di Alessandro Penati
Da oltre dieci anni si discute dei problemi di Telecom Italia: un tormentone che si ripete fin dai tempi della privatizzazione.
Ma non si parla dell’azienda: servizi offerti, strategie, capacità di innovare, opportunità di crescita. Si discetta, invece, di proprietà e controllo o, meglio, dei problemi degli azionisti di maggioranza, di chi comanda (dei suoi amici e nemici), di piani e interessi del gruppo di controllo. Ma la problematica del controllo è fine a se stessa; non serve a gestire bene Telecom.
In questo contesto, si è aggiunta poi l’interferenza dei governi (di destra e di sinistra), nonostante l’azienda sia, da un decennio, privata al 100%. Così cambiano i nomi, dal piano Rovati del governo Prodi al piano Caio di quello Berlusconi, ma non la sostanza.
La vicenda è nota. Prima c’è stato il problema della montagna di debiti accumulata da Colaninno per conquistare Telecom (senza capitali), e per finanziare una massiccia campagna acquisti. Poi subentrano i problemi di Tronchetti che per ridurre i debiti vende quello che Colaninno aveva comprato; ma poi torna ad accumularne per fondere Olivetti, Telecom e Tim, senza diluire il suo controllo.
Alla fine, bisogna trovare una soluzione per far uscire Tronchetti prima che il debito diventi ingestibile per Pirelli. Ma c’è l’italianità da preservare. All’appello risponde il solito Trio: Mediobanca, con la fida Generali al guinzaglio, e IntesaSanpaolo, “banca di sistema”. Anche se il compito dell’azionista di controllo, cioè definire le strategie di una società, e verificare che il management le metta in atto, non è certo mestiere da banche e assicurazioni. Che anzi avrebbero fatto meglio a preoccuparsi di gestire casa loro.
Così, arriva Telefonica come partner industriale nel nuovo gruppo di controllo; che toglie le castagne dal fuoco a Tronchetti. Ma Telefonica crea più problemi di quanti ne risolva. Prevedibile, visto che le due aziende sono concorrenti. Il connubio apre conflitti di interesse di tutti i tipi: problemi di Antitrust e concorrenza in Sud America; operazioni con parti correlate, come nella cessione a Telefonica di Hansent (e nell’eventuale vendita di Brasile); problemi con le attività televisive, dove Telecom subisce la concorrenza di Mediaset, mentre questa tratta con la controllante Telefonica l’espansione tv nel mercato spagnolo. Senza contare i “piani” di marca governativa, sempre attenti agli interessi di Mediaset, per una rete in fibra che toccherebbe, guarda caso, gli interessi delle tv. In questo suk, non si capisce quale sia veramente la strategia che il Trio ha in mente per Telecom. Ma è chiaro che una simile sequenza di azionisti di controllo è stata deleteria per un’azienda che, a differenza delle altre privatizzate (come Eni, Enel, Autostrade), deve fronteggiare un tasso di innovazione senza eguali (da Facebook all’iPod, sono nati dopo il 2001), operare in un mercato domestico altamente concorrenziale, e in un panorama globale di progressive concentrazioni.
Bisognerebbe ricordarselo quando si parla di privatizzazione fallita. Il vero fallimento è l’ossessione di avere un azionista di controllo; e italiano. Disfarsene permetterebbe di concentrarsi sul futuro l’azienda: negoziando l’uscita di Telefonica, magari in cambio del Brasile; liberandosi di tutte le attività tv al miglior offerente; convertendo le azioni di risparmio per diluire il Trio, e aprire la strada a un aumento di capitale per espandersi e/o ridurre il debito; e lasciando allo Stato il progetto della mega rete in fibra: se vuole, se la faccia, visto che Telecom non potrebbe mai recuperare il costo del capitale.
E lasciando la retorica sul digital divide (come pensare di sviluppare l’economia della Barbagia costruendo un’autostrada a sei corsie fra Nuoro e Arbatax) e sulla internet-tv (in un paese già saturo di televisione), a chi con la retorica ci campa.
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