A Colaninno serve un patto per l’Italia

novembre 30, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Sette mesi dopo essere sta­ta protagonista di uno de­gli episodi più appassio­nanti della nostra storia borsistica, Telecom Italia registra un giudizio negativo da parte dei mercati finanziari. La sua capitalizzazione dal gennaio 1999 — cioè “neutralizzando” l’effetto Opa — è salita del 40%; ma quella di France Télé­com del 60% e quella di Deut­sche Telekom dell’80%.

Le cause immediate sono no­te: gli sbandamenti causati da una-proposta di una modifica di assetto so­cietario mal preparata e peggio pre­sentata; e la delusione per la man­canza di energiche azioni per rendere l’azienda effi­ciente all’in­terno ed aggressiva all’esterno. Il mercato si attendeva un at­tacco alle inefficienze azienda­li e si è visto presentare un attacco agli azionisti di mino­ranza: o almeno tale ha giudi­cato che fosse.

A ben vedere, a monte di questa analisi, sta una contrad­dizione. La proprietà e il mana­gement che hanno espugnato Telecom con lo strumento più tipico del capitalismo anglosas­sone, l’Opa ostile, una volta assunto il controllo hanno dato l’impressione che la loro pri­ma preoccupazione fosse quel­la di assicurare a Telecom Ita­lia lo status di non contendibili­tà. Ora è vero che, esclusi i soliti inglesi, nessuna azienda telefonica europea è scalabile: Deutsche e France perché a maggioranza pubblica, Telefo­nica per una robusta golden share; e quanto a Mannesmann basta leggere i giornali. Ma qui sta la contraddizione. Da un lato le opinioni pubbliche dell’Europa continentale insorgerebbero contro una “coloniz­zazione”, cioè la perdita di controllo dei loro campioni nazionali. Dall’altro le vedove scoz­zesi e i maestri del Nebraska vorrebbero che le aziende in cui investono fossero contendi-bili; fanno buon viso a cattivo gioco se sono i governi a rassicurare le proprie opinioni pub­bliche, ma se sono imprenditori privati, per giunta indebitati, ad assumersi questo compito. si ritengono ingannati e reagi­scono male.

La non contendibilità costa: la valutazione delle società di radiomobi­le è salita, nell’acquisizione di Orange da parte di Man­nesmann, a 9.550 € per abbo­nato. Sono valori sotto Opa, in un mercato meno saturo di quello italiano: ma anche di­mezzando questi valori la capi­talizzazione di Borsa di Tele­com dovrebbe essere intorno agli 85 miliardi di euro (ora, dopo essere risalita, sta ancora sotto i 70). La blindatura dei piani bassi della costruzione so­cietaria deprime le quotazioni e impedisce di esprimere il pie­no valore dell’azienda.

Si cerca la non contendibili­tà e si trova l’instabilità. Non quella a breve termine: i soci in Olivetti sanno bene fare i conti, conoscono i valori reali della loro proprietà indipendentemente dai valori di Borsa; sanno che l’entusiasmo del mercato per i titoli “internet” non si basa sugli utili ma sul capitai gain, non hanno neces­sità di monetizzare: per ora, il tempo lavora per loro. Ma alla lunga è inverosimile che, nel gioco di ridefinizione degli assetti in corso nel mondo, questo gruppo di investitori privati possa restare proprietario dell’azienda dei telefoni di un grande paese come l’Italia sen­za doversi trovare degli alleati. Si cerca la non contendibili­tà e si perde libertà di iniziativa. Non è detto che ciò sia un male: quando si riducono le opzioni disponibili, le “last girl in town” diventano più appeti­bili. Ma non accettando un prezzo di concambio che avreb­be reso meno blindato il con­trollo, Olivetti ha rinunciato a estrarre la rete mobile dalla re­te fissa e a fare di Tecnost la holding Telecom. Questa strut­tura più logica le avrebbe con­sentito di disporre di un varie­tà maggiore di strumenti per giocare al “risiko” delle tic, in quanto le acquisizioni fatte con “carta” anziché con cash riducono il rischio che l’acqui­sitore diventi preda.

Chi ragiona in termini di in­teresse pubblico, non ha però da preoccuparsi della instabili­tà a breve, e neppure dei limiti alle iniziative societarie. Que­sto potrebbe anche essere (con la “razza padana” il condiziona­le è d’obbligo) un periodo di tregua: più che preoccuparci di che cosa succederà dopo, dob­biamo chiedere ragione di che cosa Telecom fa adesso.

Aumentare l’efficienza aziendale, certo: nel caso di Telecom questa non è la solita giaculatoria. Questa è un’azien­da che è stata per decenni di proprietà pubblica nel senso più pregnante della parola. Ri­durre gli organici ai livelli di British Telecom è un rilevante problema sindacale, ma disbo­scare un head quarter forte di 4900 persone è un gigantesco problema politico. Telecom si troverà sottoposta a attacchi su tre lati: di politici e sindacati; di concorrenti e autorità regola­trici; dei consumatori, che han­no incominciato ad apprezzare il gusto della concorrenza, e per cui i guadagni dell’efficienza ar­rivano sempre troppo tardi.

Al recente vertice di Firen­ze, il presidente Clinton ha det­to: “Daremmo un grande con­tributo alla riduzione delle ine­guaglianze sociali se fossimo almeno in grado, entro un tem­po limitato, di portare Internet ovunque c’é un telefono”. Ap­plicato all’Italia questo signifi­ca dare un collegamento a ban­da larga in tutto il paese, a chiunque lo richieda, a prezzi contenuti. 11 punto è: darlo presto. Questo il modo giusto per riempire il periodo di tregua, questo è l’impegno che Telecom dovrebbe assumere. Telecom ha annunciato di esse­re pronta a fornire la banda larga con l’Adsl, il sistema di compressione del segnale che dà una velocità di trasmissione di 2 Mbit/sec in un primo mo­mento, e successivamente fino a 60 Mbit/sec, con un investi­mento da 500.000 a 1.000.000 di Lire per abbonato, 25.000 miliardi per tutta l’Italia. Biso­gnerà naturalmente che le mo­dalità commerciali previste da Telecom, e su cui l’Antitrust ha già aperto un’istruttoria. non configurino un’offerta sot­tocosto, che tempi di introdu­zione e modalità di accesso non risultino discriminatori verso gli altri operatori. Con la diffusione della banda larga do­vrebbe aumentare il valore del­la rete fissa, sotto attacco da diversi concorrenti: le fibre ot­tiche, che si diffondono in tutto il mondo, la olandese UPC ne ha già in 12 paesi europei. Colt e Biscom le portano nei centri affari delle grandi città: i collegamenti fissi in radiofre­quenza: i telefonici di terza ge­nerazione, che furoreggiano in Giappone, tanto da far quadru­plicare il valore della società della Ntt che li ha introdotti.

Per superare l’emergenza di un nostro ritardo rispetto all’economia di Internet. di cui hanno parlato Fedele Confalo­nieri, Letizia Moratti e Cesare Romiti al recente convegno di Liberal, e Ferruccio de Bortoli domenica sul Corriere della Sera, ci vuole un grande progetto culturale di digitalizzazione . Proporlo, e al limite incentivarlo, è compito del Governo.

Ma qualunque program­ma in questa direzione necessi­ta di un’infrastruttura fisica, la banda larga, disporne in tempi certi e brevi, questo è il patto da chiedere a Telecom. Si tratta di un impegno affatto diver­so dal progetto Socrate lancia­to a suo tempo da Pascale, e che oggi, del tutto a torto, alcu­ni rimpiangono, dimenticando che era voluto per impedire la privatizzazione. Un patto, que­sto da chiedere a Telecom, che chiunque dovesse domani subentrare nel controllo della so­cietà per effetto di una nuova operazione di mercato — rispetto alla quale non dovrebbe­ro valere in nessun caso “ecce­zioni nazionali” alla Schröeder — comunque dovrebbe restare fisso sul tavolo degli impegni assunti nei confronti sia degli utenti italiani che di tutti gli altri operatori del settore.

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