Col maggioritario il voto è diventato mobile; ridottosi il potere delle segreterie dei partiti, è diminuito il valore dell’appartenenza; diventa determinante la figura del leader, che riverbera su tutta la formazione politica la luce della sua notorietà. Viviamo una situazione di transizione: accanto a Forza Italia, tutta identificata con il suo leader, convivono le forze ancora organizzate come partiti che ritengono di essere meno toccate dal processo di mobilizzazione dell’elettorato. Per i popolari. la loro anomala collocazione, rinvia ad una probabile instabilità. Paradossalmente, è proprio l’area di sinistra-centro, da cui più forte è venuta la spinta al cambiamento verso il maggioritario, quella che meno ha saputo darsi un’organizzazione coerente con il nuovo sistema: né partito tradizionale, né movimento illuminato da un leader. E la strategia di tutta l’opposizione dipende dal problema di dare unità e peso a quest’area.
Problema antico quanto la storia dell’Italia repubblicana: dal Partito d’azione, ai repubblicani, ai socialisti, ad Alleanza democratica. Ci ha provato Craxi, ma si è perso per avere identificato l’occupazione di uno spazio politico con lo sfruttamento del potere economico. Oggi vi cerca i suoi confini l’Area, la attraversa la finezza di Amato, vi si agitano i residui di Ad, gli spezzoni socialisti, gli irrequieti verdi, la diaspora repubblicana e fin qualche residuo socialdemocratico, e quanto resta del grande patrimonio referendario.
Ci sono motivi strutturali per cui quest’area debba continuare ad essere disperatamente condannata a inghiottire tante energie, quasi le incombesse un tragico destino da “triangolo delle Bermude”?
Eppure non mancano i motivi unificanti. In negativo, la consapevolezza che con il sistema maggioritario quest’area rischia la scomparsa. I suoi esponenti saranno costretti a negoziare con gli altri partiti, in primo luogo col Pds, una presenza nelle liste elettorali: un destino da indipendenti di sinistra che preluderebbe alla sostanziale sparizione dalla scena politica. In positivo, il fatto che quest’area, potenzialmente un 15-20% dell’elettorato, dovrebbe avere tutte le caratteristiche per avvantaggiarsi del voto diventato mobile.
Esistono certo differenziazioni politiche non irrilevanti: sulle ragioni di opposizione a questa maggioranza, che per alcuni è un regime da contrastare come se si trattasse del fascismo o del franchismo, per altri un governo classista, inetto, inquinato dai conflitti di interesse; inoltre sui rapporti con l’opposizione, che per alcuni deve comportare una netta chiusura verso Rifondazione comunista.
Punto nodale di ogni strategia per l’area di sinistra-centro è il rapporto con il Pds: e proprio questo dovrebbe essere l’elemento unificante. L’alleanza con il Pds non è solo strumentale per opporsi al “regime”; non deriva solo dalla convinzione che la riforma economica e morale, dello Stato non sarà possibile senza coinvolgervi attivamente anche quel 30% di popolazione che si riconosce nei partiti di sinistra. Deriva dal fatto che solo una presenza autorevole dell’area di sinistra-centro può scongiurare che il Pds rifluisca nell’illusione che basti reggere aspettando gli errori altrui per riuscire (un giorno) a governare.
Massimo D’Alema dice (Ansa del 27 ottobre) di essere convinto che “in Italia il bipolarismo si può costruire con alleanze tra il centro e la sinistra” e che “non si può chiedere ad un elettore moderato di votare progressista”. Ma se non ci si presenta come una forza unita, con un leader autorevole, se si lascia che il drappello dei parlamentari di quest’area agisca in ordine sparso, con iniziative affidate alla buona volontà dei singoli, sarà perfettamente giustificato l’altro D’Alema, quello che afferma di non voler trattare con quelli che ha fatto eleggere.
L’alleanza con il Pds non è in discussione, e la sua sincerità sarebbe incompatibile con le piccole astuzie da “due forni”, alla Buttiglione. Ma la rinuncia ad ogni tatticismo deve avere come contropartita l’evidenza che il problema non è quello di misurare i rapporti di forza attuali, ma di esplorare quelli potenziali presso l’elettorato, dandogli la possibilità di esprimersi; senza di che le sinistre all’opposizione ci resteranno per chissà quanti anni.
Non è solo per affinità culturale e morale che l’area di sinistra-centro ci pare ricca come poche altre di intelligenza, finezza, disinteressata passione politica. A quest’area manca un leader: il problema, già difficile in sé, diventa insolubile se non si scaccia l’impressione che dietro il controllo, vantato o millantato, di qualche residua appartenenza, in realtà si nasconda la preoccupazione di definire in quale atollo dell’arcipelago piantare la bandiera della capitale. Se è così, allora diventa necessario che i personaggi che animano quest’area dichiarino esplicitamente di non volerne personalmente assumere la leadership, ma di voler invece dedicare le proprie energie a selezionarne una, e la propria autorevolezza a sostenerla. Solo così quest’impresa non apparirà l’esercizio perdente (e un po’ triste) di sommare simboli e sigle.
Non c’è garanzia che questa rinuncia sia sufficiente. Ma la posta in gioco non è la sopravvivenza di alcune appartenenze: è la possibilità di una reale alternanza in questo Paese.
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novembre 1, 1994