«Io, diessino, dico: una follia trattare con i Giolitti»

luglio 15, 2001


Pubblicato In: Varie


Intervista di Alberto Mingardi

Ogni volta che riattacco il te­lefono con Franco Debenedetti, non riesco a fare a meno di chiedermelo. Ma che ci fa a sinistra, che cosa centra questo signore piemontese, aristocratico e liberista, coi Diesse e le loro magagne. Boh. Credo che la risposta stia in quelle facce da assalto alla diligenza di cui pullula la destra italiana.

E sì che Debenedetti potrebbe dare le­zioni di liberalismo a una bella fetta dei parlamentari della Casa della libertà – per esempio sulla globalizzazione. Dialogare col popolo di Seattle? Non gli sarebbe mai venuto in mente. Cercare di capire, questo sì. Ma per rispondere, non per trattare. A dire il vero, forse lui li aveva già capiti prima che fossero un movimento di massa, quando le tesi dei giottini erano uno sfizio per qualche pantofolaio di sinistra. Scrivendo la prefazione a “Perché essere ottimisti sul futuro del lavoro”, di Mauricio Rojas, un globalizzatore convin­to, Debenedetti citava Bacone. «Perciò ottima è la sentenza di Era-dito: gli nomini vanno a cercare le scienze nei loro piccoli mondi, non nel mondo più grande, identico per tutti». Ditemi voi se non c’è un pezzetto di verità, una goccia di preveggenza sulle (s)ragioni di Agnoletto e compagnia.

Senatore Debene­detti, Livia Turco e Gio­vanna Melandri fanno sapere che a Genova saranno in prima li­nea, assieme ai con­testatori. Lei in Senato s’è dissociato dall’or­dine del giorno del suo gruppo, quello che de­finiva ‘puntuali” le proposte abbozzate dal Genoa Social Fo­rum. Sicuri di stare nello stesso partito?
«La sinistra è plura­le, e questa non è certo una novità. Diciamo che avevo, da liberale, le mie buone ragioni per votare contro…».

Quali?
«Prima di tutto non condivido la richiesta al governo di prendersi l’impegno di sostenere in sedi internazionali l’introduzione di forme di tassazione sulle transazioni finanziarie. Che sarebbe un modo sbagliato di affrontare il problema, ammesso che il problema ci sia. E una questione di metodo, ma anche di contenuti – si comincia a ragionare nell’ottica di un “governo unico mondiale” che francamente non mi sembra il massimo, in termini di liberalismo».

E poi, proprio quell’ordine del giorno, sposava di fatto il punto di vista del Social Forum.. Nonché il manifesto delle asso­ciazioni cattoliche.
«Bisogna tenerne conto, non ci piove, ma non potevo sottoscrivere un documento in cui c’era scritto che si tratta di punti di vista “totalmente condivisibili” e “puntuali nelle soluzioni proposte”…».

Come mai le tesi dei giottini sono di­ventate un po’ il collante della sinistra italiana dopo la batosta elettorale?
«Spero proprio che questo non sia il collante della sinistra, e a dire il vero non credo neppure che lo sia. Ci sono posizioni diverse… non solo la mia e quella di “Libertà eguale”… Ma penso anche a Umberto Ranieri piuttosto che a Lamberto Dini, tanto per fare due nomi».

Ma allora perché la sinistra subisce così forte il fascino della protesta antiglobal?
«La questione è complessa. ll fenomeno del “popolo di Seattle” dimostra che, con buona pace di Hegel, non sempre ciò che è reale è razionale. Questo movimentismo è del tutto irrazionale, ma c’è, è una realtà lo stesso. Credo sia giusto cercare di capire cosa c’è dietro. Ma un conto è questo tentativo di comprensione, un altro con­dividerne le istanze. E, diciamola tutta, l’antiglobalismo non è solo di sinistra».

Ha molti volti.
«Precisamente, è un calderone, ci si ri­trovano fianco a fianco certe pulsioni ecu­meniche ed il più bieco protezionismo di agricoltori e sindacati».

Resta il fatto che, sostenendo più o meno apertamente i giottini, la sinistra italiana finisce per sposare una visione del mondo che fa parte del Dna della destra estrema…
«Sì, è così… Come dire, senz’altro in Bové c’è un po’ di Le Pen… Si comincia con la spinta a preservare le identità nazionali a tutti i costi, poi si passa alla lotta contro l’ “omo­logazione” (qualsiasi cosa voglia dire). E di lì si arriva al tiro al McDonald’s, alle di­chiarazioni di guerra alle multinazionali, alla messa al bando degli Ogm. Questo luddismo antiscientifico è sen­z’altro una componen­te importante di questi movimenti antiliberali, ma non la sola”

Quali sono le altre? Quella cattolica?
«Quella cattolica. E quella ambientalista. Ecco, mi riesce difficile che capire quale è il filo rosso che le lega… Non so cos’abbiano in co­mune quell’attacca­mento morboso a una tradizione che è un fe­ticcio, i formaggi di Bo­vè, e la cancellazione del debito al terzo mondo. Sono cose in aperto contrasto, an­che perché poi la can­cellazione del debito qualcuno la paga…».

Cosa intende?
«Cancellare il debito, ricordo di averlo sentito dire anche da Veltroni, vuol dire istantaneamente abo­lire i dazi sui prodotti agricoli del terzo mondo, per riequilibrare la situazione. Pra­ticamente, per realizzare quel provvedi­mento che è una bandiera di certo an­tiglobalismo, bisognerebbe scontentare un altro settore del popolo di Seattle…».

Insomma i contestatori di Praga, di Bo­logna, di Genova sono tanti ma male as­sortiti.
«C’è un filone smaccatamente protezio­nista, “egoista” europeo contro le altre cul­ture, che va dal non molliamo i nostri posti di lavoro fino al salvate Heidi e le caprette…. E che questo egoismo protezionista finisca per marciare assieme all’altruismo cattolica è veramente singolare. Caino e Abele ri­conciliati».

C’è anche un atteggiamento di fondo completamente diverso, per esempio, nei confronti dell’economia…
«Ed è un’altra contraddizione che salta all’occhio: quella dei lepenisti è in fondo una concezione ingenua dell’economia, per cui la torta ha una certa dimensione, il lavoro è una quantità data e si tratta di dividerlo. Quindi quanta più gente entra, quanto più piccola è la torta che ci possiamo mangiare. Cosa c’è di più contrario al­l’ideale cristiano? Per i cattolici, “ce n’è per tutti”, si tratta solo di dividere più giu­stamente la torta».

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