Agnelli e Prodi c’è un patto per il 2000

dicembre 1, 1997


Pubblicato In: Varie


La domanda corretta da formulare.
L’Italia è parte dell’Europa fin dalla sua fondazione, sarà probabilmente tra i primi nell’euro, la sua banca centrale è modello di indipendenza, ha autorità di controllo dei mercati finanziari e della concorrenza guidate da personaggi di grande valore intellettuale e morale. Dire che in campo economico in Italia siamo in presenza di un regime può dunque sembrare un paradosso.

Se si dice regime, ma si intende il conformismo di tanti protagonisti, piccoli o grandi, della vita economica, si va nella vulgata indimostrabile; si usano categorie che appartengono, a esser generosi, all’analisi sociologica, e che più spesso non sono che superficiali e soggettive tipizzazioni.
Se infine il discorso è sui rapporti tra potere politico e potere economico, reciproche influenze e mutui accordi tra le due sfere sono non solo ineliminabili, ma sono diretta conseguenza della predominante importanza assunta ovunque dalla sfera economica: il governo di un Paese è sempre più il governo della sua economia.
I sistemi di governo a economia di mercato si differenziano per due profili: la quantità risorse intermediate dallo Stato, e per la maggiore o minore direttezza del controllo: una cosa è assegnare contratti per la difesa, altra possedere direttamente il complesso industriale militare.
In Italia sia per percentuale di PIL intermediato, sia per estensione delle attività economiche direttamente gestite dallo Stato, il picco più alto si era toccato negli anni Ottanta: l’Italia esibiva un grado di sovietizzazione dell’economia non riscontrabile in nessun altro Paese occidentale. Ciò che poi accadde è noto: l’integrazione europea e la globalizzazione hanno reso insostenibile il finanziamento di così gigantesche inefficienze; la caduta del Muro ha realizzato le condizioni per il cambiamento politico. Tangentopoli è stata la forma esasperata assunta dal sistema nella sua fase terminale, Mani Pulite il suo teatrale disvelamento. E oggi siamo alla stabilizzazione, con il -prevedibilmente- lungo governo dell’Ulivo.
La domanda iniziale – siamo in presenza di un regime in campo economico?- dovrebbe dunque essere così riformulata: quali forme ha assunto il rapporto tra potere politico e potere economico in Italia, oggi in Italia, nel segno dell’Ulivo?

Le novità “subite”: privatizzazioni e credito.
Questo rapporto è stato ridefinito da due fatti, le privatizzazioni e le modifiche del sistema bancario, che hanno ridisegnato l’intera mappa del potere economico.

Privatizzazioni: l’importo dei proventi da dismissioni è pari a oltre 83 mila miliardi, una cifra imponente in sé e anche in rapporto a quanto fatto dai nostri partner comunitari, dopo Telecom possiamo dire Inghilterra compresa.
Dieci anni fa, nella classifica per fatturato delle prime dieci società italiane, trovavamo sette aziende pubbliche ( Eni, Enel, Telecom, Finmeccanica, Finsider, Efim, Alitalia); oggi sono tre: l’Enel e metà Eni la cui privatizzazione è bloccata da Bertinotti, Finmeccanica in via di dismissione.
Banche e assicurazioni: Comit e Credit sono private a tutti gli effetti; per S. Paolo e Cariplo il processo è in corso e l’esito non privo di incognite, ma sarebbe ingiusto non riconoscere che le nomine degli amministratori avvengono secondo criteri diversi dal passato. Anche la maggioranza dei consigli di amministrazione di Ina ed Imi è formata da membri indipendenti. La pulizia del sistema creditizio meridionale – anche se compiuta a opinabili fini di salvataggio – ha prodotto comunque la riduzione del potere politico locale sulle banche, il cui controllo è passato o a istituti del Nord, o al Tesoro: in entrambi i casi la via alla reale privatizzazione, se solo la si volesse percorrere, appare meno impervia.
Queste trasformazioni sono state più subite che volute, la cultura di governo si è adeguata con ritardo e con riluttanza alla nuova realtà. La si è voluta far passare per una rivoluzione (“liberale”, ha detto in più occasioni il segretario del Pds D’Alema), ma in realtà si è trattato di una ritirata strategica. Se è stata la concorrenza sui beni e sui servizi a ridurre l’area dell’economia direttamente controllata dal potere politico, questa si è arroccata nei settori più difficilmente aggredibili dalla concorrenza. Nell’area dei monopoli naturali ha moltiplicato le difese, mettendo in campo strumenti nuovi che danno garanzia di continuare ad esercitare il proprio potere di controllo o di condizionamento.
Ciò che importa ai fini del ragionamento che qui si cerca di svolgere è che, rispetto ai precedenti, i nuovi strumenti risultano notevolmente più ambigui, e che la linea di separazione tra poteri risulta ancora meno netta che in passato. In questi anni di sedicente rivoluzione liberale e in realtà di oculata ritirata strategica del pubblico, sono state poste nuove linee di difesa intorno al principio del comando pubblico dell’economia.

Un’azionista importante e improprio: il Tesoro.
Prima difesa: l’inedita struttura proprietaria pubblica. Per effetto della trasformazione in SpA degli enti pubblici economici prima, e della cessione della proprietà al Tesoro poi, il Governo è ora in presa diretta sulle aziende: a differenza dei vertici degli enti pubblici economici, quelli delle SpA necessitano della quotidiana fiducia dell’azionista. Il Tesoro è quindi di fatto responsabile dei risultati e delle strategie delle imprese, e quella di voler gestire le partecipazioni nelle imprese secondo un profilo puramente finanziario invece che condizionandone la gestione quotidiana, come il Tesoro instancabilmente dichiara di fare, è solo espressione di una sua scelta. Oggi è così, domani potrebbe cambiare e nessuno potrebbe avere molto a che ridire almeno sotto il profilo formale.
La bontà dei monopoli. Seconda difesa: il consolidamento e l’ampliamento dell’area di business dei monopolisti. Il monopolio il cui carattere naturale è più facilmente aggredibile dalla tecnologia era e resta quello della telefonia: ma la lunga attesa della privatizzazione ha “provvidenzialmente” consentito di far incrociare il suo destino con un settore diverso come quello televisivo. Il risultato è una comune autorità di settore iperpoliticizzata, le more della cui nascita hanno sin qui impedito l’avvio di ogni concorrenza nella telefonia fissa.
Nel settore elettrico, l’ambiguità del rapporto con l’azionista-Tesoro ha dato spazio alla meritoria intraprendenza privatistica dell’amministratore delegato: con l’effetto però che, in nome della valorizzazione degli asset, egli proietta l’ombra del monopolio al di là degli ambiti attuali. Quanto al monopolio del gas, rimane il dubbio se sia stata la velocità con cui si è lanciata la incompleta privatizzazione dell’ENI a garantirle il monopolio, o se sia stata l’assicurazione del permanere del monopolio a renderne così rapida la privatizzazione.

Le Authority sabotate.
Terza linea di difesa: assicurarsi la copertura della autorità indipendenti, limitandone però l’operatività. Quella dell’energia elettrica ben poco può fare per modificare gli assetti di un mercato in cui il monopolista rimarrà tale e pubblico per un tempo indeterminato. Per quella delle comunicazioni, si è voluto che al posto suo agisca il Ministero finché essa non sia costituita e funzionante, cioè si sia dati i regolamenti operativi. Così si è proceduto senza fretta alle indicazioni dei candidati, sul presidente si dovrà raggiungere un non facile quorum: nel frattempo tutte le decisioni importanti verranno prese dal Ministero.
Gli stessi ampi poteri dati all’Autorità, in quanto indipendente, vengono attribuiti, proprio nel momento delle decisioni più delicate, a un organo politico per definizione non indipendente. Perché affrettarsi dunque?
Le public company all’italiana. Ma la vera linea di difesa, quella più decisiva e permanente, è nel modello proprietario della public company trapiantata nel contesto delle nostre strutture finanziarie e delle nostre istituzioni. La così a lungo rinviata partenza dei fondi pensione priva il nostro sistema finanziario degli investitori istituzionali par excellence. Ne risulta enfatizzato il ruolo delle banche che, in adeguamento alle direttive comunitarie dal ’93 sono tornate – sia pur entro certi limiti – a poter detenere direttamente partecipazioni e a esercitare il controllo in imprese non creditizie, e che possono peraltro indirettamente fare la stessa cosa anche attraverso i fondi gestiti dalle proprie Sim: si sta proponendo inoltre che esse possano anche raccogliere deleghe di voto.

Le banche si rivelano essere dunque l’asse portante della struttura proprietaria delle public company all’italiana, e saranno public company- probabilmente- esse medesime un giorno. Ma sulle banche opera la vigilanza della Banca d’Italia, che non a caso si è indirettamente adoperata perché tale funzione venga esplicitamente introdotta nel testo di Costituzione all’esame del Parlamento. Mentre su tutte le decisioni più importanti della società avviata al privato, a cominciare dalla scelta dei suoi azionisti, incombono i poteri che la golden share attribuisce al Tesoro.
Al potere -, ingombrante e pervasivo, ma diretto ed esplicito- del sistema delle PpSs, si è così sostituito un sistema indiretto e obliquo basato sulla moral suasion e sull’ombra minacciosa della golden share.
Onore a Cuccia. La retorica della “democrazia economica” realizzata dalla public company all’italiana, e il controllo indiretto sull’attività delle banche sono i due strumenti attraverso i quali il potere politico può mantenere il suo controllo sui monopoli delle infrastrutture. Il tentativo di Mediobanca di sottrarveli è stata l’ultima battaglia combattuta da Cuccia, e la sconfitta tattica che ha subito ha segnato la conclusione di una guerra strategica vinta: Mediobanca è riuscita a salvare l’industria privata italiana – non tutta, buona parte – sia dalle mire dei politici che dalle conseguenze dei tanti propri errori gestionali. Quello sì che sarebbe stato un regime: il pericolo è stato reale, ed è merito storico di Cuccia, per lunghi anni del solo Cuccia, essere riuscito ad isolare la struttura proprietaria della grande impresa privata italiana dal potere politico. Che poi essa a sua volta colludesse con il potere politico nelle sue periferie operative, e ne fosse a volte anche corrotta, è cosa che appartiene al mondo degli epifenomeni, sicuramente non è mai stata condizione o concessione per il successo del disegno di Cuccia.

Un rapporto tra potenze: Fiat e Ulivo.
L’analisi delle forme che ha preso il rapporto tra poteri politico e potere economico non può prescindere dal considerare le modificazioni intercorse nel sistema privato. Finita la contesa per abbandono dell’avversario, esaurito il suo compito storico, il ruolo di Mediobanca si sta riducendo a quello di una rispettata banca d’affari, a influenza prevalentemente nazionale. Per le finanze delle “sue” aziende ormai l’ambito nazionale è troppo stretto: in particolare per il gruppo Ifi Fiat che ha nel frattempo conosciuto una crescita impressionante.
Primo gruppo italiano per fatturato, avendo scavalcato l’Eni; rafforzata la propria diversificazione ed internazionalizzazione con il successo della contro-opa su Worms, il 1997 vede il gruppo Ifi Fiat protagonista ovunque. Ha avuto un ruolo determinante nella privatizzazione del S. Paolo, di Telecom, lo avrà tramite Toro nella Banca di Roma: che sia riuscito ad averlo con investimenti assai contenuti, e senza che nessuno sollevasse obiezioni o muovesse critiche, pur essendo come abbiamo visto tutto politico il comando e gli strumenti sotto cui avvengono queste vicende, dimostra che l’Ulivo vuole – che persegua o subisca può interessare solo gli psicologi- la consacrazione della Fiat a protagonista solitario del panorama economico privato italiano. Non è polemica, solo una mera constatazione che però non si vede fare da parte degli abituali difensori dell’Ulivo e del governo: a cent’anni dalla sua fondazione, la Fiat si vede trionfalmente riconosciuta la palma della solitaria primazia – una palma che nessun altro regime politico le aveva attribuito – proprio dai suoi più storici contestatori della ex sinistra di classe.
É un fatto che forse spiega molte delle polemiche uliviste contro Romiti: per quanto accese, esse servono a mascherare una realtà ben diversa e di segno opposto.

I media.
Quando si parla di regime, è a stampa e televisione che immediatamente si pensa. Qui invece, a ben vedere, sono modeste le variazioni intercorse: la RAI è da sempre nella disponibilità della maggioranza anche se sotto la finzione parlamentare, ricercare differenze nel tempo quanto a lottizzazione o servilismo, è del tutto privo di interesse. É piuttosto Mediaset ad esibire criticità, perché, malgrado la riuscitissima trasformazione societaria, l’azienda rischia di pagare essa il prezzo del conflitto di interessi cui è esposto il suo azionista di riferimento. L’offuscarsi della stella di Berlusconi rischia di ripercuotersi anche sulla capacità della TV privata di contrastare la TV di stato. E ciò e male. Perché rendere meno facile cambiare la Rai. Quanto ai giornali nulla di nuovo: in tempo di Ulivo si conferma la specificità tutta italiana per cui i grandi giornali appartengono a gruppi industriali: e ne rispecchiano gli interessi, non sempre solo culturali.
Pmi: nanismo di Stato. Il campo di osservazione è a questo punto picchettato e descritto: il potere politico ha concepito e realizzato forme nuove di perpetuazione del comando politico sull’economia, ha consolidato la sua possibilità di condizionamento sulle public company che gestiscono i monopoli naturali e sulle grandi banche; ha un solo interlocutore privato con cui confrontarsi, il gruppo IFI Fiat: è interesse reciproco trovare accordi tra “grandi potenze”. Per le altre imprese, anche grandi come Pirelli, Benetton, Ferrero, l’Italia è solo uno dei paesi in cui operare, la globalizzazione prepara per loro un destino da apolidi: si dirigeranno verso i paesi che sanno offrire le esternalità più attraenti.
Regime? Se guardiamo all’estensione del campo, a come esso si è ridotto rispetto al passato, alla maggiore indipendenza e alla riconosciuta autonomia delle controparti private, sembra difficile sostenerlo. Gli aspetti inquietanti stanno piuttosto nella forma nuova-ambigua e incontrollata, perché effettuata con strumenti silenziosi ed indiretti – in cui il condizionamento si esercita nel “ridotto” dei grandi monopoli; e nel controllo, anch’esso opaco, del fondamentale architrave finanziario nazionale, cioè le grandi banche. Il loro potere si esercita soprattutto sulle piccole e medie industrie, quelle che hanno maggiore difficoltà a muoversi nella finanza e sulle borse internazionali.

Qui sta la criticità dei rapporti tra politica ed economia: ma più che nell’ingerenza di un indebito controllo, nella inadeguatezza a fornire al tessuto di piccole e medio aziende gli strumenti per crescere. Il potere politico sembra incapace di ridimensionare la strutture del pubblico. Più che il rischio di un regime occhiuto e penetrante, mi sembra incomba dunque quello di un corpaccio parassitario capace solo di produrre leggi e regolamenti e di prelevare imposte.
Gli anni dello statalismo hanno fatto il deserto in tutti i settori che hanno toccato, hanno sottratto forse per sempre interi settori all’iniziativa privata: non avremo mai più un grande settore alimentare, una chimica di qualche rilievo.
Il campo di azione per quel numero di imprenditori, molti dei quali autenticamente schumpeteriani, che tutti ci invidiano, si è già drammaticamente ristretto.

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