l’accumulazione di risorse per gli sviluppi a venire.
Era andato in America nel 1933, ero appena nato.
Il Gran Tour anche per lui fu un episodio determinante per la comprensione politica ed economica del sistema capitalistico americano, e del ruolo che avrebbe avuto. Mentre raccontava i paradossi della grande svalutazione tedesca (si pagava l’albergo con una valigetta di banconote) non ricordo particolari sulla grande depressione vista da vicino. Per un europeo della sua generazione è l’inflazione il male da cui difendersi, più che la deflazione.
I prodotti di largo consumo sono l’essenza della seconda rivoluzione industriale: anche l’interesse per il marketing, che fu vivissimo, era da ingegnere. Ammirava Isaia Levi – quello de “A l’an freid? Ch’ai buta ‘n termometro – per avere trovato il modo di saltare un livello di intermediazione, doveva avere il segreto desiderio di produrre oggetti direttamente per il pubblico. Forse per questo, quando nel ’29 Isaia Levi acquistò la Penna Aurora – perché, diceva, le penne si rompono si perdono e si regalano – accettò di occuparsi anche di quello. Mi raccontò di avere risolto il problema di usare l’acciaio anziché l’oro per i pennini, saldando una pallina di platino iridio; e del “lancio” di una penna Parker a New York, un lancio vero, da un grattacielo per dimostrare l’infrangibilità del prodotto.
Il lessico familiare è fatto anche di banalità: si era portato dagli USA un rasoio di sicurezza con lama rigida, che veniva affilato a ogni uso muovendolo avanti e indietro in un apposito contenitore. E tutte le mattine, mentre mi faccio la barba e penso che questo è un altro giorno, uno in più e uno in meno, mi viene in mente quel gesto. Ancora carezzò il miraggio del prodotto di consumo quando, dopo la guerra, Guido dall’Argentina, portò le penne a sfera di László József Bíró, anche lui fuggito laggiù: avemmo mani e camicie sporche di inchiostro violaceo per alcuni mesi. L’ammirazione per la genialità e la precisione tecnica diventava amicizia: Albert Dreyer, quelli della Calorstat a Parigi, e soprattutto i Witzenmann, i Maestri, non cantori, di Pforzheim.
E non è ingegnere chi si disegna la tomba, e la fa come un dado ottagonale di marmo?
Ma è il periodo tra il ’33, quando sono nato, e il ’38 delle leggi razziali, quello che più mi incuriosisce.
I filmini dello zio Attilio ritraggono la serenità del Nonno Lilin e della Nonna Olimpia. Le domeniche della loro famiglia, cresciuta e moltiplicatasi, nella pace del Marino. E mentre li vedo chiacchierare tranquilli, giocare con i loro figli, e riconosco i volti e la trasmissione dei geni, come alcuni di quelli qui in sala pure faranno, non posso non provare un senso di angoscia. Quando hanno incominciato a vedere dove si sarebbe andati? C’entra il fatto, che ho la fissa di capire, di fratelli che tutti, loro e probabilmente i loro figli, sono scritti all’anagrafe come Debenedetti attaccato, che in quegli anni si mettono a scrivere il proprio nome staccato, tutti tranne mio padre, senza apparente coordinamento, e che la stessa cosa abbiano fanno altri cugini di mio padre rimasti osservanti? Nel ’36, tutta l’Italia era fascista, anche i miei diedero l’oro alla patria: per mio padre, giolittiano, allievo di Einaudi, antiretorico, che leggeva Croce in trincea, il nicomedismo si accompagnò con la sottile presa in giro di quei due mezzi marenghi, e, se scavo nel fondo più fondo della memoria, credo che abbia affidato il gesto alla mia mano innocente.
Si sposarono in comune, il solito Zio Attilio a immortalare l’evento, solo nel 1938 in chiesa.
Ho un vago ricordo del nostro battesimo. Ma di questo mai una parola in casa. Solo per paura, come per le barzellette sul fascismo, che ne parlassimo a scuola? Che cosa si voleva nascondere? Sembrano anni felici: la famiglia cresceva.
Mio padre, grazie al tubo Avioflex, poté continuare a lavorare anche dopo il ‘38 e dopo il ’40 non corse il rischio di essere richiamato. Aveva anche comperato una fabbrica di radiatori per aerei, la Capucchio: in tutto erano fino a 400 dipendenti. Come capitano del genio aeronautico a capo di un’azienda essenziale per la guerra, fino all’8 Settembre non ci furono problemi personali. “Solo i pessimisti si salvano”, diceva di averlo imparato durante la guerra, e non so se fosse una riflessione sua o una frase da trincea. In ogni caso colpiva, detta da un ottimista come lui.
Parentesi: colpisce, rivedendo i filmini dello Zio Attilio, quanto si fumasse in quell’epoca, uomini e donne..
Ricordo ancora adesso l’odore soffocante del toscano acceso in ascensore uscendo insieme la domenica mattina.
Poi venne quel periodo straordinario della ricostruzione: che io considero già iniziato in Svizzera, che fu per tutti una preparazione a ricostruire. Lo fu per me, che vi imparai il tedesco e il primo latino; per lui, che aveva messo a punto le innovazioni tecnologiche, che per noi significarono una doppia crescita, la crescita nostra propria mentre cresceva tutta l’Italia del miracolo. Per l’Italia fu quasi raggiungere i Paesi più ricchi; per noi l’equivalente dell’accumulazione primaria. Da ingegnere e da ottimista credette che, tra incentivi statali e sviluppo autonomo, valesse la pena investire nel Mezzogiorno: con alle spalle un’aziendina da 80 persone nei primi anni ’50 fondò a Napoli la Tubimeriflex: disegnarne il marchio fu il primo lavoro che mi diede.
Beh, forse non è stato il primo: ma il cortile della fabbrica era lo stesso.
Nato ad Asti, mai provinciale, cittadino del mondo. I rapporti con Svizzera e Germania si erano estesi ad aziende in Francia e Regno Unito. Era un cartello in piena regola per delimitare rigidamente le aree di attività commerciale; capì che indipendentemente dai trattati, quello di Roma è del 1957, poteva sopravvivere solo tramutandosi in collaborazione per mantenere la superiorità tecnologica: in questa forma durò a lungo, se ne scorgono le propaggini ancora oggi in quel di Leinì.
Ci sarebbe ancora tanto da dire, di come seppe gestire la crescita e la transizione, accompagnando le diversificazioni e la quotazione in Borsa. Presidente onorario dell’azienda diventata della Fiat, volle per sé solo la delega ad occuparsi delle aiole. Ingegnere sì, ma nato ad Asti: qualcosa della cultura contadina gli era rimasta, la passione per fiori e frutta, che credeva di essere il solo in famiglia a saper comperare. Ma nessun frutto poteva competere con le albicocche di una vecchia pianta della villa in collina che aveva regalato a nostra madre nel ’38. Quando andarci d’estate e occuparsene gli era diventato troppo faticoso, a metà degli anni ’80, me la offrì a condizione che vi abitassi. Erano brutti anni, c’erano i rapimenti, io non me la sentii di impegnarmi a vivere con bambini piccoli in un posto indifendibile. La casa, la sola che mai fu nostra di proprietà, fu venduta. E’ uno dei miei più grandi rimpianti, per lui e per me. Ma ho la pretesa di saper scegliere la frutta, ricordo il sapore di quelle albicocche: e ho il piacere di camminare in montagna.
Si è fatto tardi e questo mi esime dal parlare delle cose che ricordiamo meglio, il Rotary, i Cavalieri del Lavoro, i viaggi con la Mamma, bobine e bobine di film, migliaia di foto da mettere a posto, le soddisfazioni per figli e nipoti; tutti maschi, l’unica femmina non fece in tempo a vederla. Insomma business as usual, anche quando il business diventa così eccezionalmente unusual . Una cosa per chiudere: era profondamente buono e generoso. In famiglia, con gli amici, con cui ebbe rapporti saldi e durevoli, il prof Valobra, l’antiquario Guido Bacchi, i Witzenmann, l’Ing. Galli, l’ing. Gino Castelnuovo, l’ing Mario Loria, l’ing. Antonio Ficca (ancora, quanti ingegneri!). Con alcuni collaboratori ebbe la pazienza del saggio: bisogna avere, ripeteva, una visione della vita “non migragnosa”. Lo sanno tutte le persone che sono venute qui a ricordarlo.
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ottobre 26, 2011