Rappresentanza. Tra vecchi e nuovi schieramenti
La semplificazione del quadro politico è uno dei risultati più appariscenti di queste elezioni. Non si tratta solo di un aspetto formale, anche se per Pier Ferdinando Casini PdL e PD sarebbero in realtà due cartelli elettorali. Il fatto è di sostanza: non sono solo sparite delle sigle, sono usciti dal gioco politico due paradigmi, due stelle fisse di ogni politica della sinistra: che per battere la destra ci vogliano un’alleanza e un’arma, l’alleanza con la sinistra estrema e l’arma dell’antiberlusconismo.
Per quindici anni la politica della sinistra è stata ossessionata dalla necessità di dover inseguire il consenso della variegata schiera delle formazioni di sinistra. Ricordo alcuni passaggi chiave. Nel 1994 la presenza nella coalizione dei Progressisti di Rifondazione e dei Verdi, oltre alla Rete di Leoluca Orlando, obbligò alla pratica “contro natura” delle desistenze. Nel 1996 Rifondazione, andata sola alle elezioni, in Parlamento prima diede e poi levò il sostegno al primo governo Prodi. Dieci anni dopo, contò molto, per entrambe le parti, la memoria di quella esperienza; forse per questo non fu la sinistra formalmente a far cadere il secondo governo Prodi. Ma i condizionamenti che prima obbligarono alle contorsioni il programma delle 218 pagine e poi accompagnarono ogni passo del secondo Governo Prodi, sono ancora vivi nella memoria. Basterà ricordare le ragioni per cui si dovette dilatare la Finanziaria del 2007 fino ai 35 miliardi.
Gli elettori che, o per identità remote o per ragioni contingenti, si autocollocano più a sinistra, non sono scomparsi e non hanno probabilmente neppure cambiato campo: ma al dunque è al PD, e non alle varie sigle dell’arcobaleno, che hanno delegato la propria rappresentanza. Proprio al PD, che di tutte le metamorfosi e ricombinazioni che sono state sperimentate dal centrosinistra, è quella in cui i geni originari hanno subito le mutazioni più radicali.
Ma quanto tempo è dovuto passare! Sono 15 anni che il centrosinistra accetta l’ipoteca della sinistra antagonista: il cui peso elettorale, quando alla fine il gioco obbliga a buttar giù le carte, si rivela irrisorio. Il paradigma dell’alleanza obbligata a sinistra è la versione ultima del “pas d’ennemis à gauche” che tanti danni che ha arrecato alla politica italiana e all’Italia. A rinnegarlo ci aveva provato Bettino Craxi negli anni ’70 e ’80: ma prima il suo disegno fu ostacolato aspramente, e alla fine naufragò. Oggi è Boselli a pagare per una nemesi storica di cui non ha colpa: il suo Partito Socialista, dopo una storia secolare, non sarà più presente in Parlamento. Per le scelte tardive si pagano prezzi pesanti: ci sono andati 10 anni, dopo il “tradimento” del 1998, per voltar pagina; un po’ ingenuo lamentarsi e stupirsi per non avere trovato davanti a sé, dopo pochi mesi, le sconfinate praterie del centro. E’ irreversibile la fine di questo paradigma? La tradizionale pulsione suicida della sinistra consiglia di non dare per impossibile neppure le ipotesi più assurde. Ma irreversibili sono le mutazioni genetiche che hanno dato luogo al PD. Ed è comunque un fatto che nell’operazione non si è perso del sangue.
L’altro paradigma è quello dell’antiberlusconismo. Per 5 volte in 15 anni il popolo italiano in maggioranza o quasi ha detto di volere essere governato da Berlusconi: sostenere che avrebbe in tal modo fatto una scelta antidemocratica significa negare il criterio su cui si fonda la democrazia. Sarebbe una certa semplificazione se anche i corrispondenti italiani dei giornali esteri si rendessero conto che i problemi che preoccupano gli italiani non sono probabilmente quelli che tengono banco nei salotti liberal della capitale. Ormai è palese che non sono state le televisioni di Berlusconi a determinare i risultati delle elezioni; che il pericolo di regime non c’è mai stato; che temi i sé pur rilevanti, quali i conflitti di interesse e con la magistratura, non hanno però avuto conseguenze pratiche di rilievo sull’attività di Governo. Erano argomenti che potevano avere una loro presa alle elezioni del 1994, e che forse hanno contribuito alla vittoria dell’Ulivo del 1996. Ma già la caduta di Prodi e i successivi Governi dell’Ulivo avrebbero dovuto far capire che l’antiberlusconismo recava danni solo al centrosinistra. Il peggio si ebbe nella legislatura 2001-2006: contro un Governo attaccabile da tutti i lati, la sinistra, ipnotizzata dai girotondi, seppe solo chiedere verifiche legali e presentare valanghe di emendamenti, senza realmente denunciare le magagne di un governo criticabilissimo, ed ereditando l’impegno a cancellare anche le poche cose buone (legge Biagi, scalone pensionistico, riforme costituzionali).
È stato Veltroni a far cadere entrambi i paradigmi. Uno a Orvieto, annunciando che il PD sarebbe corso da solo: quanto il re fosse nudo lo si è visto il 14 sera. L’altro al Lingotto, dichiarando fuori corso la moneta dell’antiberlusconismo (anche se poi ha preso a bordo Di Pietro, per cui esso è ancora uno dei suoi Valori). Aver sgombrato il terreno da ruderi ingombranti dovrebbe consentire alla sinistra di organizzarsi per usare il tempo all’opposizione in modo meno dannoso che nel 2001-2006. Appare probabile che questa maggioranza ne abbia bisogno.
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aprile 16, 2008