La scorsa settimana sul settimanale Liberal, autorevoli economisti criticavano il modo con cui si è privatizzato e denunciavano lo stallo in cui si troverebbe il processo. Che dire allora di quello che sta accadendo in questi giorni a Torino, nella parte più moderna del Paese, vicina all’Europa, abituata a raccogliere la sfida della concorrenza a proposito dell’Azienda Energetica Municipale? Non ci si riferisce alla polemica, ambigua e strumentale, aperta all’ultima ora da Rifondazione Comunista.
Il fatto è che Torino sta facendo finta di privatizzare la sua azienda elettrica – perché è ingannevole chiamare privatizzazione la vendita parziale mentre il Comune mantiene la maggioranza assoluta – e così facendo danneggia i cittadini, dato che sottrae loro un valore patrimoniale.
Il Comune che vende una quota di minoranza non incassa il premio di controllo, e quindi spoglia i cittadini di un pezzo di patrimonio che è loro. C’è invero l’ostacolo di una legge fatta in tempi in cui le resistenze ideologiche alle privatizzazioni erano ancora molto forti, che assegna benefici fiscali se la maggioranza resta pubblica fino al 2000, cioè ancora per 18 mesi. Milano ha risolto il problema con un artificio: non scrive esplicitamente che appena possibile venderà tutto o quasi tutto, ma lo fa dichiarare al sindaco di fronte agli operatori finanziari esteri cui ha presentato l’azienda.
E i mercati par che ci credano, dati i prezzi che si registrano al «mercato grigio». Seminai ci si potrebbe chiedere se la certezza, e non solo la ragionevole previsione, che la società sarà presto tutta privata e scalabile non permetterebbe di spuntare prezzi ancora superiori.
A Torino invece si giudica che l’azienda non abbia caratteristiche di dimensione, redditività ed efficienza che ne consentano la quotazione, e quindi si decide di vendere a un socio industriale. Il punto è: pagherà il premio di controllo? La precedente giunta Castellani volle che l’impegno a mantenere il 51% fosse scritto negli statuti della società. Quindi chi compera non paga il premio. E’ improbabile che il Comune riesca ad incassarlo anche quando e se cambierà il suo orientamento e deciderà di vendere: la sua libertà negoziale sarà ridotta e compromessa dalla presenza di un socio che ha già il 43%; questa presenza condizionerà tutte le scelte in materia di collocamento di altre azioni, e contribuirà a ridurre il valore. Ma poi chi ci crede che il Comune cambi orientamento, se il rifiuto a vendere è politico e il vantaggio fiscale è solo un pretesto?
Infatti non risulta che, quando il consiglio comunale decise di inserire quella norma nello statuto dell’Aem, il sindaco Castellani o l’allora assessore alle privatizzazioni Piero Gastaldo abbiano cercato di contrastare questa decisione, ne abbiano valutato i costi e indicato i responsabili. Ne chiesi ragione, ma ebbi risposte inconsistenti: presunte difficoltà per l’omologa del tribunale; il timore di perdere la concessione quando già il passato governo con l’emendamento introdotto dal ministro Clò alla legge 481 stabiliva definitivamente che la concessione è diretta e non soggetta a vincoli proprietà. Mi offrii di cercare di superare eventuali difficoltà in sede parlamentare, ma la disponibilità non ebbe seguito. Aspettiamo che stavolta maggioranza, assessore Peveraro e sindaco additino per nome ai cittadini chi infligge loro questa perdita.
Ma per l’economia di Torino non conta solo il prezzo di vendita. Non si può negare che questa privatizzazione sia tardiva ed appaia timida.
Con una vera privatizzazione fatta al tempo giusto, si poteva posizionare la nostra Aem per prima nel mercato liberalizzato dell’energia che si sta aprendo; e un’occasione per far sentire Torino protagonista di un’iniziativa nuova, da affrontare con slancio da cui ricevere slancio.
luglio 19, 1998