da Peccati Capitali
Era un genio chi coniò l’espressione “gabbie salariali”: ha una tale valenza negativa che da allora è impossibile riproporle. Nessuno, tra l’altro, se lo sogna, almeno com’erano prima della loro abolizione nel 1968, cioè con salari predeterminati dal centro su base regionale. Nel settore privato, la differenziazione territoriale dovrebbe essere il risultato di una contrattazione aziendale, che lega il salario alla produttività. In realtà le cose sono meno semplici: la CGIL non ci sta, i salari d’ingresso sono comunque uguali a quelli del nord, il modello applicato alla realtà delle aziende meridionali produce una crescita dei salari molto appiattita.
Ad essere differente è anche il costo della vita, minore nel Sud di una percentuale che Bankitalia stima nel 16%, ma che altri calcolano vicino al 30%. A parità di stipendi nominali, quelli reali – cioè ciò che si può comprare – sono maggiori al Sud nella stessa proporzione. Questo vale soprattutto nel settore pubblico, dando luogo a sperequazioni tra lavoratori e a incentivi distorcenti: al Sud è più conveniente lavorare nel pubblico che nel privato, e difatti al Sud i dipendenti pubblici sono più numerosi che al Nord in relazione a qualsiasi indicatore. Alberto Alesina ha calcolato che, se il numero degli impiegati in proporzione agli abitanti fosse lo stesso che al Nord, e tutti ricevessero lo stesso stipendio reale, la spesa per il pubblico impiego nel Sud sarebbe la metà. La differenza è un prelievo a carico del Nord.
Non c’è da stupirsi se sinistra e sindacati, che si oppongono a parametrare gli stipendi pubblici al costo della vita, perdono voti al Nord. Così, nella gabbia, rischiano di finirci loro.
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agosto 19, 2009