“Privatizzare l’industria pubblica […]ha contribuito a cambiare il Paese, il suo modo di essere, la sua mentalità. Non poteva non essere il frutto di un processo democratico: idee culture schieramenti politici diversi si sono confrontati”: così il Ministro del Tesoro illustrando (sul Sole 24 Ore del 7 Agosto) la “Relazione sulle Privatizzazioni” consegnata al Parlamento.
Carlo Azeglio Ciampi ha pieno diritto di rivendicare il merito di quanto realizzato: sua é la paternità del Dl 389/93, poi diventato la legge 474, anche se egli con eleganza omette di ricordarlo; é stato impegnando la sua autorevolezza che egli ottenne dalla maggioranza il consenso a vendere Telecom in un solo colpo; é stato Ciampi a convincere Bertinotti a dare il suo accordo alla dismissione della quarta tranche dell’ENI.
Ciò doverosamente riconosciuto, c’è un punto sul quale sembra opportuno innestare alcune riflessioni critiche. Si tratta di un punto che occupa un posto centrale nel testo del Ministro del Tesoro, là dove egli afferma: “Sì, il Tesoro vuole valorizzare prima di vendere”.
Il percorso “prima valorizzare e poi vendere” apparentemente risponde a una regola di puro buon senso, in realtà è seminato di pericolosi trabocchetti. Cominciando proprio dal “prima” e dal “poi”. Da quando inizia il “prima”? Dopo Tangentopoli? Dal governo dell’Ulivo? Il cittadino, che certo non ha mai voluto che le imprese di stato non fossero valorizzate, potrebbe chiedere quanto è costato, ad esempio, attendere che fosse la magistratura a rendere indifferibile la sostituzione di Necci, o impiegare due anni per eliminare lo stallo al vertice della BNL, o lasciarne passare chissà quanti per por mano al buco del Poligrafico, o perché Finmeccanica prenda coscienza della realtà.
Quando arriva il “poi”? dove fermarsi, se le cose incominciano ad andare meglio? fin quando perseverare, se invece si ostinano a non migliorare? Senza aver stabilito e reso noto un limite, il percorso delle privatizzazioni riporterebbe, un passo dopo l’altro, al Ministero delle Partecipazioni statali.
Valorizzare le aziende è l’obbiettivo di tutti gli imprenditori: ma diversi sono i processi che selezionano gli imprenditori di successo ed i funzionari del Tesoro. Una conglomerata si avvale di strumenti gestionali (di controllo dei costi, di gestione del primo livello di management), dispone di tutte le opzioni strategiche (acquisizioni, cessioni, diversificazioni) per posizionarsi in modo più favorevole nella matrice prodotti-mercati: if you can’t win at a game, change the game.
Invece, quanto a gestione il Tesoro dichiara di limitarsi a nominare i CEO; e quanto a strategia è limitato dalla legge 474 che attribuisce al Tesoro solo la “gestione finanziaria dei titoli azionari di proprietà”, definizione in cui è arduo far rientrare iniziative di ampliamento del perimetro aziendale, di diversificazione in nuovi settori, di modifica della struttura del mercato. E invece Enel entra nella telefonia, le Poste si mettono a fabbricare macchine automatiche, e chiedono una legge per trasformarsi in banca ordinaria.
Non accompagnata da vincoli finanziari, temporali e di missione, anticipatamente definiti e resi noti, “valorizzare” indica la generica direzione verso una meta imprecisata. Conosciamo solo il capo-azienda incaricato di tenere il timone. Manca, a guidare la rotta, il quotidiano giudizio del mercato dei capitali sulla validità delle azioni intraprese, manca la coscienza di doverne eventualmente scontare la sanzione; mentre dal mercato dei beni e servizi fornisce poche e tardive indicazioni. Forse il Tesoro ha seguito questa strada pensando di evitare che l’argomento di “svendere” potesse essere usato dai nemici delle privatizzazioni.
Ma continuare ora non è più giustificato: si esporrebbe a rischi non più necessari, quello di un insuccesso, ma anche quello di essere percepito come una struttura che fissa i propri obbiettivi, sceglie i propri mezzi, valuta i propri risultati.
“Una scelta di successo, ora si deve continuare” scrive Ciampi: proprio il successo impone ora di adottare politiche più trasparenti. Finora “valorizzare” è stato interpretato come “valorizzare gestendo”. Ma questa non è la sola strada, accanto ad essa ve ne è una seconda, che invece finora il Tesoro ha trascurata.
Per valorizzare un’impresa che si è deciso di vendere non è necessario ristrutturarla, lo stesso risultato si può ottenere rappresentando i profitti ottenibili a ristrutturazione avvenuta: in un caso si vendono i risultati conseguiti, nell’altro quelli attesi. Se si riesce a far sì che i potenziali acquirenti siano informati in modo perfetto, i due valori, quello reale e quello virtuale, attualizzati e corretti per i fattori di rischio e di costo opportunità, coincidono. Ecco, per evitare di correre rischi ora non più necessari, basterà che le due strade da adesso in avanti siano almeno messe in parallelo; che per ogni azienda da vendere le opzioni, quella di vendere il progetto di valorizzazione e quella di vendere a valorizzazione effettuata, vengano entrambe esplorate e valutate, che entrambe siano rese esplicite, note e paragonabili, come risultati attesi e come vincoli imposti.
Il rischio del “valorizzare per vendere”, soprattutto nella sua versione “gestionale”, è di mettere in secondo piano, o di rinviare a un secondo tempo il vero obbiettivo delle privatizzazioni: restituire settori di attività economica all’iniziativa degli imprenditori e alle determinazioni del mercato. Rischio grave, perché così si perderebbe il contributo forse più importante delle privatizzazioni a cambiare il paese. Anche per questa ragione sarà molto utile se nel “processo democratico” si confronteranno non solo “idee, culture, schieramenti politici diversi”, ma anche, laicamente, costi e ricavi di diversi percorsi.
agosto 19, 1998