Asta sul digitale si rischia il flop

novembre 15, 2010


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di Stefano Carli

Cellulari, aste delle frequenze. Ecco perchè quei 2,4 miliardi possono restare un miraggio.

Alla manovra di Giulio Tremonti potrebbero mancare all’appello ben più di 2 miliardi di euro perché nei quasi 6 che il ministro considera già in cassa ce ne sono 2,4 che vengono dati per certi come gettito dell’asta per dare alle telecom mobili le frequenze pregiate liberate dalle tv. E che invece certi non sono affatto. Per tutta una serie di ragioni che, assieme, ne renderanno l’incasso una vera corsa ad ostacoli. Il tema è spinoso (gli operatori mobili si tengono per ora abbottonatissimi, anche perché non si aspettavano di doverlo affrontare così presto) e ci sono molti modi per raccontarlo. Alcuni semplici. Altri molto meno. Iniziamo dai primi, che è come la vede Tremonti.

L’Ue ha deciso che con il passaggio al digitale le tv devono liberare un po’ di frequenze pregiate (che oggi usano gratis, come nel resto d’Europa d’altronde) a vantaggio di un migliore utilizzo economico. Dandole cioè agli operatori dei cellulari, ai quali servono come il pane per fare la banda larga mobile e tener dietro a previsioni di traffico dirompente di smartphone, iPhone, iPad, tablet e notebook. Sono 9 canali, dal 61 al 69 per un totale di 72 megahertz, da cui si ricavano 6 blocchi minimi di 10 mhz l’uno. A questi vanno aggiunti altri 17 blocchi, 3 nella banda 1800 e 14 nella banda 2600. La Germania, che ha effettuato l’asta lo scorso maggio, ne ha ricavato 4,4 miliardi. Siccome il mercato italiano vale un po’ meno di quello tedesco, si stima ragionevole tirarne fuori tra i 2 e i 2,5 miliardi.
Ma è davvero così? Intanto vale la pena di ricordare che dieci anni fa, ai tempi della megaasta Umts la Germania incassò 50 miliardi di euro (ma eravamo ai massimi della bolla) mentre l’Italia, pochi mesi dopo, a mercato già in discesa, ne ricavò appena un quarto.
C’è poi il problema dei tempi: le stime che circolano tra gli operatori e esperti di questioni regolamentari dicono che a far tutto nel minor tempo possibile si arriverebbe a far la gara nel settembre 2011. Ma per arrivarci servirebbe che un Consiglio dei ministri decidesse ufficialmente almeno prima di Natale l’avvio della procedura di messa in vendita delle frequenze e nominasse un advisor. Basta guardare alle cronache della politica per avere più di un dubbio in proposito.
A questo punto va sgombrato il campo da un altro equivoco: i 23 blocchi di frequenze lasciano immaginare uno scenario articolato, ma non è così. Per chi punta ai grandi numeri (da incassare) quelli che contano sono solo i sei blocchi delle frequenze tv, ossia la banda 800. tutti gli altri valgono molto poco. In Germania, dei 4,4 miliardi, 3,6 sono arrivati dalla sola banda 800, 5 blocchi sulla 1800 hanno dato 100 milioni, 3 blocchi sulla banda 2000 (che in Italia non sono in programma) 360 milioni; infine, i 14 blocchi della banda 2600 hanno fruttato 340 milioni. Ma attenzione: per costringere ai rilanci, il governo di Berlino non ha messo in gara 6 blocchi della banda 800 da 10 mhz l’uno, ma solo tre blocchi da 20 mhz, che sono stati vinti da Deutsche Telekom, Vodafone e O2, ossia Telefonica. Ed è rimasto a secco il quarto operatore, EPlus, che fa capo agli olandesi di Kpn. E’ stata insomma un’asta vera. E i tre operatori assegnatari hanno sborsato circa 1,2 miliardi a testa di sola licenza: poco meno di 600 milioni di euro per singolo blocco da 10 mhz. A questi soldi vanno poi aggiunti quelli necessari a realizzare l’infrastruttura di rete, ossia antenne e apparati. Un costo che, riferito all’Italia è stimabile in un miliardo a rete.
Per ottenere i suoi 2,5 miliardi Tremonti dovrà quindi bandire un’asta come i tedeschi, con tre blocchi da 20 mhz da cui ricavare circa 7800 milioni l’uno. Oppure lasciare i blocchi più piccoli, da 10 mhz, da cui sperare di ricavare 3400 milioni. Ma se i blocchi sono 6 e gli operatori mobili 4, chi farà rilanci?
Iniziano a girare voci di possibili nuovi candidati: si fa il nome di Poste, oggi operatore mobile virtuale, o di Fastweb e di qualche immancabile quando non ancora identificabile fondo finanziario.
Ma su questi scenari virtuosi gravano parecchi «ma». Intanto, è plausibile che tutti e quattro gli operatori mobili, Telecom, Vodafone, Wind e H3g partecipino? In effetti solo Telecom e Vodafone hanno i numeri, le spalle larghe per affrontare una simile prova: entrambi hanno un volume di investimenti annui attorno al miliardo di euro, e una quota di mercato intorno al 35%. Già Wind investe sui 900 milioni, ha una quota di mercato del 20% ma proprio in questi mesi si trova in mezzo a una difficile transizione proprietaria: di qui a fine anno si decide se la fusione del gruppo Sawiris dentro l’operatore russonorvegese Vimpelcom si farà o no. E questo limita la capacità di manovra.
Quanto ad H3G, le cose vanno bene alla telecom mobile di Vincenzo Novari, che chiuderà i conti 2010 con il primo Ebit positivo della sua storia. Ma visto che ancora deve digerire l’asta Umts del 2000 potrebbe avere più di una buona ragione per tenersi fuori da questa. Senza contare che H3G sta per ricevere un blocco d 5 mhz nella banda 900 come effetto della riorganizzazione delle prime frequenze Gsm. E soprattutto che Novari ha già una frequenza tv: è il canale 37 che usa per il Dvbh, la tv sui cellulari. E’ un servizio che non ha preso molto piede in Italia e potrebbe riutilizzare quella frequenza (che ha pagato circa 200 milioni, per la banda larga mobile. Anche se è un canale da 8 mhz e non da 10, come servirebbe.
Potrebbero magari Wind e H3G consorziarsi? In teoria sì, ma se lo facessero andrebbe bene per loro ma male per le casse pubbliche: con soli tre operatori il tasso di competizione crolla e non ci sarebbe neanche un rilancio.
E comunque la via crucis di Tremonti verso i suoi 2 miliardi non è finita. Perché per venderle quelle frequenze devono essere sgombre. E invece ci sono le tv locali, che hanno fatto sapere di voler vender cara la pelle. La loro arma sono i ricorsi al Tar che possono bloccare per mesi e mesi ogni iniziativa. Il loro obiettivo è di avere indennizzi. «Il meccanismo si chiama “asta a incentivo” spiega il professor Anonio Sassano della Sapienza di Roma, uno dei maggiori esperti di frequenze, materia per cui è anche consulente dell’AgCom Lo ha usato anche la Fcc negli Usa: si fa l’asta e con una parte degli incassi si incentiva l’uscita dei precedenti occupanti, emittenti o istituzioni, come la Difesa». Una fetta dei 2 miliardi sarebbe quindi già ipotecata in partenza. Quanto grande? E’ difficile da dire ora: un 10% complessivo potrebbe non essere enormemente distante dalla realtà. E comunque anche su questo punto serve una iniziativa di legge adesso se si vuol arrivare all’asta entro l’anno prossimo.
Certo, il governo potrebbe arricchire il pacchetto per renderlo più appetibile. Potrebbe per esempio decidere di alzare il tetto di emissione elettrica, oggi fermo a 6 volt per metro, mentre in Francia e in Germania è di 27 volt per metro. Noi abbiamo meno potenza di emissione, in compenso abbiamo molte più antenne. E con l’Lte, le reti mobili di quarta generazione che porteranno la banda larga a 50 e 100 mega, si moltiplicheranno ancora di più. Ma basterebbe già portare l’emissione da 6 a 12 volt metro, ancora la metà di tedeschi e francesi, per far bastare le attuali 50 mila antenne. Piacerebbe certamente agli operatori, poi, l’idea di vincolare l’asta a incentivi agli investimenti, per esempio con sgravi fiscali. E comunque va tenuto conto di un paio di altre questioni non da poco: nel 2015 scadono le licenze mobili Gsm di Telecom e Vodafone, nel 2018 quelle di Wind e nel 2021 tutte quelle Umts.
Senza contare poi che alla fine l’asta potrebbe non farsi nemmeno. E’ questa in sostanza la richiesta che le telecom hanno avanzato attraverso la loro organizzazione, la Asstel. Spiega il vicepresidente Cesare Avenia, global brand manager di Ericsson ma comunque presente sulle vicende italiane: «Le prime licenze mobili, nel 94 ricorda Avenia sono state assegnate a Tim e Omnitel senza gara, a “beauty contest”, così come ora si sta per fare per le tv. Non ci fu un costo di licenza immediato, ma ci furono impegni molto pressanti sugli investimenti. E questo sarebbe anche oggi una garanzia per tutto il settore».
In effetti sia Tim che Omnitel, quella che oggi è Vodafone, dovettero coprire nel solo primo anno il 40% del territorio con le antenne, e garantire la copertura del 90% della popolazione in tre anni. E fu grazie a quello sforzo così concentrato nel tempo che il mercato dei cellulari in Italia iniziò a decollare. Il dilemma è sempre quello: fare cassa o promuovere sviluppo. Senza dimenticare che le telecom mobili sono ancora ricche. Ma non sono più le galline dalle uova d’oro.

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Gara su frequenze di mercato
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2010

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