L’unica strada per Torino è quella di creare un’azienda con meno ambizioni
Nella vicenda Fiat Auto, l’attenzione è concentrata a prevedere l’esito della partita che ha per posta l’opzione put. Atteggiamento giustificato per i risparmiatori, data l’influenza che esso ha sui corsi di borsa. Un po’ meno per la politica: l’esito di quella partita è infatti senza significativa influenza sulle conseguenze, economiche e sociali, della crisi Fiat per il Paese.
Per la politica, strologare sull’esito della trattativa con GM, aspettando la data del 24 Gennaio, ha tutta l’aria di un diversivo per rinviare il momento in cui si dovrà affrontare il problema del “dopo”. Due fatti penso si possano considerare certi. Il primo, che GM si rifiuterà di onorare l’opzione put, lo è in modo quasi assoluto. Il secondo, che non si ricorrerà ai tribunali per risolvere la vertenza, è altamente probabile: paralisi strategica e danni reputazionali avrebbero conseguenze disastrose per Fiat, molto gravi anche per GM.
La sola incertezza è quanto, nella forchetta compresa tra 0,5 e 3,6 miliardi $, riuscirà a portare a casa Marchionne. Differenza rilevantissima per gli azionisti, ma ininfluente sul “dopo” Fosse pure questa cifra pari a 3 miliardi $, sarebbe pari a quanto ha bruciato Fiat Auto in pochi anni.
In queste perdite si materializza la difficoltà – per ora l’incapacità- della Fiat a superare uno scarto. Non già, come si tende a pensare, tra quello che ha e quello che dovrebbe avere: magari fosse un problema di modelli! No, lo scarto è tra quello che è e quello che dovrebbe essere. E’ un problema di struttura: Fiat Auto ha ancora, grosso modo, quella che le era stata data da chi la voleva un’azienda con ambizioni da player mondiale. Per sopravvivere, anche profittevolmente, deve darsi quella che corrisponde alla realtà di oggi: un’azienda di media dimensione, concentrata su alcuni segmenti della matrice prodotti mercati. Fiat è riuscita ad avere successi solo nella gamma medio bassa: da sempre, non da oggi. Realizza margini bassi, inferiori, a parità di volumi, a quelli dei suoi concorrenti: da molti anni, non da oggi. Perché dovrebbe riuscire a raggiungere e superare i suoi concorrenti proprio oggi che in Europa c’è una forte sovracapacità produttiva, senza modificare radicalmente la propria struttura?
Ci sono due strade per uscire dalle crisi: due strade la cui diversità è prima di tutto concettuale. Una è il downsizing, smagrire, inseguire l’equilibrio di conto economico su volumi più bassi, sperando di ridurre i costi più di quanto si riducono i ricavi. L’altra è la reingegnerizzazione, trovare l’equilibrio con una struttura aziendale diversa, quella che si avrebbe se si dovesse rifare oggi l’azienda. Il primo può essere paragonato a chi chiude un’ala del proprio palazzo, riduce il riscaldamento, manda a casa giardinieri e autisti. Il secondo a chi, partendo dal prato verde, si costruisce una casa adatta alle sue possibilità di oggi, lasciandosi magari un po’ di terreno intorno per la crescita di domani. Con tre marchi (più Ferrari e Maserati), con una gamma che va dalla 500 alle macchine di gran lusso, con una quantità di stabilimenti in Italia e nel mondo, con una rete commerciale stanca, invano estesa a servizio di quote di mercato sono esigue e declinanti, Fiat è strangolata dalla sua complessità. Oggi, il peggior cancro delle aziende.
Che sia per downsizing o per reingegnerizzazione, tutte le ristrutturazioni costano care, in termini finanziari e in termini sociali. Quanti soldi? certo di più dei 3 miliardi che abbiamo ipotizzato. La differenza, essendo da escludere interventi di azionisti e creditori, dovrà venire da dismissioni di marchi e/o di mercati; dovranno essere scelti anche per ridurre la complessità gestionale. Quanti costi sociali? La dimensione del problema non credo possa essere inferiore ai 7000, ma potrebbe essere anche molto superiore, forse più del doppio. Devono prenderne coscienza tutti – azionisti, creditori, forze politiche e sociali. Non ci sono fantasiose vie di fuga verso un cambiamento di identità, che so? , tipo polo del lusso. Non serve, neppure se Bruxelles ce lo permettesse, buttare soldi ai problemi, quando i problemi sono diventati strutturali. Non c’è nessun “cavaliere bianco” (o giallo); e se ci fosse, avrebbe interesse a fare valutazioni ancora più pessimistiche, anche per avere libertà di interventi ancora più radicali. E, se avesse sinergie con altre sue produzioni, peggio ancora se in Europa, terrebbe ovviamente per sé i risparmi economici e occupazionali.
L’alternativa è solo tra smagrimento e rifondazione. Non è dal calcolo dei costi che viene l’indicazione per la scelta, ma dalla comprensione della natura dei problemi. Anche a chi non fa di mestiere lo stratega industriale e non dispone di informazioni interne, dovrebbe essere evidente che è la strada del “prato verde” quella che deve percorrere la FIAT, se la si vuole salvare. E soprattutto se le si vuole dare un futuro.
La strada del downsizing la conosciamo bene, è quella tradizionale; ammortizza l’impatto, rinvia il momento di fare i conti, consente illusioni. E’ la strada che ho vissuto in prima persona negli ultimi anni in Olivetti, l’inseguimento verso il basso di un punto di equilibrio che è sempre un poco più in là, l’ansia di riempire stabilimenti e di saturare gli organici, le migliori energie spese a fare e rifare piani, ogni anno una nuova ristrutturazione. Della strada del “prato verde” c’è un esempio nello stesso gruppo Fiat, la New Holland, passata in pochi anni da un baratro di perdite a una invidiabile redditività.
Io sono persuaso che la strada della rifondazione di un’azienda liberata dai lacci della complessità, ridimensionata nelle ambizioni e nell’area d’azione, sia la sola risolutiva. Certo, le strategie aziendali le scelgono gli azionisti; ma il management opera in base anche ai vincoli posti dalla politica. E chi impegna risorse pubbliche ha il diritto di giudicare la validità delle strategie che queste risorse dovranno supportare. Dipenderà quindi in buona parte dalla politica su quale delle due strade la Fiat potrà incamminarsi: non le spetta prendersi la responsabilità della scelta, ma ha il dovere di non ostacolare, meno che mai impedire, una strategia radicale. Per la sua dimensione, per il valore anche simbolico che ha sull’immagine che gli altri si fanno di noi e noi di noi stessi, per la sua concentrazione nel tempo, la crisi di Fiat Auto è probabilmente la più grave di tutte quelle che abbiamo vissute. Richiederà iniziative di pari rilevanza per attutirne le conseguenze sociali. E’ illusorio pensare che la si possa trattare politicamente in modo “oggettivo” senza farla entrare nel tritacarne degli interessi elettorali o della politica di parte, senza i soliti rituali negoziali? E’ ingenuo pensare che quanti parlano di “politica industriale”, invece che dividersi sugli opposti contenuti da dare all’espressione, provino ad applicarla mettendo al primo posto l’azienda, il suo difficile presente e soprattutto il suo possibile futuro? Questo è il problema sul tavolo. Lo è da un pezzo e per valutarlo e intendersi non è certo necessario aspettare la scadenza del 24 gennaio.
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gennaio 14, 2005