Da quando l’Unità è ritornata in edicola, quello che ha avuto luogo mercoledì scorso in Senato è stato il primo incontro tra il gruppo parlamentare DS e la direzione del giornale.
Un evento quasi dovuto: infatti nel riquadro stampato tutti i giorni in basso a destra di pag. 31, si legge che l’Unità è il “quotidiano dei gruppi parlamentari dei democratici di sinistra”. Quell’indicazione non è rituale, quasi un omaggio alla storia del giornale, è invece legata alla vita stessa del giornale, nel senso molto preciso della sua possibilità di esistere.
Essere “organi o giornali di forze politiche che abbiano il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere” facendone “esplicita menzione riportata in testata” è infatti la condizione che pone la legge 388/2000, la Finanziaria 2001 del nostro governo Amato, perché l’impresa editrice possa fruire dei contributi pubblici, che una serie di norme pongono pari al 40% dei costi d’esercizio della impresa medesima, fino a un massimo 2,5 miliardi di lire, a cui si aggiunge una somma relativa alla tiratura, che per l’Unità dovrebbe superare 1,5 miliardi, il tutto raddoppiabile entro il tetto del 70% della media dei costi.
Tale è l’entità del contributo a cui la società editrice ha diritto. Per rendersi conto della sua importanza per la vita economica del giornale, basta capitalizzarne l’importo al tasso corrente degli interessi debitori. Credo di non sbagliarmi affermando che si tratta di un importo ben superiore ai 6 miliardi finora versati sui 36 che il gruppo che ha preso in affitto la testata si è impegnato a versare.
Complice la legge Frattini sul conflitto di interessi, la distinzione tra gestione e “mera proprietà”, i rapporti tra flussi di danaro e produzione di opinione, sono diventati materia attualissima di discussioni. Discussioni alla luce delle quali il legame tra il giornale e i gruppi parlamentari DS si rivela essere non solo di natura ideale, o storica, ma rapporto formale richiesto in legge, che ha consentito e consente la vita economica dell’iniziativa editoriale.
Se la legge fa dei gruppi parlamentari il tramite essenziale per accedere ai finanziamenti pubblici, è la legge stessa che conferisce ai gruppi parlamentari un potere determinante, almeno pari a quello di una “mera proprietà”. E siamo proprio noi DS a sostenere, a ragione, che la “mera proprietà” influisce in modo decisivo sulla linea editoriale.
La linea editoriale della nuova Unità ha avuto un buon successo in edicola: di ciò tutti i senatori, me compreso, si sono complimentati con la direzione. Ma poiché la legge subordina il contributo pubblico al collegamento con il gruppo parlamentare, il loro consenso diventa tanto essenziale quanto quello dei lettori in edicola. Il successo commerciale non può essere- purtroppo, per un liberista – il solo faro a cui orientare la linea editoriale: ci sono vincoli che limitano la libertà di indirizzo di cui finora si è avvantaggiato il giornale.
Ci sono divergenze tra la linea editoriale dell’Unità e le opinioni politiche di membri sia del partito sia dei gruppi parlamentari: esse sono troppo note (una per tutte la negazione della tesi del “regime” fatta dal Presidente del partito), e non è questa la sede per analizzarle. In occasione del primo incontro con il gruppo parlamentare, basterà registrare che queste divergenze esistono, e che esiste il problema di come ricomporle sul giornale.
Dico ricomporle e non riferirne: infatti il problema non si risolve solo dando un po’ di spazio ad altre posizioni presenti e attive nel partito. Determinante è il contesto: uno in palese contrasto, può risultare, per le voci dissonanti che ospita, ancora peggiore di un’aperta e motivata stroncatura. Strutturalmente, aldilà quindi delle ovvie differenze, è lo stesso fenomeno che Furio Colombo rileva accadere in Porta a Porta.
Non si tratta di sfumature o di dissensi marginali: per illustrarli mi riferisco a due affermazioni fatte da Furio Colombo proprio durante la discussione col gruppo del Senato. ” Questo giornale sarà sempre dalla parte dei giudici”, ha dichiarato il direttore. Poiché le parole subiscono a volte scarti di significato nell’uso comune, come Furio Colombo non manca di far puntigliosamente notare a proposito del vocabolo “giustizialismo”, sarebbe stato non inopportuno precisare che nei giudici non si includono i PM: perché, in caso contrario, io, per esempio, se fossi costretto a essere da una parte, sarei da quella degli avvocati, giusta la presunzione di innocenza.
Ma, anche fatta questa distinzione, è poi vero? Io non sto dalla parte dei giudici che hanno condannato Adriano Sofri, e forse molti lettori dell’Unità non stanno dalla parte dei giudici che hanno assolto Andreotti. Ma soprattutto, proprio perché i giudici sono un ordine indipendente, un politico che sta per principio dalla loro parte ne lede l’autonomia tanto quanto che sta per pregiudizio dalla parte opposta.
Inoltre, ed è questa la seconda osservazione, al sottoscritto che gli faceva notare che il numero dei lettori che decretano il successo di un giornale è di due ordini di grandezza inferiore a quello dei consensi che dànno la vittoria a una coalizione politica, Furio Colombo ha ripetuto il paragone con la campagna di Martin Luther King, che, incominciata con pochi aderenti, ha poi travolto l’America intera. Altro radicale dissenso: perché esiste una differenza ontologica tra un movimento, quale quello per i diritti civili, e un programma politico.
Il primo é monotematico, mentre é la natura stessa della politica quella di presentare una sintesi di interessi diversi, e di per sé perfino confliggenti. In un momento in cui la sinistra soffre per mancanza di politica, far credere che a supplirne la mancanza bastino i movimenti (magari in tondo), confonde le idee e aggrava la nostra situazione.
Se invece, abbandonato ogni improprio paragone, la frase si riferisse al potenziale di crescita proprio delle idee che sono quotidianamente illustrate sul giornale, io, che pure lo apprezzo in edicola, e che lo trovo una presenza positiva nel pluralismo dell’informazione, dichiaro che considererei una sciagura per il paese se queste posizioni diventassero maggioranza. Io, in quel paese, non vorrei vivere.
E neppure, credo, la maggior parte degli elettori di centrosinistra che per tre volte mi hanno mandato in parlamento.
marzo 18, 2002