Sette mesi dopo essere stata protagonista di uno degli episodi più appassionanti della nostra storia borsistica, Telecom Italia registra un giudizio negativo da parte dei mercati finanziari. La sua capitalizzazione dal gennaio 1999 — cioè “neutralizzando” l’effetto Opa — è salita del 40%; ma quella di France Télécom del 60% e quella di Deutsche Telekom dell’80%.
Le cause immediate sono note: gli sbandamenti causati da una-proposta di una modifica di assetto societario mal preparata e peggio presentata; e la delusione per la mancanza di energiche azioni per rendere l’azienda efficiente all’interno ed aggressiva all’esterno. Il mercato si attendeva un attacco alle inefficienze aziendali e si è visto presentare un attacco agli azionisti di minoranza: o almeno tale ha giudicato che fosse.
A ben vedere, a monte di questa analisi, sta una contraddizione. La proprietà e il management che hanno espugnato Telecom con lo strumento più tipico del capitalismo anglosassone, l’Opa ostile, una volta assunto il controllo hanno dato l’impressione che la loro prima preoccupazione fosse quella di assicurare a Telecom Italia lo status di non contendibilità. Ora è vero che, esclusi i soliti inglesi, nessuna azienda telefonica europea è scalabile: Deutsche e France perché a maggioranza pubblica, Telefonica per una robusta golden share; e quanto a Mannesmann basta leggere i giornali. Ma qui sta la contraddizione. Da un lato le opinioni pubbliche dell’Europa continentale insorgerebbero contro una “colonizzazione”, cioè la perdita di controllo dei loro campioni nazionali. Dall’altro le vedove scozzesi e i maestri del Nebraska vorrebbero che le aziende in cui investono fossero contendi-bili; fanno buon viso a cattivo gioco se sono i governi a rassicurare le proprie opinioni pubbliche, ma se sono imprenditori privati, per giunta indebitati, ad assumersi questo compito. si ritengono ingannati e reagiscono male.
La non contendibilità costa: la valutazione delle società di radiomobile è salita, nell’acquisizione di Orange da parte di Mannesmann, a 9.550 € per abbonato. Sono valori sotto Opa, in un mercato meno saturo di quello italiano: ma anche dimezzando questi valori la capitalizzazione di Borsa di Telecom dovrebbe essere intorno agli 85 miliardi di euro (ora, dopo essere risalita, sta ancora sotto i 70). La blindatura dei piani bassi della costruzione societaria deprime le quotazioni e impedisce di esprimere il pieno valore dell’azienda.
Si cerca la non contendibilità e si trova l’instabilità. Non quella a breve termine: i soci in Olivetti sanno bene fare i conti, conoscono i valori reali della loro proprietà indipendentemente dai valori di Borsa; sanno che l’entusiasmo del mercato per i titoli “internet” non si basa sugli utili ma sul capitai gain, non hanno necessità di monetizzare: per ora, il tempo lavora per loro. Ma alla lunga è inverosimile che, nel gioco di ridefinizione degli assetti in corso nel mondo, questo gruppo di investitori privati possa restare proprietario dell’azienda dei telefoni di un grande paese come l’Italia senza doversi trovare degli alleati. Si cerca la non contendibilità e si perde libertà di iniziativa. Non è detto che ciò sia un male: quando si riducono le opzioni disponibili, le “last girl in town” diventano più appetibili. Ma non accettando un prezzo di concambio che avrebbe reso meno blindato il controllo, Olivetti ha rinunciato a estrarre la rete mobile dalla rete fissa e a fare di Tecnost la holding Telecom. Questa struttura più logica le avrebbe consentito di disporre di un varietà maggiore di strumenti per giocare al “risiko” delle tic, in quanto le acquisizioni fatte con “carta” anziché con cash riducono il rischio che l’acquisitore diventi preda.
Chi ragiona in termini di interesse pubblico, non ha però da preoccuparsi della instabilità a breve, e neppure dei limiti alle iniziative societarie. Questo potrebbe anche essere (con la “razza padana” il condizionale è d’obbligo) un periodo di tregua: più che preoccuparci di che cosa succederà dopo, dobbiamo chiedere ragione di che cosa Telecom fa adesso.
Aumentare l’efficienza aziendale, certo: nel caso di Telecom questa non è la solita giaculatoria. Questa è un’azienda che è stata per decenni di proprietà pubblica nel senso più pregnante della parola. Ridurre gli organici ai livelli di British Telecom è un rilevante problema sindacale, ma disboscare un head quarter forte di 4900 persone è un gigantesco problema politico. Telecom si troverà sottoposta a attacchi su tre lati: di politici e sindacati; di concorrenti e autorità regolatrici; dei consumatori, che hanno incominciato ad apprezzare il gusto della concorrenza, e per cui i guadagni dell’efficienza arrivano sempre troppo tardi.
Al recente vertice di Firenze, il presidente Clinton ha detto: “Daremmo un grande contributo alla riduzione delle ineguaglianze sociali se fossimo almeno in grado, entro un tempo limitato, di portare Internet ovunque c’é un telefono”. Applicato all’Italia questo significa dare un collegamento a banda larga in tutto il paese, a chiunque lo richieda, a prezzi contenuti. 11 punto è: darlo presto. Questo il modo giusto per riempire il periodo di tregua, questo è l’impegno che Telecom dovrebbe assumere. Telecom ha annunciato di essere pronta a fornire la banda larga con l’Adsl, il sistema di compressione del segnale che dà una velocità di trasmissione di 2 Mbit/sec in un primo momento, e successivamente fino a 60 Mbit/sec, con un investimento da 500.000 a 1.000.000 di Lire per abbonato, 25.000 miliardi per tutta l’Italia. Bisognerà naturalmente che le modalità commerciali previste da Telecom, e su cui l’Antitrust ha già aperto un’istruttoria. non configurino un’offerta sottocosto, che tempi di introduzione e modalità di accesso non risultino discriminatori verso gli altri operatori. Con la diffusione della banda larga dovrebbe aumentare il valore della rete fissa, sotto attacco da diversi concorrenti: le fibre ottiche, che si diffondono in tutto il mondo, la olandese UPC ne ha già in 12 paesi europei. Colt e Biscom le portano nei centri affari delle grandi città: i collegamenti fissi in radiofrequenza: i telefonici di terza generazione, che furoreggiano in Giappone, tanto da far quadruplicare il valore della società della Ntt che li ha introdotti.
Per superare l’emergenza di un nostro ritardo rispetto all’economia di Internet. di cui hanno parlato Fedele Confalonieri, Letizia Moratti e Cesare Romiti al recente convegno di Liberal, e Ferruccio de Bortoli domenica sul Corriere della Sera, ci vuole un grande progetto culturale di digitalizzazione . Proporlo, e al limite incentivarlo, è compito del Governo.
Ma qualunque programma in questa direzione necessita di un’infrastruttura fisica, la banda larga, disporne in tempi certi e brevi, questo è il patto da chiedere a Telecom. Si tratta di un impegno affatto diverso dal progetto Socrate lanciato a suo tempo da Pascale, e che oggi, del tutto a torto, alcuni rimpiangono, dimenticando che era voluto per impedire la privatizzazione. Un patto, questo da chiedere a Telecom, che chiunque dovesse domani subentrare nel controllo della società per effetto di una nuova operazione di mercato — rispetto alla quale non dovrebbero valere in nessun caso “eccezioni nazionali” alla Schröeder — comunque dovrebbe restare fisso sul tavolo degli impegni assunti nei confronti sia degli utenti italiani che di tutti gli altri operatori del settore.
Tweet
novembre 30, 1999