Qualche dubbio ce l’avevo anch’io, che l’uscita dal campo di Berlusconi non fosse proprio last and final: ma non sono tra quelli che ora ammiccano «te lo dicevo io!». E neppure tra quelli che drammatizzano le conseguenze del suo voltafaccia, rientrare in campo, cavaliere solitario per ripulire la magistratura dai comunisti. Al contrario penso che la cosa potrebbe anche avere conseguenze positive a destra: e invece, per colmo di paradosso, averne magari di negative a sinistra.
Quante volte abbiamo visto Berlusconi prodursi nel gioco in cui è maestro, di prendere un tema che molti, anche prima di lui, avevano considerato giusto, e farsene schermo per ottenere quello che gli interessa: dal falso in bilancio alla battaglia contro il monopolio statale della televisione, dalle intercettazioni alla corruzione tra privati.
Così per la magistratura: non c’è ormai quasi giorno che sui giornali non si legga di indagini, accuse, sentenze che lasciano, a dir poco, interdetti. Non sarà accanimento persecutorio quello di cui è stato fatto oggetto, ma sono tanti quelli che hanno puntato sulla via giudiziaria per risolvere un problema politico. Ma lui, Berlusconi, che cosa ha fatto per correggere le storture, anche solo di funzionamento, con cui viene amministrata la giustizia in Italia? Se non ha fatto nulla in tutti questi anni in cui aveva il Governo e maggioranza, lo farà da battitore libero? Il giochetto ormai è consumato, non saranno in molti disposti a seguirlo.
La vera domanda è ora questa: quanti saranno disposti a sbarrare le finestre sulle nuove prospettive che si erano aperte tre giorni prima? In questi tre giorni si saranno scambiate idee, fatti progetti, ipotizzate alleanze, abbozzati accordi. Se quello intorno a Berlusconi resterà solo un “partito di guardie scelte” (Massimo Franco), se nei leader più accorti del Pdl si prenderà atto che “non c’è asse ereditario” (Stefano Folli) lo si vedrà presto. Se Berlusconi davvero leverà la fiducia a Monti e aprirà alle elezioni con un paio di mesi in anticipo, quello sarà il banco di prova. In ogni caso, fatta l’aggregazione dei fedelissimi, dovrebbe essere più facile ricomporre il puzzle nella restante area di centrodestra, aggregare le sparse truppe e i dubbiosi condottieri che vi si aggirano, fare emergere la linea politica liberale che tanti in Italia vorrebbero. Bisogna ragionare «etsi Berlusconi non esset».
Era proprio ciò che (alcuni) predicavamo, da sinistra, alla sinistra malata di antiberlusconismo. Pensare, invece che al Cavaliere, a chi lo votava, capire le ragioni del suo successo, considerarlo non dimostrazione del degrado del Paese, ma sfida a riflettere sulle proprie inadeguatezze. Perché la maggior parte o quasi dei votanti, dal 1994 al 2008, in cinque elezioni generali, ha scelto Berlusconi? A questa domanda cruciale gli antiberlusconiani militanti non hanno mai dato risposta. Domanda non banale: se l’assunto base della democrazia è che è bene ciò che il popolo vuole, e Berlusconi è il male, perché qui non funziona? La tesi delle televisioni di Berlusconi che costruiscono i cittadini che l’avrebbero votato è debolissima: la tv pubblica era allora in posizione ancor più dominante, ma i “convegni dei cinque” non hanno creato una maggioranza politicamente corretta. Più si batteva sul chiodo del conflitto di interessi, più la magistratura accusava, più la gente lo votava: ma l’antiberlusconismo, avanti per la sua strada, a coltivare il mito della propria superiorità morale, a dar la caccia agli inciuci, a garantire agli “estremisti di centro” la nicchia in cui custodire il dover essere della virtù repubblicana.
L’antiberlusconismo militante ha impedito di vedere nel successo del ’94 il desiderio del Paese di voltare pagina rispetto al consociativismo, al bipolarismo anomalo, all’utopia sociale cristallizzata nella nostra Costituzione. Era chiaro da tempo l’inadeguatezza, di visione e di gestione, di quei mediocri governi: l’ultimo barcollava, ma per mandarlo a casa c’è voluto il vincolo estero. Abituata a campare di antiberlusconismo, la sinistra, spiazzata al venir meno del tradizionale avversario, si rivela incapace di elaborare un discorso politico diverso da quello solito, della “alleanza tra forze riformiste”, per dire tra cattolici e sinistra. E quando un iconoclasta ne mette in questione gli equilibri sclerotizzati, sfida la coazione a ripetere (pas d’ennemis à gauche), guarda alla finanza senza subalternità (“abbiamo una banca!”) e senza preconcetti (“i banchieri delle Cayman!”), il riflesso pavloviano della sinistra organizzata del partito, e il timore delle élite di perdere il monopolio della superiorità morale, è quello di fabbricarsi un nuovo nemico sostituendo all’antiberlusconismo l’antirenzismo.
Fare a meno di Berlusconi: sarebbe un paradosso se la cosa riuscisse alla destra che anni fa ne è stata sdoganata e non alla sinistra che per anni lo ha esecrato. Sarebbe un paradosso se questa, per continuare a sfruttare la rendita della demonizzazione dell’avversario, si facesse stregare dalla sua ultima capriola e si lasciasse sfuggire l’occasione di giocare da protagonista la partita decisiva di dare la scossa giusta al Paese.
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ottobre 31, 2012